Qual è la vostra valutazione complessiva dell’attuale progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario? Quali sono i suoi aspetti più positivi e condivisibili e quali i suoi tratti più negativi?
CREPALDI: Il progetto mi pare una riforma mediocre, che prende le mosse dalla volontà di togliere potere al correntismo ma finisce per dare una risposta troppo debole, tanto nella revisione dei criteri per l’assegnazione degli incarichi direttivi o semidirettivi quanto nella scelta della legge elettorale del Consiglio.
Trovo certamente positivo il tentativo, nell’ambito del procedimento di conferma degli incarichi e di valutazione di professionalità, di ampliare l’ambito delle conoscenze del Consiglio, aprendo al contributo dei magistrati “diretti” dall’aspirante e agli avvocati. L’attribuzione degli incarichi costituisce il problema principale che affligge la magistratura perché alimenta il carrierismo, che a sua volta trova il suo sfogo nel correntismo e/o nel tentativo di precostituirsi un cursus honorum che conduca all’incarico desiderato.
Anche sulle valutazioni di professionalità mi sembra che i risultati statistici delle valutazioni quadriennali siano indicativi della scarsa capacità del sistema attuale di individuare le criticità che riguardino non solo e non tanto la produttività, ma anche gli altri presupposti che devono caratterizzare l’azione di un magistrato (sotto il profilo dell’indipendenza, della qualità dei suoi provvedimenti e della cura dell’aggiornamento professionale). Il cd. fascicolo delle performance coglie solo una di queste possibili criticità ma va nella direzione di sollecitare con indicatori statistici una seria valutazione della qualità del lavoro del magistrato che troppo spesso direttivi e semi-direttivi omettono per varie ragioni di svolgere. Il fatto che un Pubblico Ministero ottenga una condanna nel 10% dei casi in cui esercita l’azione penale è irrilevante per valutarne la professionalità? L’annullamento delle ordinanze cautelari del GIP da parte del Tribunale del Riesame nel 50% dei casi non è un grave campanello d’allarme?
Troppo spesso le valutazioni quadriennali avvengono sulla base di indagini o sentenze che il magistrato porta all’attenzione del Consiglio senza evidenziare quale ne sia stato l’esito reale all’esito del giudizio, come se la fondatezza delle proprie indagini o il grado di conferma dei provvedimenti non sia un indicatore da tenere in considerazione.
Si tratta, certo, di intendersi sul livello di “grave anomalia”, ma i criteri direttivi sono sufficientemente ampi per consentire al legislatore delegato e poi al Consiglio in sede di normativa di dettaglio di trovare soluzioni equilibrate.
Non condivido, invece, l’uso del disciplinare come strumento per affrontare non comportamenti patologici ma indicatori di una mala gestio del proprio ruolo direttivo o semidirettivo.
Un ultimo passaggio, questo sì molto critico, riguarda a mio avviso l’accesso alla magistratura: il ritorno ad un concorso di primo livello - specie se non accompagnato da una più complessiva revisione del concorso e della formazione dell’aspirante e del giovane magistrato – potrebbe finire proprio per acuire la natura discriminatoria dell’attuale assetto che si vorrebbe superare. L’organizzazione di corsi per l’accesso alla magistratura da parte della SSM in sede decentrata potrebbe non essere sufficiente ad evitare la creazione di candidati di serie A – quelli che possono permettersi di accedere a corsi privati – e di serie B, quelli che per condizioni personali, geografiche o familiari possono permettersi solo quelli “pubblici” che difficilmente potranno, specie nel breve periodo e in Corti d’appello piccole, garantire un livello di preparazione paragonabile in modo uniforme sul territorio nazionale.
Sperimentati i vantaggi dell’UPP, sarebbe stato facile trovare nel modello francese - un concorso di “scrematura” aperto ai neolaureati e alla successiva selezione “in corsa”, integrando la preparazione teorica e l’esperienza professionale - il giusto equilibrio tra selezione dei migliori e democraticità dell’accesso.
