Qual è la vostra valutazione complessiva dell’attuale progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario? Quali sono i suoi aspetti più positivi e condivisibili e quali i suoi tratti più negativi?
CASTELLI: L’attuale disegno di legge in discussione al Senato è un brutto progetto che risente della sua genesi: elaborato dal Ministro Bonafede, rivisto tenendo conto molto parzialmente del prodotto della commissione Luciani, arrivato ad un testo che aveva una sua razionalità ed equilibrio, poi di gran lunga peggiorato dagli interventi punitivi delle varie forze politiche della composita maggioranza di governo e dalle conseguenti mediazioni al ribasso. Il frutto è un brutto collage, privo di un’anima e di un filo conduttore chiaro. L’unica direzione che risulta distinguibile è quella di un ridimensionamento e di una rivalsa nei confronti della magistratura. Ci sono anche misure positive che vanno viste con favore, mi limito solo a due tra le più significative: il ritorno al concorso di magistratura immediatamente dopo la laurea e l’attenzione per la formazione per le funzioni direttive e semidirettive.
Quanto ritengo più pericoloso sono alcuni filoni sotterranei relativi al lato valutativo e organizzativo che permeano più norme e che costituiscono un messaggio culturale inquinante.
- Un aziendalismo primitivo che si illude di perseguire l’efficienza badando solo alla quantità, come se il prodotto giudiziario fosse omogeneo, non complesso e diversificato, e come se l’unico problema fosse di quantità. Un’ottica fordista superata da tempo anche a livello industriale, del tutto inadeguata alla specificità giudiziaria e che porterebbe a privilegiare le soluzioni più rapide e semplici (per il magistrato), non quelle più giuste.
- Una falsa meritocrazia, come si desume dalle c.d. pagelle, tutta basata sulle capacità organizzative. Da un lato si vorrebbe una sorta di classifica per premiare i magistrati eccellenti, dimenticando che quanto conta per il cittadino è che il normale magistrato sia idoneo, capace e adeguato, non di avere una piccola casta di supermagistrati. Dall’altro vengono ignorati aspetti fondamentali per la figura del buon magistrato, quali la preparazione scientifica, la bontà dei provvedimenti, l’equilibrio, la capacità di ascolto. L’unica cosa che conta sembra essere la, pur importante, capacità organizzativa.
- L’illusione di risolvere la gestione degli uffici giudiziari ed il perseguimento dell’efficienza con la gerarchizzazione, accompagnata dalla minaccia di sanzioni disciplinari. L’idea che si possano avere risultati tramite un ampliamento dei poteri dei dirigenti, sorretto da norme disciplinari, è perdente. Solo con la condivisione e con il coinvolgimento di tutti si ottengono risultati ed il dirigente è capace se è autorevole, punto di riferimento dei magistrati dell’ufficio e di tutti gli operatori, non se è espressione di puro potere gerarchico assistito dalla paura del disciplinare.
- La tentazione di far diventare l’intervento disciplinare strumento di governo. Vengono introdotti nuovi illeciti disciplinari e si estendono ipotesi di illeciti già esistenti che non possono portare a nessun risultato dal punto di vista della produzione e della qualità.
Il risultato che rischiamo di avere è di incrementare una giustizia difensiva con una forte burocratizzazione interna, in cui importante sarà avere le carte a posto sotto il profilo puramente formale, e non la capacità di dare giustizia.
MANNUCCI: Non è questa la sede per compiere un’articolata valutazione di tutti i profili della riforma: di molte previsioni non si è proprio discusso nel dibattito pre-sciopero, evidentemente perché sono state considerate positivamente anche dalla magistratura.
Penso all’art. 2, con riferimento sia alla disciplina delle funzioni direttive e semidirettive, che alla formazione e approvazione delle tabelle di organizzazione degli uffici. Sul conferimento delle funzioni di legittimità (un ambito su cui non ho sufficiente esperienza per una valutazione specifica), mi pare che le criticità segnalate riguardino profili di dettaglio che potranno essere superate nell’attuazione delle delega.
Anche l’art. 4 è stato esente da valutazioni critiche, anche se la mia idea dell’accesso è molto diversa da quella reintrodotta dalla riforma (ma imporrebbe la radicale innovazione delle modalità di selezione dei magistrati, che qui non vi è spazio per affrontare).
