Magistratura democratica
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Le domande di Questione Giustizia a Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica

In un periodo di aspre ed incessanti polemiche sulla giustizia e sulla magistratura, il Parlamento è prossimo all’approvazione di un disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della magistratura.
Il direttore di Questione Giustizia, Nello Rossi, ha posto a magistrati, diversi per età e per le funzioni svolte, alcune domande – volutamente sempre le stesse – sui principali aspetti della vicenda istituzionale in corso: la valutazione del progetto di riforma; il giudizio sulla scelta dell’astensione dal lavoro; le trasformazioni in atto nella magistratura; i percorsi da intraprendere per riconquistare la fiducia dei cittadini dopo gli scandali sulle nomine. 
Lo scopo dell’iniziativa è quello di rappresentare - in termini più approfonditi ed argomentati di quanto sia possibile sui media generalisti - la pluralità dei punti di vista e delle prospettive che coesistono in seno alla magistratura.
Con l'intervento del segretario di Magistratura democratica, si conclude il confronto aperto una settimana fa. 

Qual è la tua valutazione complessiva dell’attuale progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario? Quali sono i suoi aspetti più positivi e condivisibili e quali i suoi tratti più negativi? 

Credo che gli effetti complessivi del progetto di riforma saranno pessimi, sebbene la nettezza di questo giudizio non mi impedisca di individuare profili positivi, ma questi ultimi sono decisamente sub-valenti rispetto al modello di magistrato che l’attuale progetto di riforma propone. Lo giudico ispirato da intenti punitivi della magistratura, previa imputazione solo a quest’ultima delle inefficienze del sistema giustizia. Le statistiche europee descrivono la magistratura italiana tra le più produttive del continente. Ed invece, a leggere taluni passaggi essenziali della riforma in gestazione, si ha l’impressione contraria: il Legislatore interviene su un corpo giudicato neghittoso e negligente, per ripristinare efficienza e tempestività alla produzione giudiziaria. Questo esito - che si scontra non solo con le statistiche europee, ma anche con le concrete fatiche quotidiane della maggioranza dei magistrati - è il frutto di una narrazione mediatica creata ad arte che ha approfittato delle gravi cadute etiche, emerse dalla nota indagine perugina, per intervenire sullo statuto del magistrato, tentando, per questa via, di limitare il controllo giurisdizionale sui sistemi economici e politici dominanti e di ridurre gli interventi giurisdizionali, generatori di costi economici, volti ad emancipare i diritti dei soggetti deboli e sotto-protetti.

Sia chiaro, il sistema giustizia ha bisogno di riforme che restituiscano efficienza, senza cedere sul fronte della qualità. Ed in questo più ampio contesto, è necessaria anche una riforma ordinamentale che muova dai reali nodi critici, generanti la profonda crisi etica che ha coinvolto l’associazionismo giudiziario, travolgendo, poi, la legittimazione dell’organo di autogoverno. L’attuale progetto riformatore, però, trascura completamente di affrontare quei nodi ed approfitta della conseguente crisi di affidabilità pubblica della magistratura, per riportarla ad uno statuto molto prossimo a quello vigente prima degli anni ’70 del secolo scorso[1].

Peraltro, anche a volere giudicare il progetto normativo, accettando - per puro spirito dialettico - la necessità di aumentare la produttività dei magistrati, la proposta riformatrice si rivela inadeguata allo scopo. 

Il progetto di riforma, infatti, è ispirato ad un modello organizzativo ormai desueto (perché già sperimentato come inadatto a regolare organizzazione produttive multilivello), puntando a raggiungere la migliore efficienza del sistema attraverso: l’accentuazione della piramide gerarchica (estesa anche agli Uffici giudicanti); l’utilizzo della leva disciplinare quale strumento di sollecitazione dell’efficienza numerica; la valorizzazione delle statistiche di produttività nelle valutazioni individuali[2]. Si tratta di uno schema d’intervento pre-moderno, inadeguato a governare strutture produttive complesse; non a caso, i modelli attuali di gestione di queste ultime privilegiano criteri di organizzazione orizzontali che valorizzano le responsabilità collettive in luogo di quelle individuali, accentuando le potenziali creative ed innovative dei singoli, attraverso un loro maggiore coinvolgimento nelle scelte organizzative. Insomma, ancora una dimostrazione della grande modernità della previsione dell’art. 107 della Costituzione, messa in crisi dal progetto di riforma che esaltando la gerarchizzazione dei rapporti tra magistrati, ne rafforza gli effetti, utilizzando il disciplinare non già in coerenza con il suo ruolo fisiologico di strumento di conformazione al modello costituzionale, ma piuttosto quale strumento di repressione del talento del singolo, in funzione della garanzia dei target di produzione numerica fissati dal dirigente, su cui, poi, lo stesso dirigente sarà sottoposto a verifica. 

