Ha suscitato interesse, una certa curiosità, qualche spunto polemico [1] ed un certo disorientamento nell'opinione pubblica la recente diffusione dei cd. cannabis shop, ovvero di negozi per la commercializzazione al pubblico (ed al dettaglio) delle infiorescenze della cannabis e di altri preparati a base di cannabis con un principio attivo (THC) inferiore allo 0,6% (più nota come cannabis light).
Tutto è iniziato con l'introduzione delle disposizioni a sostegno della filiera agroindustriale della canapa (legge n. 242 del 2 dicembre 2016, Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa) e con l'idea che il legislatore avesse, così, finalmente e con buona dose di ragionevolezza e pragmatismo, “ritagliato” dei momenti di liceità alla commercializzazione della cannabis sativa L.
La questione della liceità (od illiceità penale) della commercializzazione della cd. cannabis light ha trovato soluzioni interpretative contrastanti nella giurisprudenza di legittimità (financo in seno alla medesima Sezione sesta penale della suprema Corte, che a distanza di soli due giorni è riuscita ad esprimersi nel senso della illiceità e della liceità), ricomposte dal recente intervento delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione.
Secondo le Sezioni unite della suprema Corte, la «commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicabilità della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicché la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui all'art. 73, d.P.R. n. 309/90, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall'art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività» (Cass. Pen., Sez. unite, ud. 30 maggio 2019, dep. 10 luglio 2019, n. 30475).
La vicenda offre importanti stimoli di approfondimento e qualche interessante suggestione in tema di offensività [2] − in astratto (dovendo la fattispecie esprimere, in astratto, un contenuto lesivo, o comunque di messa in pericolo, di un bene giuridico) ed in concreto (quale autonomo e distinto elemento del fatto tipico, giusta l'impostazione dogmatica preferibile a parere di chi scrive) [3] − delle condotte di commercializzazione della cannabis sativa L., proveniente dalle coltivazioni lecite ai sensi della legge n. 242/2016 e destinata all'assunzione umana.
La legge n. 242/2016 − recante, come detto, norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.) − prevede, in sintesi, che:
- la coltivazione delle varietà di canapa iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, è consentita senza necessità di autorizzazione (artt. 1, comma 2 e 2, comma 1);
- le coltivazioni di dette varietà «non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309» (art. 1, comma 2);
- il «sostegno e la promozione riguardano la coltura della canapa finalizzata: a) alla coltivazione e alla trasformazione; b) all'incentivazione dell'impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali; c) allo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l'integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale; d) alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; e) alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca» (art. 1, comma 3);
- dalla «canapa coltivata ai sensi del comma 1 è possibile ottenere: a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; c) materiale destinato alla pratica del sovescio; d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; g) coltivazioni destinate al florovivaismo» (art. 2, comma 2);
- qualora all'«esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell'agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge» (art. 4, comma 5);
- il «sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla presente legge possono essere disposti dall'autorità giudiziaria solo qualora, a seguito di un accertamento effettuato secondo il metodo di cui al comma 3, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione è superiore allo 0,6 per cento»; in tal caso è «esclusa la responsabilità dell'agricoltore» (art. 4, comma 7).
Si poteva, così, con buoni argomenti logici, sostenere che la legge n. 242/16 avesse delineato un microsettore normativo in radice autonomo dalla disciplina del dPR n. 309/1990 per la cannabis proveniente dalle coltivazioni consentite − in alcun modo riducibile ad un rapporto normativo regola-eccezione, nell'ambito del quale la fissazione del limite dello 0,6% di THC, rappresentasse l'«esito di quello che il legislatore ha considerato un ragionevole equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e le (in pratica inevitabili) conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni» (Cass. Pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, dep. 31 gennaio 2019, n. 4920).
Detto altrimenti, si poteva ritenere che il legislatore avesse fissato, in ossequio al principio di offensività, una soglia di punibilità ancorata ad un coefficiente quantitativo − stimato nella misura dello 0,6% di THC ed individuato sulla base della capacità della sostanza di produrre effetti psicotropi (dunque una cd. soglia drogante) − delle condotte di commercializzazione della cannabis sativa provenienti da coltivazioni lecite (ai sensi della legge n. 242 del 2016) e, perciò, di condotte estranee al consueto ed allarmante contesto (ed ai canali di approvvigionamento) dello spaccio da strada.