Infine, gli interventi programmati all’art. 5 sono generalmente ben valutati, non stravolgono certo la regolazione della materia degli incarichi, ma costituiscono un tentativo di riordino, su cui la stessa magistratura aveva auspicato un intervento legislativo.
Di questi tre articoli, quindi, non discuto, anche se forse andava detto che sono riforme tendenzialmente opportune.
Vediamo l’art. 3, su cui si sono concentrate le valutazioni critiche.
Sono quattro ambiti di intervento, a loro volta contenenti diversi profili.
Il primo ambito riguarda le “famigerate” gravi anomalie.
Io non credo che le “gravi anomalie” nel rapporto provvedimenti e loro riforma o l’inserimento nel nuovo fascicolo personale di alcuni provvedimenti a campione dei magistrati, anche con l’esito degli affari trattati minerà la loro indipendenza e autonomia.
Vogliamo negare che esista in magistratura un problema di valutazione della professionalità?
Riteniamo che le percentuali non di mera adeguatezza, ma di ottima professionalità superiore alla media sia solo una strumentale accusa di chi vuole ridurre la nostra indipendenza?
Io credo di no.
La valutazione di professionalità deve essere effettiva per garantire l’indipendenza e l’autonomia e l’aumento di fonti di conoscenza non è un vulnus delle stesse, quanto piuttosto un valore aggiunto per un’adeguata valutazione (io vorrei essere valutato su quello che faccio e scrivo, il problema è che spesso le valutazioni di fondano su altro o non vengono proprio fatte).
Allora, inserire tra gli elementi di valutazione anche le “gravi anomalie” nel rapporto tra provvedimenti emessi e riforme degli stessi nei gradi successivi di giudizio è un elemento aggiuntivo che consente una verifica più adeguata.
Io ho difficoltà ad attribuire un significato alle norme fuori dal loro contesto applicativo. Per me le norme assumono significato nella loro portata di regolamentazione delle situazioni di fatto cui si riferiscono.
Per questo mi sono sorpreso che si sia individuata quella norma come indicativa del desiderio di rivalsa della politica e vulnus alla nostra indipendenza e autonomia, perché quel parametro esiste già nella procedura di valutazione periodica dei magistrati.
In questi anni ho redatto decine (forse oltre 100) pareri quale consigliere del Consiglio Giudiziario, decine di rapporti informativi per i giudici della sezione che presiedo e quell’elemento di valutazione doveva essere affrontato e valutato. Certo, né il Ministero, né il CSM hanno mai fornito i dati, per cui i dirigenti sono stati costretti a inserire spesso frasi di stile per escludere l’esistenza di anomalie, ma i magistrati più scrupolosi (soprattutto i civilisti, che hanno un sistema artigianale di verifica della tenuta delle loro sentenze) indicavano nell’autorelazione gli esiti di quella verifica.
Ma allora cosa è cambiato con l’introduzione di quell’espressione, peraltro ancora meno rigida di quella in vigore (dal 2007!) dove si indica semplicemente che le anomalie dovranno essere verificate?
Forse perché la norma del 2007 non era attuata pienamente era meno pericolosa dell’attuale?
Questo si è detto dai critici della lett. g) del comma 1 dell’art. 3: oggi quella è solo una norma sulla carta, domani quella verifica verrà effettivamente attuata. Argomento che trovo, francamente, debolissimo.
Ma poi, chi valuterà le “gravi anomalie”?
Come sempre il sistema dell’autogoverno, i Consigli Giudiziari e il CSM, cioè noi.
Insomma, francamente non capisco questo allarme su un indicatore dei parametri di valutazione che esisteva prima della riforma Cartabia e che la stessa riforma rende più garantito per i magistrati.
Vi chiedo, se il 60% delle mie sentenze viene riformato in appello (ho utilizzato una % intermedia, ma l’autogoverno determinerà il livello di gravità delle anomalie), qualche problema su come svolgo le funzioni di giudice secondo voi c’è? Oppure è il giusto esplicarsi della piena autonomia del magistrato?
Io credo che qualche verifica sull’adeguatezza di quel giudice vada fatta senza timori di minarne l’autonomia, senza paura di renderlo conformista.