E se una parte della riforma scarica sulla magistratura il compito di rendere numericamente efficiente, un sistema strutturalmente disfunzionale, altra parte della stessa non prende affatto le mosse dalle cadute etiche emerse dall’indagine perugina, per affrancarla da quei pericoli.

Esigenze di sintesi mi costringono ad una rappresentazione essenziale delle cause sottese a quella crisi, privilegiando alcuni dei profili più strettamente connessi alle esigenze di riforma. Tra questi un ruolo determinante l’ha svolto l’inconsistenza dei fascicoli personali dei magistrati, ricchi di ridondanti aggettivi ed incapaci di descriverne le caratteristiche professionali. Questa carenza di informazioni incrociando una diffusa ed a tratti spasmodica ambizione a concorrere per i posti direttivi e semi-direttivi (il carrierismo, acutamente definito da Giovanni Palombarini: un veleno silente introiettato nella magistratura) ha generato la necessità di acquisire informazioni sul territorio, tramite i gruppi associativi di cui i consiglieri togati erano espressione. Quindi, potentati elettorali, a base regionale ovvero gruppi di potere fondati su rapporti personali, sviluppati a latere del genuino confronto associativo, hanno governato direttamente l’incrocio tra la domanda di carriera che proveniva dalla base e le decisioni dell’autogoverno. La gestione perversa di queste dinamiche ha determinato la progressiva decadenza dei costumi, fotografata dall’indagine perugina, espropriando i gruppi associati dal loro ruolo di motore di elaborazione e confronto culturale, per trasformarli in strumenti di gretto accumulo e perpetuazione del consenso. 

Alla luce della predetta analisi, almeno due erano i punti qualificanti su cui intervenire: 1) il sistema elettorale; 2) le valutazioni di professionalità che stanno a fondamento del fascicolo personale del magistrato.  

1) E’ un dato storico quello che vuole i sistemi maggioritari introdotti per la selezione dei candidati come quelli più funzionali alla gestione di pacchetti di voti, spartiti tra gruppi di potere che coltivano il consenso, attraverso una gestione clientelare, volta alla sua perpetuazione. La personalizzazione del voto, infatti, si presta meglio ad aggregare il consenso, pur in assenza di una condivisione valoriale. L’ultima elezione al CSM con lo scandalo di quattro candidati per quattro posti al Pubblico Ministero ne è la conferma. I sistemi proporzionali, invece, rendono meno controllabile il voto ed impongono un confronto tra distinte sensibilità culturali e valoriali che sono a fondamento delle diverse politiche giudiziarie praticabili al CSM[3]. Inoltre, solo i sistemi proporzionali sono garanzia del necessario “render conto” che è la base di un sano sistema democratico rappresentativo, fondato sul principio della responsabilità politica. Ed invece, confondendo i gruppi associati con i gruppi di potere che se ne erano appropriati, il Riformatore - contro le evidenze storiche - ha inteso privilegiare ancora sistemi maggioritari, relegando alla selezione proporzionale un ruolo marginale, nonostante la stragrande maggioranza dei magistrati, chiamata ad esprimersi con un referendum interno lo avesse riconosciuto come metodo elettorale da privilegiare.

2) Premesso che le valutazioni di professionalità sono funzionali a garantire una periodica verifica dello standard di adeguatezza minimo del magistrato, censurando eventuali lacune patologiche, la lezione che ci viene dalle vicende sopra sintetizzate impone di arricchire il fascicolo personale che le include di fatti specifici. A questo scopo, è necessario un ampliamento delle fonti di conoscenza per garantire l’implementazione delle informazioni qualificate di cui il Consiglio Giudiziario deve fare sintesi, consentendo, poi, al CSM di apprezzare qualità e caratteristiche professionali del magistrato sulla base di elementi oggettivi e verificabili. Per questo, ritengo apprezzabile la previsione della riforma che introduce - con una saggia procedura che eviti deleterie personalizzazioni - la partecipazione ed il voto dei rappresentanti dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati, nella trattazione delle pratiche sulle valutazioni di professionalità, processate dai Consigli Giudiziari. Piuttosto, non si intende perché analogo coinvolgimento non sia stata previsto per l’Accademia e perché non siano stati previsti pareri (sulla base del rapporto informativo del dirigente) degli Uffici corrispondenti a quelli del magistrato in valutazione, che potevano apportare elementi utili ad intuirne la caratteristiche, fornendo una valutazione da una prospettiva ulteriore.    

