Magistratura democratica
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Le domande di Questione Giustizia a Nicolò Grimaudo, giudice del Tribunale di Busto Arsizio, e a Giulia Locati, giudice del Tribunale di Torino

In un periodo di aspre ed incessanti polemiche sulla giustizia e sulla magistratura, il Parlamento è prossimo all’approvazione di un disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della magistratura.
Il direttore di Questione Giustizia, Nello Rossi, ha posto a magistrati, diversi per età e per le funzioni svolte, alcune domande – volutamente sempre le stesse – sui principali aspetti della vicenda istituzionale in corso: la valutazione del progetto di riforma; il giudizio sulla scelta dell’astensione dal lavoro; le trasformazioni in atto nella magistratura; i percorsi da intraprendere per riconquistare la fiducia dei cittadini dopo gli scandali sulle nomine. 
Lo scopo dell’iniziativa è quello di rappresentare - in termini più approfonditi ed argomentati di quanto sia possibile sui media generalisti - la pluralità dei punti di vista e delle prospettive che coesistono in seno alla magistratura.

Qual è la vostra valutazione complessiva dell’attuale progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario? Quali sono i suoi aspetti più positivi e condivisibili e quali i suoi tratti più negativi?

GRIMAUDO: Ritengo condivisibile, almeno in linea di principio, l’introduzione della possibilità di accedere al concorso immediatamente dopo la laurea.

In tal modo si garantisce, infatti, non solo un più rapido inserimento del singolo nella società del lavoro (a beneficio proprio e della collettività) ma anche una distribuzione più meritocratica ed egualitaria delle opportunità di accesso alla magistratura (in linea con il principio di cui all’art. 51 Cost.), che i tempi e i costi di una formazione post-universitaria pregiudicano, di fatto, a molti aspiranti colleghi.

L’abbreviazione del percorso formativo richiederebbe, tuttavia, un più generale ripensamento della formazione universitaria, che miri a favorire una maggiore partecipazione attiva dello studente, un costante esercizio all’argomentazione (orale e scritta) e una più frequente partecipazione a tirocini e stage.

Per il resto, la bozza di legge delega suscita gravi riserve critiche. Due fra tutte.

1. Valutazione di professionalità.

Nessun dubbio che la sussistenza di gravi anomalie nella capacità e nella preparazione giuridica del magistrato possa essere desunta (come già avviene) da un elevato tasso di riforma dei suoi provvedimenti: difficilmente, infatti, ciò potrebbe giustificarsi come fisiologica esplicazione dell’autonomia interpretativa.

La “capacità di resistenza” dei provvedimenti ai successivi gradi di giudizio, tuttavia, non può che essere apprezzata in termini percentuali rispetto al totale di quelli emessi in un congruo arco temporale: ossia, con metodo necessariamente statistico.

Estraneo a tale metodo è, invece, l'acquisizione a campione dei “provvedimenti relativi all’esito del procedimento” che il Consiglio giudiziario, in base al disegno di legge, deve effettuare in ogni caso.

La non conformità tra decisioni di gradi successivi, evidentemente, può dipendere dalle più svariate ragioni: da veri e propri errori (del primo come del secondo giudice), certo, ma anche da sopravvenienze o da differenti esiti dell’attività di interpretazione e accertamento.

Per il tramite dell’estrazione a campione (quale che sia il numero, maggiore o minore, di provvedimenti acquisiti) si finirebbe, quindi, per investire il Consiglio giudiziario di distinzioni complesse e ampiamente discrezionali: attribuendogli, in definitiva, l’impensabile ruolo di “giudice ultimo” della causa.

2. Cambio di funzioni.

Criticabile appare, poi, l’ulteriore stretta sul mutamento di funzioni nel corso della carriera.

Per tal via, infatti, si persegue un fenomeno statisticamente trascurabile (in quanto relativo ad una percentuale risibile di magistrati), sulla base di una premessa empiricamente fallace (le percentuali medie di proscioglimento fugando il dubbio di un giudice “appiattito” sul PM) e assiologicamente errata (anche in un processo di stampo accusatorio, il Pubblico Ministero condivide con il Giudice la funzione di tutela del pubblico interesse all’osservanza e all’applicazione della legge: la comunanza di cultura giuridica, pur nella diversità di ruoli, è dunque tratto ineliminabile della funzione di magistrato delineata dalla Costituzione).