Il tema della valutazione è certamente più complesso di quello attuato con la riforma.
Io, per esempio, non vorrei valutazioni che creano graduatorie di magistrati, ma dalla mia esperienza di Consiglio Giudiziario ho dedotto che molti dei valutati e dei valutatori vogliono proprio questo, assegnare aggettivi ai magistrati, secondo parametri fondati più sulla conoscenza personale e sull’appartenenza che non su un’oggettiva valutazione delle fonti di conoscenza. Questa riforma, quantomeno, abolisce l’aggettivo eccellente, che spesso è utilizzato per creare graduatorie e, quindi, carriere (io imporrei in sede di valutazione di professionalità di abolire proprio gli aggettivi, non perché siamo tutti uguali, ma perché la valutazione di professionalità non deve servire a creare graduatorie)
Il secondo profilo riguarda la partecipazione degli avvocati al procedimento di valutazione della professionalità all’interno dei Consigli Giudiziari.
Io sono un sostenitore dell’allargamento dei poteri/doveri degli avvocati nell’attività dei Consigli Giudiziari, in particolare nelle competenze riguardanti le incompatibilità e le valutazioni di professionalità.
Sul primo ambito, al termine dello scorso Consiglio Giudiziario di Milano ho proposto, insieme alla componente laica, l’allargamento delle competenze degli avvocati e dei professori nelle pratiche di incompatibilità, ritenendo che fosse quello nel quale l’avvocatura aveva il maggiore interesse a intervenire, per non consentire un annacquamento dell’immagine di imparzialità e terzietà del magistrato. Quel tentativo fallì e il nuovo Consiglio Giudiziario non l’ha neanche preso in considerazione, attuando modalità di partecipazione dei consiglieri laici ancora meno “aperte” e giungendo persino a mettere in discussione il diritto di tribuna (a Milano consolidato da decenni).
Con riguardo alla procedura di valutazione dei magistrati, vi confesso che ho più paura del “correntismo” che di un punto di vista esterno che fornisca elementi di valutazione del lavoro del magistrato della cui professionalità si discute. Nella mia esperienza, premessa l’irrilevanza statistica delle valutazioni negative (lo 0,1%, forse lo 0,2%), il sistema funziona solo con riguardo alla creazione di graduatorie tra magistrati buoni (il sufficiente non è parametro di valutazione contemplato), discreti, ottimi ed eccellenti e, spesso, sono i rapporti di conoscenza o quelli di appartenenza a indurre l’attribuzione dell’aggettivo migliore.
Tornando al ruolo degli avvocati, il sistema prospettato dalla riforma è molto garantito, attribuisce una responsabilità all’avvocatura piuttosto che riconoscergli un potere. Ci sarà da verificare se l’avvocatura sarà in grado di assumersela quella responsabilità, ma se lo facesse i magistrati dovrebbero solo esserne contenti, perché l’indicazione di fatti specifici (positivi o negativi) su come un magistrato ha lavorato nel quadriennio aumenta la conoscenza, rende più effettiva la valutazione.
Il terzo ambito concerne la gerarchizzazione degli uffici (anche di quelli giudicanti).
Non credo che attribuire qualche potere in più ai dirigenti (ai dirigenti degli uffici, non ai semidirettivi che per me dovrebbero essere aboliti come incarico e diventare coordinatori dei dipartimenti e delle sezioni mediante la tabellarizzazione) significhi gerarchizzare (e quindi ridurre l’indipendenza e l’autonomia del singolo). Più potere significa più responsabilità, più obiettivi mancati di cui rendere conto, maggiore verifica sull’adeguatezza dei dirigenti a svolgere l’incarico. Viviamo in un sistema di controlli straordinario, il singolo magistrato ha il potere di segnalare disfunzioni del suo dirigente e i meccanismi di autogoverno (il Consiglio Giudiziario in particolare) hanno il potere/dovere di intervenire in situazioni di inadeguatezza del dirigente e lo fanno spesso, anche rispetto a dirigenti autorevoli. Io mi sono sempre sentito garantito da un organismo plurale come il Consiglio Giudiziario e tanti magistrati, anche giovani, hanno interloquito rispetto a scelte del dirigente non condivise, ottenendo spesso riscontri dall’organo di autogoverno. Ma che paura abbiamo?