Peraltro, proprio nelle valutazioni di professionalità, la riforma introduce un’insidiosa previsione destinata ad incidere seriamente sul modello di magistrato costituzionale. Il riferimento è all’art. 3, co. 1, lettera h) del progetto di riforma dove si prevede: «…l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici…» dai quali desumere «…la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio…». La indicazione è ancora più netta per l’accesso in Corte di Cassazione, alla luce dell’art. 2, co. 3, lettera d) del progetto di riforma che individua gli «…andamenti statistici gravemente anomali degli esiti degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio…», quale elemento di valutazione delle attitudini dell’aspirante.

L’introduzione del parametro statistico degli andamenti «…gravemente anomali degli esiti degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento…» è un’evidente sollecitazione al conformismo e mimetismo giudiziario, dagli effetti nefasti per la qualità della giurisdizione. Si dimentica, infatti, che il diritto non è statico, ma è progressione ed affinamento di comprensioni che si nutre di un dialogo costante tra gli interpreti. 

Pensiamo, ad esempio, alla coltivazione domestica e per uso personale di una piantina di marijuana. L’andamento statistico dell’esito successivo degli affari, trattati dai pubblici ministeri che chiedevano l’archiviazione del relativo fascicolo (con successiva imputazione coatta, imposta dal GUP) o dai giudici che assolvevano gli imputati (condannati, invece, nei gradi successivi), era gravemente anomalo. Eppure, senza quel dialogo interno alla giurisdizione, non sarebbe, poi, giunta Cass. SU n. 12348/2020 a statuire l’irrilevanza penale di quella condotta. Ed è proprio per questo che le attuali valutazioni di professionalità, pur prevedendo l’analisi degli andamenti gravemente anomali degli affari nei gradi successivi, leggono il dato statistico non in sé, ma solo in funzione della verifica della preparazione giuridica del magistrato e delle sue qualità argomentative. 

Ecco, a me pare che la valorizzazione degli elementi di gretta produttività, insieme alle verifiche statistiche della resistenza dei provvedimenti emessi, tendano a proporre un modello di magistrato preoccupato per gli effetti delle determinazioni giurisdizionali sulle sue valutazioni professionalità, poco propenso all’approfondimento delle complessità, perché teso a privilegiare la celerità delle decisioni.  Ed è evidente come tutto questo impoverisca l’elaborazione giuridica e, quindi, la tutela dei diritti.

Un profilo, infine, che apprezzo molto del progetto di riforma è il ritorno al cd. concorso di primo grado che anticipa l’ingresso in magistratura delle giovani generazioni di giuristi, dando chance anche a chi, uscendo dall’università, ha la necessita di trovare presto un’occupazione, per garantirsi dei redditi adeguati.

 

Contro il progetto di riforma l’Associazione Nazionale Magistrati ha indetto uno sciopero. Decisione giusta o criticabile? Una scelta necessaria oppure evitabile (o almeno procrastinabile) in favore di altre possibili iniziative da adottare nel corso dei lavori parlamentari?      

La gravità degli effetti della riforma giustificava, in sé, il ricorso allo sciopero; perché, questa incidendo sulla capacità della magistratura di interpretare autenticamente il suo ruolo costituzionale, nuoce al cittadino ed alla tutela effettiva dei diritti. Ma lo sciopero, nella tradizione associativa, è uno strumento finale che ha la necessità di essere metabolizzato dapprima nella magistratura; quindi, è necessario illustrare la piattaforma rivendicativa fuori dalla corporazione, per cercare sinergie con avvocatura, accademia, sindacati amministrativi, società civile. 

Per molti magistrati negare il servizio giustizia, l’ambizione del cittadino a ricevere risposte di giustizia, anche per un solo giorno, è una ferita inferta al proprio ruolo; una sorta di negazione della propria essenza, delle ragioni profonde che li hanno indotti a scegliere questo lavoro. Per questo molti, pur intuendo le buone ragioni della protesta, non hanno scioperato, percependo l’attuale incapacità di questa estrema forma di dissenso, di essere compresa fuori dalla corporazione. La mia percezione è che, là dove le GES ANM abbiano ben operato, le assemblee aperte indette il giorno dello sciopero abbiano compattato la magistratura e reso gli altri attori coinvolti (avvocatura ed accademia in particolare), più consapevoli dei gravi effetti che la riforma avrà sulle attese di giustizia del cittadino. 