L'assenza di effetti psicotropi (sotto soglia), escludeva il pericolo per il bene giuridico salute e l'estraneità della condotta ai contesti dello spaccio escludeva il pericolo per il bene giuridico ordine pubblico (sicurezza, ordine pubblico, tutela delle giovani generazioni).
Pur senza ancorare esplicitamente la soglia dello 0,6% di THC (intesa quale soglia drogante, ovvero quale soglia minima in grado di produrre effetti psicotropi) al principio di necessaria offensività delle condotte di commercializzazione della cd. cannabis light (in ragione del «limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non devono considerarsi psicotropi o stupefacenti secondo un significato che sia giuridicamente rilevante per il d.P.R. n. 309/1990»), a tale principio pareva riferirsi la pronuncia n. 4920/2019 della Sezione sesta penale della Cassazione, allorquando − oltre ad evocare il «ragionevole equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e le (in pratica inevitabili) conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni» − riteneva che dalla «liceità della coltivazione della cannabis alla stregua della legge n. 242/2016, deriverebbe la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo THC inferiore allo 0,6%, nel senso che non potrebbero più considerarsi (ai fini giuridici), sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del d.P.R. 309 del 1990, al pari delle varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto d.P.R.».
Insomma, fermo restando che la presenza anche infinitesimale − ma ancora rilevabile − di principio attivo appariva sufficiente alla classificazione chimico-farmacologica della sostanza, la soglia drogante (fissata nello 0,6% di THC) avrebbe escluso − al di là appunto della mera classificazione chimica − che essa potesse considerarsi (ai fini giuridici) stupefacente, per l'assenza di effetti psicotropi.
È ben vero che la commercializzazione non figura tra le attività indicate all'art. 1, comma 3, legge n. 242/16 ma vi figurano la coltivazione e la trasformazione e, cioè, attività immediatamente e necessariamente prodromiche alla commercializzazione al pubblico; è, in altri termini, nella «natura dell'attività economica che i prodotti della filiera agroindustriale della canapa siano commercializzati e che, in assenza di specifici dati normativi, non emergono particolari ragioni per assumere che il loro commercio al dettaglio debba incontrare limiti che non risultano posti al commercio» (Cass. Pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, dep. 31 gennaio 2019, n. 4920). La «commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge, ritenersi consentita nell'ambito del generale potere (agere licere) delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi (facultas agendi)» (Cass. Pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, dep. 31 gennaio 2019, n. 4920).
Da ciò derivava che la posizione di chi fosse trovato in «possesso di sostanza che risulti provenire dalla commercializzazione di prodotti delle coltivazioni previste dalla legge n. 242 del 2016 è quella di un soggetto che fruisce liberamente di un bene lecito» (Cass. Pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, dep. 31 gennaio 2019, n. 4920), per i fini che avesse ritenuto di farne, dall'alimentazione (infusi, the, birre), alla realizzazione di prodotti cosmetici, al fumo.
Superata la soglia dello 0,6% THC si sarebbe, poi, aperto il capitolo dell'accertamento della rilevanza penale della condotta con specifico riguardo (anche) alla sua offensività in concreto (quale elemento della tipicità del fatto), dovendosi dimostrare «con certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, è di entità tale da potere concretamente produrre un effetto drogante» (Cass. Pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, dep. 31 gennaio 2019, n. 4920).
Su di una linea interpretativa sostanzialmente conforme, ma con una soglia di punibilità attestata sullo 0,2% di THC, si era pronunciata la terza Sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 7166/2019 («la ratio del rispetto del limite pari allo 0,2%, che caratterizza la coltivazione di canapa incoraggiata e incentivata sia in ambito Europeo, sia dalla legge n. 242 del 2016, è di intuitiva evidenza, in quanto, se rispettato, quella soglia individua una percentuale di THC così esigua, da risultare concretamente inidonea a provocare qualsivoglia effetto stupefacente o psicotropo»; Cass. Pen., Sez. III, 07 dicembre 2018, n. 7166).