Nei giorni della mobilitazione è girato un interessante articolo di Claudio Castelli, che pone due questioni, quella del potere del dirigente dell’ufficio (quindi, ancora la gerarchizzazione) e il disciplinare.
Sul primo, Claudio propone una sua condivisibile idea di organizzazione dell’ufficio: quali progetti dovrebbe proporre il dirigente, il cambio di prospettiva che dovrebbero adottare i capi degli uffici giudiziari e su come questa riforma non sposi questa prospettiva.
Claudio ha ragione, se noi avessimo dirigenti degli uffici giudiziari moderni, dirigenti del Ministero con una prospettiva non produttivistica, se gli uffici fossero organizzati come le più moderne strutture lavorative, con un’attenzione alla qualità del servizio offerto più che alla “fordistica” efficienza, il sistema giustizia funzionerebbe meglio.
Se…
Oggi noi abbiamo soprattutto un problema di tempi della giurisdizione, che non è solo responsabilità della magistratura, ma che dipende anche da noi (e con tutto il rispetto, soprattutto dai nostri dirigenti, che, a mio parere, non sono del tutto e tutti adeguati). Io credo che ci sia un tema di responsabilità dei dirigenti, che non è quello di attribuzione di potere, di gerarchia, di controllo dei propri giudici, quanto piuttosto di verifica da parte dell’autogoverno del modo in cui si svolge quell’incarico. Gli obiettivi fissati nella riforma sono sbagliati e inadeguati? Benissimo, cambiamoli. Ma se si vuole verificare come quel dirigente ha svolto l’incarico, è necessario che la struttura (cioè anche i giudici) siano coinvolti in quel progetto di raggiungimento degli obiettivi.
È un discorso articolato, che non si può risolvere in poche righe, ma francamente trovo eccessivo lamentare un vulnus all’indipendenza del singolo magistrato nella prospettiva di considerarlo come parte di una struttura collettiva che deve operare per realizzare obiettivi (ripeto, non solo produttivistici).
Quindi, il disciplinare.
L’aumento delle violazioni disciplinari non lo condivido. Non lo condivido come idea. Non è con il disciplinare che si consente ai magistrati di lavorare meglio. Ecco, questa è l’unica cosa che trovo criticabile, più nel suo simbolismo che nella concreta capacità di “attentare” all’indipendenza.
Sarebbe troppo lungo soffermarsi sulle specifiche ipotesi, alcune delle quali collegate all’attuazione del programma di gestione.
Io capisco che l’obbligo di collaborare all’attuazione del programma di gestione può incidere sull’attività giurisdizionale del singolo magistrato, ma indubbiamente è una specificazione del dovere di collaborazione che già oggi è tra gli indicatori per la valutazione di professionalità. È vero, il programma di gestione può essere sbagliato (ma allora dovrà essere contrastato dai giudici in fase di approvazione e non approvato dal Consiglio Giudiziario e dal CSM), è vero, non è con il disciplinare che si interviene per sollecitare i giudici a collaborare nel raggiungimento degli obiettivi dell’ufficio, ma non bisogna mai confondere l’indipendenza e l’autonomia del singolo nella giurisdizione con l’organizzazione dell’ufficio, che non può essere vissuta come gestione individuale del proprio ruolo e dello stesso ufficio.
L’ultimo punto è la separazione delle funzioni.
Su questo credo che le contrapposizioni (che ancora dividono le categorie, magistrati e avvocati, ma anche il Paese) non aiutino. Io dico solo che la magistratura non può ignorare che nella cultura giuridica (non solo e non tanto nell’opinione pubblica) l’idea che la separazione delle carriere sia l’inevitabile approdo del processo accusatorio è largamente condivisa. Non conosco un professore di procedura penale che non la sostenga, i laureati in legge del nuovo millennio sono stati “formati alla separazione”, parlare con i MOT degli ultimi dieci anni mi ha fatto capire che per loro la unitarietà delle carriere non è un dogma.
È giusto? È sbagliato? È incostituzionale?