PISCIOTTA: Insieme ad altri colleghi, tutti estranei alle correnti, abbiamo espresso un netto dissenso alla riforma Cartabia. Il documento di Busto è stato adottato da diverse assemblee distrettuali che, contestualmente, hanno chiesto all’ANM una Assemblea Straordinaria, sollecitata poi dall’appello “FACCIAMO PRESTO!”, che in pochi giorni ha raccolto l’adesione di oltre 600 magistrati.
E’ necessaria una riforma vera che sia in grado di concepire validi rimedi ai problemi della magistratura: tra cui carenza di risorse e deriva verticistica degli uffici. La proposta in esame invece intacca il principio costituzionale del potere giudiziario diffuso, accentra il potere, impone un criterio di valore basato sullo smaltimento dei fascicoli a scapito della tutela dei diritti. Il fascicolo della performance stabilisce un controllo indeterminato che si presterà necessariamente all’equivoco.
Si vuol dividere l’ordine giudiziario con il rischio di uno scivolamento del PM verso l’esecutivo. La previsione dell’illecito disciplinare in caso di inosservanza delle direttive dei capi degli Uffici, i criteri di priorità, la formulazione di osservazioni del Ministro sul progetto organizzativo delle Procure, determinano in via definitiva la gerarchizzazione degli Uffici –estesa anche ai Tribunali – ed espongono la magistratura a ingerenze politiche.
Il voto degli avvocati nella valutazione di professionalità presenta il rischio di conflitti d’interesse. La previsione di un sistema maggioritario per l’elezione del CSM rafforza le derive correntizie perché accresce la forza, in termini di seggi, delle correnti più strutturate.
Tra gli aspetti positivi della riforma segnalo il parere dei magistrati dell’ufficio di provenienza del candidato che concorre per un posto direttivo; il ritorno ad un concorso di I livello (con un ripensamento della formazione universitaria); l’introduzione di limiti nelle candidature al CSM e la previsione di una ipotesi disciplinare per i tentativi di condizionamento del CSM.
Contro il progetto di riforma l’ANM ha indetto uno sciopero. Decisione giusta o criticabile? Una scelta necessaria oppure evitabile (o almeno procrastinabile) in favore di altre possibili iniziative da adottare nel corso dei lavori parlamentari?
CREPALDI: La scelta dello sciopero mi ha disorientato. Non perché non riconosca che c’è qualche punto critico nella riforma. Ma si tratta di criticità ampiamente arginabili nell’ottica dell’ampia discrezionalità che i criteri direttivi lasciano al legislatore delegato e alla normazione secondaria del Consiglio.
Lo strumento democratico dello sciopero, specie nel contesto di un potere dello Stato, dovrebbe essere riservato ai casi nei quali – come avvenuto purtroppo nel recente passato – le scelte del legislatore si pongano in insanabile contrasto con il dettato costituzionale e la stessa separazione dei poteri. È indicativo che nessun costituzionalista fosse d’accordo con le preoccupazioni che i favorevoli allo sciopero avevano paventato.
Prima e durante il dibattito, si sono sollevate voci critiche (inascoltate) che hanno riguardato non solo il merito ma anche l’opportunità di una scelta così radicale, specie a fronte del dubbio circa il seguito che l’iniziativa avrebbe avuto.
Si è trattato di una scelta molto invocata “dal basso” e che i gruppi organizzati – alla costante ricerca del consenso - hanno soprattutto subito e non controllato. Il movimento del basso mi è sembrato mosso dalla volontà di riconquistare o riaffermare una credibilità e una centralità che la magistratura ha perduto, sul piano politico come su quello della considerazione pubblica.
Invocare, dopo aver proclamato lo sciopero, un obbligo di “fedeltà” all’associazione nell’esercizio di un diritto individuale è stato un ulteriore errore: se l’Associazione è la casa di tutti i magistrati, come si proclama ad alta voce, non c’è spazio per ragionamenti basati sull’appartenenza, ma solo sul dialogo e l’accettazione delle posizioni più disparate. Paradossale è che si richiami alla necessità di rinunciare ad una propria opzione ideale per partecipare ad uno sciopero in cui non si crede, specie quando l’astensione è proclamata proprio per difendere la libertà e l’indipendenza interna del singolo magistrato.