Secondo la decisione appena evocata, la coltivazione della canapa poteva ritenersi lecita se si fossero «congiuntamente rispettati tre requisiti: 1) deve trattarsi di una delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo Europeo delle varietà delle specie di piante agricole, che si caratterizzano per il basso dosaggio di THC; 2) la percentuale di THC presente nella canapa non deve essere superiore allo 0,2%; 3) la coltivazione deve essere finalizzata alla realizzazione dei prodotti espressamente e tassativamente indicati nella legge n. 242 del 2016, art. 2, comma 2. Rispettate queste condizioni, ne deriva che è lecita non solo la coltivazione ma, quale logico corollario, anche la commercializzazione dei prodotti da essa derivati» (Cass. Pen., Sez. III, 07 dicembre 2018, n. 7166).
In senso contrario a quanto sinora esposto, però, la stessa Sezione sesta penale (Cass. Pen., Sez. VI, ud. 27 novembre 2018, 17 dicembre 2018, n. 56737; Cass. Pen., Sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003) e già la Sezione quarta penale (Cass. Pen., Sez. IV, 19 settembre 2018, n. 57703; Cass. Pen., Sez. IV, 13 giugno 2018, n. 34332) della Cassazione avevano affermato che:
- la «cannabis sativa L, in quanto contenente il principio attivo Delta-9-THC, presenta natura di sostanza stupefacente (...)» (Cass. Pen., Sez. VI, ud. 27 novembre 2018, 17 dicembre 2018, n. 56737);
- l'«introduzione della legge n. 242 del 2016, che, stabilendo la liceità della coltivazione della cannabis sativa L per finalità espresse e tassative, non prevede nel proprio ambito di applicazione quello della commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish) e − pertanto − non si estende alle condotte di detenzione e cessione di tali derivati che continuano ad essere sottoposte alla disciplina prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, sempre che dette sostanze presentino un effetto drogante rilevabile» (Cass. Pen., Sez. VI, ud. 27 novembre 2018, 17 dicembre 2018, n. 56737).
Come anticipato le Sezioni unite della suprema Corte hanno risolto il contrasto giurisprudenziale aderendo all'indirizzo (già maggioritario e) più restrittivo.
In via di estrema sintesi, la legge n. 242 del 2016, secondo il massimo consesso di legittimità, si limiterebbe a promuovere e sostenere le coltivazioni di canapa già “eccezionalmente” lecite, ai sensi dell'art. 26, comma 1, dPR 309/1990, per la sola produzione di fibre od altri usi industriali, ragione per la quale la «commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/90, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all'art. 4, commi 5 e 7 della legge del 2016».
Muovendo dalle finalità perseguite dalla legge n. 242/2016 (elencate all'art. 1), la Corte suprema ha affrontato il rapporto tra i vigenti testi normativi come segue:
- la legge n. 242 del 2016 «intende promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della Canapa sativa e, a tal fine, ha dettato disposizioni volte a incentivare la coltivazione delle varietà di canapa ammesse (...) che si collocano esattamente nell'ambito delle coltivazioni di canapa per la produzione di fibre e per altri usi industriali (…) già previste dall'art. 26 comma 2, T.U. Stup.»;
- l'art. 26, comma 1, dPR n. 309/1990, stabilisce che è «vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all'articolo 14, ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all'articolo 27, consentiti dalla normativa dell'Unione europea»;
- l'ambito dell'intervento normativo riguarda un «settore dell'attività agroalimentare ontologicamente estraneo dall'ambito dei divieti stabiliti dal T.U. stup. in tema di coltivazioni», come si evince dal «sintagma contenuto nell'art. 1, comma 2, legge n. 242 del 2016, ove è stabilito che le coltivazioni di cui si tratta “non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”»;
- la novella non aveva, perciò, necessità di effettuare alcuna modifica al disposto di cui all'art. 14, dPR 309/1990, «poiché il legislatore del 2016 ha disciplinato lo specifico settore della coltivazione industriale di canapa, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre o altri usi consentiti dalla normativa dell'Unione europea, attività che non è attinta dal generale divieto di coltivazione, come sancito dal T.U. stup»;
- le sette categorie di prodotti elencate dall'art. 2, comma 2, legge n. 242/2016, hanno, dunque, natura tassativa, in quanto derivanti da una coltivazione consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato;
- ne consegue che la «commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all'art. 4, commi 5 e 7 della legge del 2016»; in altri termini, l'art. 73, dPR n. 309/1990 «incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati dalla cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente, che informa gli artt. 13 e 14 T.U. stup. Pertanto, impiegando il lessico corrente, deve rilevarsi che la cessione, la messa in vendita ovvero la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti − diversi da quelli espressamente consentiti dalla legge n. 242 del 2016 − derivati dalla coltivazione della cosiddetta cannabis light, integra gli estremi del reato ex art. 73, T.U. stup.».