Possiamo pensarla come vogliamo, possiamo credere che solo noi magistrati siamo in grado di valutare i danni della separazione e che il resto del mondo (anche la cultura giuridica delle nostre università) sbagli e non si renda conto dei pericoli, ma mi darete atto che è una posizione un po’ presuntuosa. Io credo di essere consapevole dei pro e dei contro della separazione, ma arroccarsi nel dogma (come a contrario fa l’avvocatura) non ritengo sia utile. Perché mi chiedo: se passassero i referendum (lo so, non raggiungeranno il quorum), che facciamo, scioperiamo contro il popolo sovrano?
Contro il progetto di riforma l’ANM ha indetto uno sciopero. Decisione giusta o criticabile? Una scelta necessaria oppure evitabile (o almeno procrastinabile) in favore di altre possibili iniziative da adottare nel corso dei lavori parlamentari?
CASTELLI: Si potevano pensare anche momenti di protesta diversi, ma sicuramente hanno inciso sia una continua modifica dei testi del d.d.l. che ha reso difficile qualsiasi interlocuzione, sia dichiarazioni bellicose e spesso offensive per la magistratura rese da diversi protagonisti politici, sia i tempi ristretti di discussione parlamentare. La scelta dello sciopero può essere stata opinabile, ma chi l’ha proposto voleva proprio sottolineare la gravità di molte delle previsioni contenute nel d.d.l. adottando lo strumento più forte ed estremo. Non dobbiamo dimenticare che la discussione sulla “riforma” ha visto avvicinarsi all’associazionismo e al dibattito culturale una nuova generazione di magistrati che si è sentita umiliata dalla “riforma” e dal dibattito politico che l’ha accompagnata. Generazione che è stata la più decisa e risoluta a favore dello sciopero.
MANNUCCI: Non ho partecipato alle assemblee all’esito delle quali è stato proclamato lo sciopero. Non l’ho fatto perché ero convinto di essere in netta minoranza rispetto alle posizioni espresse nel documento di Busto Arsizio, che pareva esprimere il sentire diffuso della magistratura. Avevo preferito non esprimere il mio dissenso per rispetto verso l’associazione di cui mi sento a pieno titolo partecipe (anche attivo, pur con meno coinvolgimento di un tempo).
Ho partecipato a due incontri nella settimana precedente allo sciopero, nei quali ho compreso che le posizioni sulla protesta non solo non erano netta maggioranza, ma non erano condivise da tanti magistrati “qualunque” (come mi considero anch’io).
Lì ho espresso le mie posizioni, forse in ritardo, ma non credo che farlo prima avrebbe cambiato la direzione delle scelte dell’ANM.
Non solo ho trovato questo sciopero non congruo rispetto all’obiettivo perseguito, ma ero anche contrario alla piattaforma di rivendicazione. È vero, questa riforma non migliorerà l’efficienza del sistema giustizia, ma è una riforma ordinamentale, che interviene solo su quello e, al di là delle sensazioni (non credo che le norme vadano valutate per le sensazioni), non in termini punitivi o addirittura ritorsivi contro la magistratura.
Piuttosto, proviamo a proporre (e perché no, arrivare a scioperare) riforme per una migliore efficienza e qualità della giurisdizione, copertura organico (però, forse, dovremmo essere meno severi nella valutazione ai concorsi, quest’ultimo 220 ammessi agli orali rispetto a 320 posti a concorso, il 30% in meno!), copertura amministrativi (soprattutto in sedi dove la scopertura arriva al 30%), introduzione di criteri adeguati di valutazione dei dirigenti (e scelta oculata degli stessi… ah, ancora il correntismo).
Da due mesi sono entrati in servizio 7000 giovani laureati che, non so a voi, ma a me sembrano la più importante riforma per migliorare il servizio da quando sono entrato in magistratura. Una struttura straordinaria, giovani preparati e motivati, che, talvolta, i giudici non vogliono utilizzare adeguatamente. Ma molti lo fanno. Ho sentito qualche G.I.P. chiedersi come facevano quando non c’erano funzionari dell’ufficio per il processo e tirocinanti. Io dico solo che la sezione che presiedo sta avendo un cambio di marcia pazzesco da quando ci sono, in termini di efficienza e qualità del lavoro.
Ecco, io per la stabilizzazione degli UPP sciopererei.
Al di là dei luoghi comuni - il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto - l’esito dello sciopero fotografa una divisione a metà della magistratura. Pensate che questo dato sia dovuto a fattori contingenti, concernenti “questa” specifica astensione, o che esso rispecchi più profonde trasformazioni e differenziazioni verificatesi nel corpo della magistratura?