E’ stato sbagliato, dunque, giungere allo sciopero, senza programmare prima attività di sensibilizzazione interna ed esterna alla corporazione; ed è stato sbagliato non lasciarsi margini di manovra per potere svolgere queste attività, nel caso in cui i tempi del riformatore si fossero dilatati, per come è, poi, avvenuto. Abbiamo, così, speso l’arma finale, con uno scarso coinvolgimento dei magistrati, facendo perdere all’ANM autorevolezza nel prosieguo delle interlocuzioni con il Riformatore.

E questo ritardo non ha riguardato solo gli ultimi tempi, ma è più risalente. I due principali gruppi associati: Area DG e Magistratura Indipendente si sono illusi di potere superare gli effetti della crisi di credibilità e fiducia della magistratura, tramite i procedimenti disciplinari ordinari e quelli para-disciplinari, avviati dai probiviri dell’ANM, sul materiale emerso dall’indagine perugina, senza affrontare gli scomodi nodi che stavano al fondo di quella crisi. Questa scelta ha inciso sull’autorevolezza dell’ANM nel confronto con il Riformatore, mentre l’assenza di un’autentica auto-critica ha ridotto la qualità della proposta riformatrice dell’associazione che, spesso, è stata percepita come conservatrice dell’esistente. Non attendersi, poi, un peggioramento della riforma licenziata dal Governo, nel passaggio parlamentare, è stata una pia illusione a cui si è tentato maldestramente di riparare con uno sciopero programmato in fretta e furia.

 

Al di là dei luoghi comuni - il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto - l’esito dello sciopero fotografa una divisione a metà della magistratura. Pensi che il dato sia dovuto a fattori contingenti, concernenti “questa” specifica astensione,  o che esso rispecchi più profonde trasformazioni e differenziazioni verificatesi nel corpo della magistratura?  

Come accennavo, le cadute etiche palesate dall’indagine perugina sono gli effetti della crisi dell’associazionismo, ridotto a lotta per il potere, piuttosto che a confronto tra diverse sensibilità culturali. Cosimo Ferri con le sue feste in circoli esclusivi e Luca Palamara con le aggregazioni fondate sulla comune passione calcistica, hanno insegnato un modo altro di fare associazione, in cui il confronto politico era sub-valente, rispetto al momento ludico-ricreativo. Direi che quel metodo ha fatto breccia, ma aggiungo anche come tra i gruppi associati vi sia una nuova consapevolezza della necessità di restituire un ruolo centrale al dialogo e confronto tra le sensibilità diverse, ma tutte legittime, che percorrono la magistratura.

La premessa mi è necessaria perché ritengo che i frazionamenti nella magistratura fossero preesistenti allo sciopero. Il micro-corporativismo geografico, delle generazioni, dei mestieri ed all’interno di questi delle specializzazioni, è l’esito dell’assenza di un autentico, condiviso discorso politico interno all’associazione che interroghi la magistratura sulle prospettive future e sulla ragione di senso che sta a fondamento dello svolgere oggi questa bellissima professione.

Per ciò, la divisione sperimentata in occasione dello sciopero ha costituito l’ennesimo frazionamento di cui non avevamo bisogno e che alcuni gruppi hanno avventurosamente cavalcato per bieche ragioni elettorali. Ma l’analisi è molto più complessa di quella che legge l’esito dello sciopero come la fotografia di una divisione tra magistratura “alta” e “bassa”, tra “giovani” ed “anziani”, tra grandi uffici ed uffici periferici. Ed accontentarsi di questa analisi consolatoria, senza coltivare prospettive nuove è solo un modo per non assumersi le responsabilità delle scelte, che è uno dei sintomi più evidenti della progressiva decadenza di una classe dirigente.