La legge n. 242 del 2016 non avrebbe, dunque, delineato alcun microsettore normativo (in radice) autonomo dalla disciplina del Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e, dunque, alcuna soglia di punibilità stimata in base alla concentrazione di THC; al contrario, la legge n. 242 del 2016 si inserirebbe nell'alveo dell'eccezione, già prevista dall'art. 26, dPR n. 309/1990, al generale divieto di coltivazione della canapa nel territorio nazionale.
Nella sua linearità il percorso argomentativo delle Sezioni unite della suprema Corte non si sottrae ad una osservazione.
Se le coltivazioni promosse dalla legge n. 242 del 2016 sono quelle già ontologicamente (ed eccezionalmente) estranee al divieto di coltivazione della canapa, ai sensi dell'art. 26, dPR n. 309/1990, allora non si spiega la necessità normativa di ribadire che esse «non rientrano» nell'ambito del divieto.
In effetti, la norma non dice che esse «non rientrano» nel generale divieto di coltivazione della canapa ma più semplicemente che esse «non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti» (ambito che include sia il divieto di coltivazione che l'eccezione al divieto di coltivazione).
Non si comprende, in altri termini, perché l'art. 1, comma 2, legge n. 242 del 2016 − nel definire l'ambito di applicazione della legge −, debba marcare confini di liceità già tracciati dall'art. 26, dPR n. 309/1990, il quale già contiene l'eccezione al divieto di coltivazione della canapa per la produzione di fibre o per altri usi industriali.
Il sintagma contenuto nell'art. 1, comma 2, in tal caso, avrebbe una valenza meramente ricognitiva e sarebbe privo di implicazioni sistematiche che esso, invece, può recuperare nella delimitazione di confini di liceità delle coltivazioni diversi ed autonomi dall'ambito di applicazione del dPR n. 309/1990 (coltivazioni che perciò «non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309»).
Al momento non resta, comunque, che prendere atto del principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite della suprema Corte e del fatto che non si possa più parlare di coefficienti oggettivi (di soglie) di offensività in astratto della condotta di commercializzazione della cd. cannabis light; o meglio: di essi non si sarebbe mai dovuto parlare, posto che «erroneamente le richiamate percentuali di THC sono state valorizzate, al fine di affermare la liceità dei derivati della coltivazione della cannabis sativa L. − e la loro commercializzazione – ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 ovvero allo 0,2 per cento» (Cass. Pen., Sez. unite, ud. 30 maggio 2019, dep. 10 luglio 2019, n. 30475).
Ogni ragionamento sul punto rimanda e si perde nella poliedrica e sfuggente oggettività giuridica della fattispecie di cui all'art. 73, comma 4, dPR 309/1990.
Resta, però, l'interrogativo di quale pericolo possa venire alla salute dalla commercializzazione di prodotti con una concentrazione inferiore allo 0,6% di THC o addirittura inferiore allo 0,2%, e quale pericolo possa da tale condotta venire all'ordine pubblico per l'estraneità ai consueti contesti dello spaccio. Ci si domanda, in altri termini, cosa resti del principio di necessaria offensività della fattispecie, inteso come «precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”)» (così, da ultimo, Corte cost. n. 109/2016).