PISCIOTTA: Proclamare lo sciopero non è mai semplice. Significa impegnare gli associati a una scelta, con consequenziale rischio di frizioni con colleghi e opinione pubblica. Presuppone una tensione nel dialogo tra gli interlocutori. Questo è il contesto in cui ci siamo trovati: nessun reale interlocutore, solo uditori sordi che hanno concesso udienza per formalismo istituzionale.
L’Assemblea è stata obbligata ad approvare una mozione unitaria. Resto, dunque, convinto che lo sciopero sia stata una scelta dolorosa ma giusta, l’unica possibile.
Criticabile è forse la tempistica nella convocazione dell’assemblea! Sarebbe stato opportuno attivarsi prima, cercare di coinvolgere la magistratura tutta e riprendere un dialogo con i soggetti che gravitano nel mondo della giurisdizione, allargando la platea degli interlocutori al mondo universitario.
Criticabile è anche la scelta dei non aderenti che, pur precisando di considerare pessima la riforma, ritengono che lo sciopero non sia lo strumento giusto per manifestare il nostro dissenso, anche perché poco comprensibile per l’opinione pubblica. In molti hanno chiarito di non aderire perché non si riconoscono nell’ANM.
Nutro forti perplessità sulla scelta di questi colleghi. Non aderire per criticare l’ANM, risente di un errore di fondo: l’astensione è finalizzata a manifestare le criticità verso l’esterno e non all’interno. Anche chi ha fondato la scelta sulle difficoltà di comunicare con l’opinione pubblica deve convenire sul fatto che quest’ultima deve essere informata ma non temuta, e non può costituire un fattore paralizzante le nostre scelte. Per quanto concerne le ulteriori iniziative, sarò brevissimo: affiancare allo sciopero delle altre e farlo subito!
Infine, un auspicio: l’assemblea nazionale, l’astensione, i convegni e le ulteriori iniziative stanno favorendo il rifiorire di un interesse attivo alla vita associativa. Non disperdiamo le energie, evitiamo polarizzazioni sterili, valorizziamo i contenuti!
Al di là’ dei luoghi comuni - il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto - l’esito dello sciopero fotografa una divisione a metà della magistratura. Pensate che questo dato sia dovuto a fattori contingenti, concernenti “questa” specifica astensione, o che esso rispecchi più profonde trasformazioni e differenziazioni verificatesi nel corpo della magistratura?
CREPALDI: L’origine dell’astensione è la ragione stessa di questa divisione. A fronte del disvelamento del fatto che una parte della magistratura aveva ceduto a logiche di potere e appartenenza e della conseguente perdita di credibilità della magistratura ci sono state due reazioni diverse: una parte della magistratura si è arroccata sulla difesa della parte “sana”, con un atteggiamento a tratti corporativo e autoreferenziale, ma nel tentativo di non cedere al populismo montante contro la categoria. Altri – mi illudo che a questo sia ascrivibile una buona quota di quanti non hanno aderito allo sciopero – hanno trasformato il loro disgusto in voglia di cambiamento e promosso un ruolo attivo della magistratura nell’influenzare l’inevitabile processo riformatore.
Sotto questo profilo, lo sciopero è partito dal presupposto che il sistema attuale di valutazione dei magistrati sia sufficiente (si è addirittura sostenuto che non ci sarebbe altre professioni giudicate ogni quattro anni, quando perfino i nostri assistenti e cancellieri sono valutati annualmente dai loro dirigenti) e che la riforma introdurrebbe addirittura troppi dati che nessuno leggerà. Mi sembrano affermazioni che sottostimano allo stesso tempo i problemi attuali della magistratura e la capacità dell’autogoverno.