CASTELLI: Lo sciopero non è stato un successo, ma neppure un fallimento. Ha fotografato una forte frammentazione della magistratura italiana in cui agiscono e si intersecano diverse componenti, quella sociologica, quella generazionale, quella relativa alla provenienza, quella territoriale e quella culturale. Una frammentazione, che rende difficile trovare una sintonia ed una sintesi. L’avversione alla “riforma” non riguarda solo coloro che hanno partecipato allo sciopero, ma anche molti che non hanno condiviso lo strumento adottato. Ora si tratta di capire le ragioni di questa frammentazione così accentuata, che è all’origine della diversa riuscita dello sciopero nelle diverse sedi, per ricostruire con pazienza ed umiltà un’unità della magistratura ed un raccordo della magistratura con quella società civile oggi così lontana.
MANNUCCI: In questi anni mi sono allontanato dall’impegno associativo, ho perso il polso della situazione. Non sono in grado di valutare se effettivamente possa affermarsi che la magistratura è divisa a metà perché vi è stato un consenso dimezzato rispetto a una questione così specifica come l’astensione. Quindi, per me è questo sciopero che ci ha diviso, mentre sento ancora di condividere con molti magistrati un’idea di giurisdizione non dissimile da quella di vent’anni fa. La magistratura è cambiata, i magistrati entrati negli anni 2000 hanno diversi punti di riferimento culturali e professionali, anche se molti di loro si sono formati nella nostra cultura comune. Ci sono orizzonti valoriali, modi di lavorare, una cultura giuridica diversi (l’impegno associativo, quello di corrente, la politicità della presenza della magistratura associata e di quella di corrente nella realtà sociale, che oggi mancano, la logica della carriera, una meritocrazia che pone al centro il magistrato, alcuni valori interni al processo, quale il venir meno del dogma della separazione delle carriere, l’acquisizione dei principi del processo accusatorio, la digitalizzazione dell’attività processuale, che sono presenti nei millennials), ma la divisione, anche in questo sciopero, non è passata tra i giovani e i meno giovani, quanto piuttosto tra chi, ragionando, ha ritenuto le rivendicazioni associative non condivisibili per esperienza professionale (i civilisti mi sono parsi meno sensibili allo sciopero), per concezione del ruolo, per maggiore o minore coinvolgimento nell’associazione.
Molti dei principi fondanti l’assetto della magistratura sono "controintuitivi". Ad esempio, l’eguaglianza di quanti amministrano giustizia e la ricerca di una elevata professionalità “media” in luogo delle graduatorie dei migliori si pongono su di una lunghezza d’onda molto diversa da quelli di altri settori professionali. È ancora possibile, come è avvenuto in passato, spiegare ai cittadini il significato di questi valori e invitarli a difenderli come loro beni? Attraverso quali percorsi e quali autocritiche sul carrierismo, sulle attuali valutazioni di professionalità, sul rispetto dell’etica?
CASTELLI: La situazione sembra disperata. Non passa giorno senza che ci siano attacchi, spesso del tutto ingiustificati, alla magistratura o a singoli. Né in molti tra di noi credo ci sia consapevolezza che questo si nutre anche dei nostri errori, che non riguardano solo la vicenda Palamara, ma anche di microcorporativismi, di atteggiamenti che paiono arroganti e di decisioni non adeguatamente motivate e spiegate.
D’altra parte gli attacchi, spesso indiscriminati e ingiustificati, a quello che è un potere dello Stato ed un servizio pubblico portano solo alla distruzione dell’istituzione e ad indebolire la nostra collettività e, in definitiva, i diritti dei cittadini.
Credo che la risposta che dobbiamo dare agli utenti debba riguardare diversi piani. Innanzitutto l’esempio, anche personale, di cui ciascuno di noi si deve sentire investito, a livello di professionalità, di etica, di comportamento nei confronti di chi usufruisce del nostro servizio. In secondo luogo siamo chiamati, specie in questo periodo, a dimostrare che è possibile far funzionare i nostri uffici, che è possibile organizzarli adeguatamente, che è possibile avere risultati sia sotto il profilo dei tempi e dei numeri, sia quanto alla qualità. Abbiamo molti esempi virtuosi ed uffici che possono tranquillamente competere con i migliori d’Europa, ma sono tutti casi che restano in secondo piano, a fronte di vulgate solo negative.