Il richiamo alla nozione legale di stupefacente ed all'assenza di riferimenti tabellari alla percentuale di THC (che, secondo la suprema Corte, non risulterebbe incoerente «rispetto ai limiti di tollerabilità di cui all'art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento») [4] offre una risposta non soddisfacente.
Resta, poi, la questione dell'effettiva portata del richiamo delle Sezioni unite alla efficacia drogante dei prodotti («salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività»; Cass. Pen., Sez. unite, ud. 30 maggio 2019, dep. 10 luglio 2019, n. 30475), anche per comprendere se ed in quali termini si possa ancora ragionare di soglie droganti (pur con tutte le difficoltà di individuare una soglia drogante) [5] quantomeno ai fini dell'accertamento dell'offensività in concreto della condotta.
Spetta, difatti, al giudice il «compito di allineare la figura criminosa (...) al canone dell'offensività “in concreto”, nel momento interpretativo ed applicativo» (Corte cost. n. 109/2016) e di verificare se la singola condotta contestata all'agente risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità. Risultato, questo, conseguibile facendo leva sulla figura del reato impossibile (art. 49, comma 2, cp) − secondo la cd. concezione realistica del reato (fatta propria, ad esempio, da Corte cost. n. 360/1995), ovvero − secondo altra prospettiva dogmatica − tramite il riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio (cfr. Corte cost. n. 109/2016).
Le Sezioni unite, sul punto, richiamano l'«insegnamento giurisprudenziale che da tempo ha valorizzato il principio di concreta offensività della condotta, nella verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti, oggetto di cessione» [6], evocando, infine, la necessità di una «puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all'attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi» [7].
Se, però, si esclude, la rilevanza penale soltanto dei prodotti che «siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa» (Cass. Pen., Sez. unite, ud. 30 maggio 2019, dep. 10 luglio 2019, n. 30475), così intendendo, come sembra e come accade nella quotidiana prassi, l'assenza di qualsivoglia principio attivo rilevabile (e si nega la necessità, a tal fine, di una qualsiasi soglia minima di THC), di fatto, la si esclude, come appare già di per sé ovvio, per la carenza dell'oggetto materiale della condotta più che per la sua concreta offensività (quale autonomo e distinto elemento del fatto tipico).
Un'ultima battuta per chiudere il cerchio delle “suggestioni” in tema di offensività.
Nel commentare le pronunce della suprema Corte su temi di significativa rilevanza o di significativo impatto, spesso ci si duole (non sempre a proposito) di “occasioni mancate”.
Qui è il legislatore ad aver mancato − almeno sino ad ora − l'occasione per introdurre una disciplina della filiera della canapa che, con chiarezza, dalla coltivazione alla commercializzazione al dettaglio, sia pragmaticamente ispirata ad un ragionevole equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e le (in pratica inevitabili) conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni lecite di cannabis sativa [8] (magari ancorata a soglie tassative di THC).
Spetta al legislatore il compito di trovare soluzioni ed equilibri di tutela che tengano conto − nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali − delle specificità di situazioni tra loro assai diverse.
Da un canto vi è una filiera agroindustriale, monitorata dalla coltivazione alla commercializzazione (passando per la trasformazione), dei prodotti della cannabis sativa con un contenuto di principio attivo (dello 0, 6% o addirittura dello 0,2% di THC) particolarmente esiguo da risultare sostanzialmente inidoneo a produrre effetti psicotropi e, perciò, al riparo da pericoli per la salute pubblica, per l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica.
Dall'altro vi è una “filiera” criminale (anche) della cannabis − dalla coltivazione, all'importazione, alla trasformazione sino alla commercializzazione al dettaglio su strada −, solo episodicamente e marginalmente repressa e “monitorata” dallo Stato, con evidenti e gravi ricadute in termini di salute pubblica, di ordine pubblico e di sicurezza.
A monte delle diverse “filiere” resta la domanda, su vasta scala, dei derivati della cannabis, anche per uso voluttuario.
La soluzione in materia, dunque, non può che essere normativa, nella direttrice dell'offensività in astratto (più che nella direttrice dell'affannosa ricerca di una qualche incerta soglia drogante, che restituisca la condotta dell'agente all'offensività in concreto nel momento interpretativo ed applicativo della fattispecie); forse, però, il momento storico non è (per usare un eufemismo) ancora maturo per simili scelte politiche.