La questione vera è che la magistratura è incapace di dare risposte costruttive perché non ha la capacità di elaborare proposte condivise internamente. Nell’impossibilità di agire in modo unitario, si sceglie un atteggiamento passivo-aggressivo che richiederebbe una rivisitazione critica da parte dei vertici dell’associazione e dei gruppi che hanno sostenuto una contrapposizione dura che si è rivelata un autogol.
Forse è il momento di dirsi che stare insieme nell’associazione non vuol dire fingere un’unitarietà che non c’è e ammettere al mondo esterno che i magistrati interpretano in tanti modi la loro funzione, che il pluralismo è garanzia di democraticità all’interno della magistratura e che la forza di una proposta non deriva soltanto dal numero di persone che la sottoscrivono, ma anche dagli argomenti che la sostengono.
Si può stare nell’associazione per far fronte comune nel momento in cui vengano messi in pericolo i valori costituzionali e discutere apertamente di come declinare questi valori nel lavoro quotidiano in aggregazioni più omogenee. Chiamare l’associazione ad un ruolo di camera di compensazione delle istanze delle singole correnti rischia di renderla antipatica al magistrato “comune”, che la vive come la “casa delle correnti” e non quella di tutti i magistrati, strumento per alimentare il carrierismo e non di salvaguardia di ciascuno.
PISCIOTTA: Non credo che si possa parlare di frattura della magistratura. In realtà, tutti i magistrati vivono una profonda sofferenza, legata a condizioni di lavoro estreme e al rischio di essere travolti dai numeri elevatissimi che sono chiamati a fronteggiare; schiacciati, per di più, dal costante bisogno di giustizia.
Vogliamo una riforma seria che non mini la giurisdizione come potere diffuso, orizzontale e paritario; strumento di legalità e di eguaglianza. Questo accomuna ogni magistrato, favorevole o meno allo sciopero.
Non c’è una frattura, assistiamo, invece, ad una trasformazione della magistratura che rispecchia la nostra società, sempre più liquida. Accade, allora, che le correnti e le loro strutture, che hanno segnato le sorti peggiori nel recente passato, si decompongono e cerchino, in una prospettiva gattopardesca, di ricomporsi rapidamente, il tutto in modo incerto, fluido e non facilmente comprensibile.
Sebbene il disagio è maggiormente sentito dai “giovani” magistrati, di cui occorre farsi assolutamente carico, vanno respinte le polarizzazioni incapaci di spiegare i dati dell’astensione: quelle tra magistrature “superiori” (quelle di legittimità, dove le percentuali di astensione sono state più basse) e “inferiori” o tra tribunali più grandi e quelli di provincia. In realtà, ritengo che la differenza l’abbia fatta la partecipazione associativa e la volontà del singolo magistrato di impegnarsi in prima persona.
C’è una disaffezione nei confronti dell’associazione, certamente tra i giovani magistrati, ma non solo, sicché in quei tribunali, o in quelle corti, dove le Sezioni e le Sottosezioni ANM sono realmente più attive e dove è maggiore la partecipazione il dato percentuale di astensione è stato significativamente più elevato.
Direi quindi in conclusione che è necessario riaprire il dialogo associativo perché ciascun magistrato partecipi attivamente e consapevolmente al bene comune.
Molti dei principi fondanti l’assetto della magistratura sono "controintuitivi". Ad esempio, l’eguaglianza di quanti amministrano giustizia e la ricerca di una elevata professionalità “media” in luogo delle graduatorie dei migliori si pongono su di una lunghezza d’onda molto diversa da quelli di altri settori professionali. È ancora possibile, come è avvenuto in passato, spiegare ai cittadini il significato di questi valori e invitarli a difenderli come loro beni? Attraverso quali percorsi e quali autocritiche sul carrierismo, sulle attuali valutazioni di professionalità, sul rispetto dell’etica?
CREPALDI Molto passa per la nostra capacità comunicativa, capacità che chiama in causa saperi diversi da quelli del magistrato medio e richiede che, sotto l’aspetto istituzionale come per l’associazione, ci si affidi a professionisti.