Infine dobbiamo renderci conto che la comunicazione è strategica. Sia la comunicazione istituzionale per far sì che il cittadino sia facilitato nell’accesso e veda i Palazzi giustizia come un luogo non lontano ed ostile, sia esterna per diffondere le molte esperienze virtuose e la capacità che abbiamo, più spesso di quanto si crede, nonostante tutto, di dare una giustizia effettiva.
MANNUCCI: Per slogan.
Rivendico la legittimità del sistema di valutazione di professionalità che non crei pagelle e graduatorie tra i magistrati. Come ho già detto, escluderei proprio l’aggettivazione dell’adeguatezza, ritenendo che la verifica di professionalità debba servire solo ad attestare che periodicamente tutti i magistrati mantengono un livello di professionalità adeguato alla prosecuzione delle funzioni. Nella mia prospettiva, l’autogoverno deve esaminare fonti di conoscenze più ampie possibili (quindi, essere rigoroso nell’acquisizione di elementi valutativi), ma al solo fine di concludere per un giudizio binario adeguato/non adeguato.
Ma la magistratura non vuole questo.
Il magistrato in questo è schizofrenico: non vuole che siano ampliate le fonti di conoscenza, ma vuole che la propria valutazione di professionalità conduca a una sua collocazione tra i migliori, pretende un parere straordinario, che inserisca tutti gli elementi del proprio percorso professionale e li valuti con giudizio che deve avvicinarsi quanto possibile all’eccellenza.
La schizofrenia sta proprio in questo. Se si pretende di essere inserito in una graduatoria, si deve accettare una valutazione più ampia possibile, dove tutti i protagonisti del sistema possono inserire elementi oggettivi di valutazione (il dirigente, i colleghi della sezione o del dipartimento, il personale di cancelleria, le parti, l’utenza).
Se così non è, la valutazione di eccellenza è il risultato di un sistema dove contano più le conoscenze e le appartenenze.
Se poi dovessimo ragionare sul sistema consiliare, su quello che è emerso dalle chat del processo perugino, deve concludersi che il carrierismo è ormai un virus ineliminabile, perché ha coinvolto la base della magistratura.
Il mio ottimismo mi induce a credere che spiegare si può, che le ragioni di un sistema di valutazione di professionalità come quello definito nella domanda siano inattaccabili e non mi sono mai sentito in difficoltà a spiegarle.
Certo, carrierismo, inciampi etici, “sistematicità del sistema” non agevolano, ma questo attiene al campo del percorso che è mancato dal maggio 2019 in avanti.
Se non ho inteso male, di recente il segretario di MD ha lanciato un percorso di verità e giustizia sui danni del sistema emerso dalle chat di Palamara. Due anni fa (era il giugno 2020), insieme ad Adriano Scudieri, formulammo una serie di proposte di ripensamento critico del sistema (tra le altre, una sorta di commissione di verità e giustizia sui guasti del correntismo); quelle proposte furono ignorate da tutti, forse perché la magistratura non voleva verità, forse perché a molti andava bene che fossero pochi capri espiatori a pagare le conseguenze di quelle rivelazioni.
Vorrei finire con la citazione di quella proposta, ignorata allora e che ormai, oggi, avrebbe poco senso, anche se quell’ammissione di responsabilità non è mai stata fatta.
«…Pensare ad un momento di ammissione collettiva delle responsabilità, ammissione collettiva che passa dal personale coinvolgimento di ciascuno nello svelamento del sistema. Un momento di verità e riconciliazione, gestito e promosso dall’ANM (che deve recuperare un suo ruolo anche di fronte agli stessi magistrati) in cui chi ha partecipato al sistema (anche solo tollerandolo) lo ammetta, non tanto per la funzione catartica che tale ammissione può comportare, né per il valore etico dell’ammissione di corresponsabilità, ma per rendere evidente che quel sistema non poteva fondarsi esclusivamente sui rappresentanti, ma coinvolgeva anche i rappresentati».
Diamo appuntamento ai lettori tra qualche giorno con un ulteriore confronto.