LOCATI: Credo che ci siano luci e ombre. Tra gli aspetti positivi vi è certamente il ritorno al concorso di primo grado. L’attuale selezione, imponendo un lungo e costoso percorso post-laurea, finisce per incentivare una selezione anche per censo che non è ammissibile né tollerabile. 

Giudico positiva anche la possibilità, per l’avvocatura, di esprimere un parere unitario sulla professionalità dei magistrati. La previsione di un voto unitario neutralizza i possibili effetti ritorsivi di un simile potere, che peraltro non credo sarebbe utilizzato in questo senso. Questa previsione è un primo passo avanti verso una direzione di collaborazione tra gli attori del processo, nella consapevolezza che chi entra in contatto con il magistrato (avvocati in primis) sia in grado di apprezzarne doti e limiti. 

Proprio perché lo svolgimento di ruolo direttivo e semidirettivo deve essere inteso come servizio (e non come opportunità di carriera) trovo infine assolutamente positivo il vincolo quadriennale anche in ipotesi di conferma. 

L’aspetto che reputo più negativo è quello della formulazione dei giudizi di discreto, buono o ottimo con riferimento alle capacità di organizzazione del lavoro. Inserisce infatti un’idea meritocratica e competitiva che non ha e non può avere nulla a che fare con il nostro lavoro. Non ha nessun senso individuare - ammesso e non concesso che sia possibile - il “magistrato più bravo”, perché da noi non ci sono diritti più importanti da tutelare o processi più importanti da fare. Ogni fascicolo merita l’attenzione di un magistrato che sia in grado di svolgere il proprio lavoro con competenza e umanità. 

Altro aspetto negativo è la limitazione del passaggio di funzioni, che allontana sempre di più il PM dalla giurisdizione e che fomenta la logica del processo come gara invece che come luogo in cui viene accertata la verità. 

 

Contro il progetto di riforma l’ANM ha indetto uno sciopero. Decisione giusta o criticabile? Una scelta necessaria oppure evitabile (o almeno procrastinabile) in favore di altre possibili iniziative da adottare nel corso dei lavori parlamentari?

GRIMAUDO: Sarebbe stato indubbiamente opportuno articolare la protesta in maniera graduale e, soprattutto, promuovere sin da subito iniziative di confronto con i cittadini.

Ho ritenuto, nondimeno, di condividere l’appello allo sciopero in considerazione dell’imminente calendarizzazione del voto parlamentare sulla riforma e della necessità, quindi, di reagire alla distorta rappresentazione mediatica delle ragioni del dissenso con un gesto simbolicamente forte ed immediato.

Questo, infatti, è parso l’unico strumento capace, nelle circostanze concrete, di sollecitare un effettivo dibattito pubblico su una riforma che, lungi dall’intaccare “privilegi di casta” (spingendo anzi il magistrato al conformismo e quindi a lavorare di meno), rischia di peggiorare seriamente la qualità del servizio giustizia a discapito del cittadino.

Lo sciopero, quindi, non voleva essere, e non è stato, un’astensione dal lavoro fine a se stessa.

Sono state anzi promosse numerose iniziative (tavole rotonde con l’Avvocatura, incontri con gli studenti, processi simulati) che hanno attivamente coinvolto la cittadinanza sui temi della giustizia in generale e della riforma in particolare.

Si tratta, certo, di tentativi di dialogo e di sensibilizzazione da riproporre e da migliorare, ma è anche attraverso questi che passa il recupero di credibilità della categoria.

Da tale punto di vista, quindi, lo sciopero non è stato affatto un fallimento.

Non vedo, del resto, quale altra iniziativa (ennesimo comunicato stampa ignorato o tavolo di lavoro con forze politiche chiaramente non disponibili all’ascolto) o quale altro atteggiamento (autocritica, sfiducia, rassegnazione) avrebbe potuto riequilibrare il confronto con il decisore politico e rinsaldare la stima dei cittadini.