Per questo, preferisco interrogarmi su come recuperare un dialogo tra quella magistratura che si è ribellata al modello burocratico ed aziendalistico proposto dalla riforma e quella magistratura che, pur intuendo le buone ragioni della protesta, non ha ritenuto che fosse quello il tempo ed il modo di scioperare. Al fondo di entrambe le scelte, infatti, vi è un’idea “alta” dello statuto del magistrato e della sua funzione all’interno dell’assetto costituzionale. A partire da qui si può ricucire un discorso ed un confronto comune a tutta la magistratura per guardare alle prospettive future, senza prescindere da una sana autocritica circa le ragioni della crisi etica. Ma non già per una ricerca di responsabilità, quanto piuttosto per individuare le cause strutturali di quella crisi che ci diano insegnamenti e capacità di proposta per il futuro.

 

Molti dei principi fondanti l’assetto della magistratura sono “controintuitivi”.  Ad esempio, l’eguaglianza di quanti amministrano giustizia e la ricerca di una elevata professionalità “media” in luogo delle graduatorie dei migliori si pongono su di una lunghezza d’onda molto diversa da quella di altri settori professionali. E’ ancora possibile, come è avvenuto in passato, spiegare ai cittadini il significato di questi principi e invitarli a difenderli come loro beni? E attraverso quali percorsi e quali autocritiche sul carrierismo, sulle attuali valutazioni di professionalità, sul rispetto dell’etica professionale? 

Come ho già detto, senza una sana autocritica non si può costruire un discorso comune dell’associazionismo in cui tutta la magistratura si riconosca. E senza una trama comune che indichi prospettive nuove sarà difficile recuperare credibilità istituzionale e creare sinergie con l’opinione pubblica a tutela dei diritti e delle procedure attraverso cui farli valere.

Questa è stata la stagione delle semplificazioni grette di ponderose complessità, la stagione degli ipnotizzatori delle paure sociali, dei personalismi narcisistici in cui identificarsi, senza essere davvero coinvolti, illudendosi di investirvi il bisogno di cambiamento. Per ciò, è vero il discorso controintuitivo fatica ad emergere ed essere apprezzato. 

Tuttavia, siamo, anche, in una stagione di cambiamenti epocali perché la crisi pandemica prima e la guerra alle porte dell’Europa, poi, ci hanno restituito la necessità di confrontarci su temi fondamentali che sono alla base del modo in cui intendiamo la società e gli spazi individuali dentro questa. Nel nostro piccolo, la crisi etica prima e questa pessima riforma poi, costituiscono occasioni per interrogarci sulle ragioni di senso della nostra professione e dello stesso associazionismo giudiziario. A me pare, che si avverta sempre più il bisogno di restituire dignità e qualità al confronto politico, perché è sempre più evidente che la complessità dei problemi è insofferente a qualunque semplificazione.

Per questo sono fiducioso nella possibilità di trovare ancora spazi ed argomenti che rilancino la necessità e la qualità dei valori contro-intuitivi che stanno a fondamento dell’assetto costituzionale ed orizzontale della magistratura.

 


 
[1] Si tratta di anestetizzare, per questa via, la battaglia culturale contro la gerarchia nell’ordine giudiziario, culminata nella legge 25 luglio 1966 n. 570 (cd. legge Breganze) sulle nomine a magistrato di Corte di appello e nella legge 20 dicembre 1973 n. 831 (cd. “Breganzone”) sulle promozioni in Cassazione che hanno conformato lo statuto del magistrato, all’assetto costituzionale. Come si dirà meglio in seguito, il riferimento agli effetti complessivi determinati dalle previsioni di cui agli artt. 2, 1 comma, lettera d), art. 3, 1 comma, lettera d), art. 3, 1 comma, lettera h) 1 del progetto di riforma n. 2681.

[2] Si vedano, come esempi, di questa direttrice: il ruolo del programma di gestione, quale strumento di valutazione efficientista del dirigente e dell’aspirante tale; l’accentuazione del rapporto informativo nelle valutazioni di professionalità che possono limitarsi a richiamare il primo; le nuove fattispecie disciplinari introdotte ed, in particolare, quella relativa, al mancato rispettivo delle direttive funzionali a garantire i risultati pronosticati nel programma di gestione.

[3] Ed è proprio la natura di organo espressione di politica giudiziaria che rende il sorteggio dei candidati al CSM uno strumento inadatto allo scopo. Non si tratta, infatti, di esercitare solo un’alta discrezionalità amministrativa, ma soprattutto di assumere scelte politiche che sono la sintesi delle plurali sensibilità presenti nella magistratura. E senza una selezione elettorale dei rappresentanti non è possibile che tutte queste sensibilità professionali siano rappresentate nell’organo di auto-governo.

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