Ma si tratta prima di tutto di intendersi sui concetti: eguaglianza non significa negare che – garantita una professionalità elevata in capo a tutti i magistrati – ciascuno abbia le sue abilità peculiari: l’idea che ciascuno sia in grado di fare tutto – dal consigliere del Consiglio Superiore al direttivo/semidirettivo, dal formatore al magrif – significa appiattire le valutazioni e consentire ampio spazio a logiche di appartenenza. È la logica che sta alla base del sorteggio – “uno vale uno” – che dobbiamo rifiutare radicalmente.
L’uguaglianza, correttamente declinata, significa dare conto per ciascuno delle specifiche attitudini dimostrate e consentirgli di compararle con quelle di altri, nell’ambito di una competizione aperta e obiettiva.
Su questo non vedo particolari problemi a “spiegare” ai cittadini che le valutazioni debbano tenere conto della necessità di non creare magistrati di seria A e di serie B, ma soltanto di valorizzare le capacità dei singoli a beneficio della magistratura e del paese tutto.
L’autocritica, però, deve essere il punto di partenza del percorso, prima di tutto all’interno della magistratura e poi verso l’esterno: basta parlare con i colleghi per capire che molti di noi hanno “paura” dell’autogoverno, perché vedono in quella sede declinate logiche che non sono quelle proclamate; e per rendersi conto che una larga parte della magistratura si sente tagliata fuori dall’autogoverno, avvertito come un luogo a cui si accede per vie affatto trasparenti.
Chi fa autogoverno dovrebbe sforzarsi di parlare più con chi non partecipa normalmente alla vita associativa: confrontarsi solo nelle chat e nelle assemblee e non nei corridoi dei palazzi di giustizia finisce per illudere i vertici di avere un seguito tra i propri colleghi ben più importante di quello reale.
PISCIOTTA: È vero: è controintuivo l’art. 112 Cost. per cui il P.M. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. Ne deriva che ogni reato sarà perseguito allo stesso modo; con lo stesso impegno; con la stessa dedizione; che nessun altro potere statuale, come quello esecutivo, potrà mai indirizzare l’ufficio del P.M. in un senso o nell’altro; che anche la denuncia dell’ultimo dei cittadini, ancorché anonima, finirà sul tavolo di un P.M. che dovrà valutarla come tutte le altre. Occorrerebbe, quindi, una seria depenalizzazione e non l’introduzione di priorità.
È controintuitivo l’art 107 Cost. secondo cui i magistrati si distinguano soltanto per funzioni. Dovrebbe, dunque, assicurarsi a tutti i cittadini, qualsiasi sia il magistrato, il medesimo livello nell’erogazione del servizio, respingendosi forme di gerarchizzazione del potere giudiziario che offrirebbe meno garanzie sotto il profilo del controllo diffuso di legalità.
Mentre, poi, in altri settori, come quello medico, un cittadino facoltoso potrà scegliere il migliore specialista sul mercato, così assicurandosi il miglior trattamento, nella giustizia la medesima garanzia di competenza e professionalità deve essere assicurata a tutti i cittadini, indipendentemente dal censo. Nessun cittadino può scegliersi il giudice “migliore”! È conciliabile, dunque, con il fascicolo della performance?
La Costituzione ha inteso scongiurare il carrierismo prevedendo, all’art. 101 Cost., che i giudici siamo soggetti soltanto alla legge e, all’art 104 Cost., che la magistratura è autonoma ed indipendente da ogni altro potere.
Sono queste le ragioni che impediscono qualsivoglia forma di assimilazione tra la magistratura e gli altri settori professionali improntati a logiche efficientistiche.
Come spiegarne ai cittadini il significato? Forse riprendendo le fila di un dialogo da troppo tempo spezzato. Siamo consapevoli che un cambiamento è necessario. Ma un cambiamento che rispetti i principi costituzionali e non che tenti di scardinarli.
Diamo appuntamento ai lettori tra qualche giorno con un ulteriore confronto.