LOCATI:  Credo che sia stata una scelta sbagliata per diverse ragioni. Intanto perché la credibilità della magistratura è ai minimi termini, non solo per le condotte attive di pochi ma anche per l’incapacità di molti di affrontare seriamente quello che lo “scandalo Palamara” ha scoperchiato. Non c’è stato quel colpo di reni che sarebbe stato necessario e da questo dato dobbiamo partire. In questo contesto, sarebbe stato meglio adottare altre iniziative, quali la promozione di “uno stato di agitazione” al cui interno prevedere momenti di riflessione pubblica per spiegare ai cittadini le nostre ragioni. Avremmo avuto così più tempo per dialogare con la politica e per accogliere gli aspetti positivi della riforma e limare quelli negativi. 

La riforma fornisce risposte sbagliate a domande in parte giuste, e ci saremmo dovuti far carico delle molte criticità che ci sono. Per esempio, io credo che così come è strutturato il controllo sulle conferme degli esiti delle indagini e della tenuta delle sentenze nei gradi di appello sia profondamente sbagliato, perché il Pm non vince o perde a seconda dell’esito processuale e il giudice ha il diritto di discostarsi dalla Corte di Cassazione se lo ritiene e lo motiva. Però è anche giusto riconoscere che se un Pm rinvia a giudizio imputati che vengono sempre assolti o se un giudice viene costantemente riformato c’è un problema, che adesso non riusciamo a far emergere in modo efficace.

 

Al di là’ dei luoghi comuni - il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto - l’esito dello sciopero fotografa una divisione a metà della magistratura. Pensate che questo dato sia dovuto a fattori contingenti, concernenti “questa” specifica astensione, o che esso rispecchi più profonde trasformazioni e differenziazioni verificatesi nel corpo della magistratura?  

GRIMAUDO: La magistratura è senza dubbio un corpo composito, come tale attraversato da differenze generazionali, culturali e territoriali.

Anche tra i colleghi che non hanno aderito all’iniziativa, tuttavia, sembra prevalere un giudizio negativo sul merito della riforma. 

La mancata partecipazione allo sciopero di questa larga parte della magistratura appare, dunque, principalmente dipesa da considerazioni attinenti all’opportunità e all’effettiva utilità dello stesso.

Tali legittimi distinguo sul metodo rischiano, tuttavia, di tradursi involontariamente in una distorta rappresentazione del giudizio sul merito, e di veicolare all’opinione pubblica, in definitiva, il messaggio che la maggioranza dei magistrati italiani valuta positivamente la riforma.

Appare dunque necessario, ed urgente, recuperare l’unità della categoria: non certo intesa come una totale (e tutt’altro che auspicabile) unanimità di vedute, ma come capacità di sintesi tra posizioni legittimamente diverse.

LOCATI: Credo che molti colleghi siano ormai disillusi di fronte all’evidente incapacità della nostra associazione e della nostra categoria di dare risposte credibili alle cadute etiche che sono state accertate. Da questo dipende, probabilmente, il fatto che 8000 colleghi non abbiano neanche ritenuto di conferire una delega per l’Assemblea Generale di Roma. 

Credo anche che la divisione della magistratura discenda dalla crisi dei corpi intermedi, e dunque dalle correnti intese come luoghi di aggregazione ideale e culturale, e della conseguente perdita della capacità di fare sintesi al nostro interno. Ormai ha prevalso la logica amico - nemico, che porta a prendere posizione da una parte o dall’altra, senza arrivare a compromessi accettabili per tutte le parti coinvolte. La scelta dello sciopero è stata figlia di questa logica: piuttosto che dialogare, ricucire, ricomporre, mediare, si è adottato uno strumento che prevedeva una risposta secca (o si sciopera o non lo si fa), con ciò creando (o comunque alimentando) una spaccatura anche al nostro interno. 

 

Molti dei principi fondanti l’assetto della magistratura sono "controintuitivi".  Ad esempio, l’eguaglianza di quanti amministrano giustizia e la ricerca di una elevata professionalità “media” in luogo delle graduatorie dei migliori si pongono su di una lunghezza d’onda molto diversa da quelli di altri settori professionali. È ancora possibile, come è avvenuto in passato, spiegare ai cittadini il significato di questi valori e invitarli a difenderli come loro beni? Attraverso quali percorsi e quali autocritiche sul carrierismo, sulle attuali valutazioni di professionalità, sul rispetto dell’etica?

GRIMAUDO: Dubito, sinceramente, che sia opportuno insistere ulteriormente nei continui appelli all’autocritica su carrierismo e correntismo.

Ritengo, anzi, che il dibattito su questi temi abbia di recente raggiunto toni eccessivi e persino controproducenti rispetto allo scopo di recuperare fiducia presso i cittadini.

L’ambizione a ricoprire posizioni di responsabilità, infatti, costituisce un’aspirazione individuale pienamente legittima e meritoria, che non appare né giusto né utile (per l’ufficio e la collettività) reprimere.

Deve poi evidenziarsi come il pluralismo di idee e di sensibilità (del tutto naturale in una società di circa ottomila liberi individui) abbisogni, per non restare vuoto e inconcludente assemblearismo, di “corpi intermedi” che tali diverse prospettive coagulino e rappresentino nelle diverse sedi.

Certo, l’appello all’autocritica riguarda le degenerazioni opportunistiche di questi fenomeni.

Tuttavia, per quanto non siano mancati di recente (come del resto in passato) indecorosi esempi di “arrivismo” e di “lottizzazione clientelare”, la stragrande maggioranza dei magistrati italiani non sembra affatto pervasa da un’irrefrenabile brama di potere, dimostrando al contrario di prestare quotidianamente servizio con impegno e spirito di sacrificio.

Un’autocritica su correntismo e carrierismo non può, quindi, essere fondatamente richiesta a costoro.

Illusorio appare, al contempo, attendersela da quanti, per natura e inclinazione, tali tendenze degenerative deliberatamente perseguono o assecondano, e per contrastare le quali più efficace si rivela (oltre alla già esistente minaccia disciplinare e penale) l’adozione di criteri non discrezionali per la nomina degli uffici direttivi e semi-direttivi (anzianità o sorteggio tra idonei).

Il punto è, però, che la stragrande maggioranza dei magistrati italiani è onesta, responsabile, laboriosa e al quotidiano servizio dei diritti dei cittadini. E come tale, a questi ultimi deve essere rappresentata.

Migliorare, naturalmente, si può e si deve: sul piano dell’efficienza organizzativa (che soprattutto per le funzioni civili dipende -dato un carico esigibile- dal singolo magistrato), e su quello, non secondario, della capacità di ascolto della parte e del suo bisogno di giustizia (spesso trascurato).

È in definitiva attraverso l’impegno quotidiano di ciascuno ed una rinnovata strategia comunicativa dell’associazionismo, che la magistratura può davvero ricostruire la propria credibilità.

LOCATI: È un compito a cui non possiamo sottrarci, pena il confinamento in una torre d’avorio, che prima o poi verrà spazzata via. I cittadini non riescono a comprendere che alcune garanzie di cui godiamo sono previste per tutelare gli utenti della giustizia e non i magistrati, semplicemente perché non si sentono in concreto tutelati da noi. Il problema più urgente da risolvere è quello dei tempi della giustizia. Fino a che ci saranno tempi patologici di definizione dei processi, quasi nulla di quello che faremo potrà essere apprezzato. Dobbiamo riuscire ad incidere su questo e a pretendere che ci vengano fornite le risorse necessarie per farlo, oltre che a stimolare l’adozione di misure che abbattano il contenzioso. Una risposta giusta non è più tale se arriva dopo troppi anni. 

Una volta riacquistata credibilità su questo aspetto (che io credo sia quello che interessa di più gli utenti della giustizia) dobbiamo dimostrare di essere in grado di individuare al nostro interno coloro che, per caduta etica o per incapacità professionale, non sono più in grado di far parte del corpo della magistratura. Se non vogliamo che questo potere venga esercitato esternamente, dobbiamo dimostrare di saperlo esercitare internamente, cosa che fino ad ora non è avvenuta.  

 

Diamo appuntamento ai lettori tra qualche giorno con un ulteriore confronto.

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