[1] Il tema ha richiamato l'attenzione dei media soprattutto in occasione dell'emanazione della Direttiva n. 11013/110 (4) del Ministero dell'Interno, Gabinetto del Ministro, sulla «Commercializzazione di canapa e normativa sugli stupefacenti. Indirizzi operativi» (cd. direttiva Salvini del 9 maggio 2019).
[2] Sul punto appare doveroso, da subito, citare il consolidato insegnamento della giurisprudenza costituzionale, secondo il quale il «principio in parola operi su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”). Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività “in concreto”) (sentenze n. 225 del 2008, n. 265 del 2005, n. 519 e n. 263 del 2000)»; così, Corte cost. 109/2016. In materia di stupefacenti la Corte costituzionale si è reiteratamente pronunciata sul principio di offensività − secondo le due direttrici dell'offensività in astratto e dell'offensività in concreto − in occasione del vaglio di costituzionalità della disciplina normativa relativa alla coltivazione: dalla sentenza n. 360 del 1995 (con la quale si ha la chiara enunciazione del doppio profilo del principio di offensività penale), alla sentenza n. 109/2016 (cfr. la Relazione orientativa dell'Ufficio del Massimario della suprema Corte, n. 36 del 7 giugno 2016).
[3] Si vedano in dottrina, G. Fiandaca e E. Musco, Diritto Penale, Parte Generale, Zanichelli, Bologna, 2007; E. Dolcini e G. Marinucci, Manuale di Diritto Penale, Giuffrè, Milano, 2006.
Tra le «principali funzioni della categoria del fatto tipico vi è quella di descrivere specifiche modalità di aggressione ai beni penalmente protetti. Ciò vuol dire che la tipicità del fatto si riconnette intimamente alla lesione del bene giuridico: sicché il riferimento al bene tutelato svolge, a sua volta, un'essenziale funzione ai fini della stessa determinazione del concetto di tipicità»; G. Fiandaca e E. Musco, Diritto Penale, Parte Generale, cit., p. 180.
In alternativa la cd. concezione realistica del reato, coglie la rilevanza del principio di necessaria lesività nella mancata corrispondenza tra tipicità e offesa al bene protetto in seno al secondo comma dell'art. 49 cp; tale norma legittimerebbe una valutazione “realistica” che porta ad escludere l'esistenza del reato e, dunque, la punibilità del fatto.
[4] Il «fatto che la norma incriminatrice di cui all'art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., riguardante la circolazione delle sostanze indicate dalla Tabella II, non effettui alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto commercializzato, non risulta incoerente rispetto ai limiti di tollerabilità di cui all'art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento. La norma incriminatrice, infatti, riguarda la commercializzazione dei derivati della coltivazione − foglie, inflorescenze, olio e resina − ove si concentra il tetraidrocannabinolo; diversamente, la novella del 2016, nel promuovere la coltivazione agroindustriale della canapa a basso contenuto di THC, proveniente da semente autorizzata, pone dei limiti soglia rispetto alla concentrazione presente nella coltura medesima, rilevanti anche ai fini della erogazione dei benefici economici per il coltivatore ed elenca tassativamente i prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione, tra i quali non sono ricompresi foglie, inflorescenze, olio e resina»; Cass. Pen., Sez. unite, ud. 30 maggio 2019, dep. 10 luglio 2019, n. 30475.
[5] Sul punto si veda L. Miazzi, Cannabis: dalle Sezioni Unite una risposta che va interpretata, consultabile su https://www.giustiziainsieme.it
[6] In particolare, le Sezioni unite richiamano: Cass. Pen., Sez. unite, n. 47472 del 29 novembre 2007; Cass. Pen., Sez. unite, n. 28605 del 24 aprile 2008; Corte cost. n. 109/2016; Cass. Pen., Sez. IV, n. 4324 del 27 ottobre 2015; Cass. Pen., Sez. III, n. 47670 del 09 ottobre 2014 («ove si è osservato che il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 è configurabile anche in relazione a dosi inferiori a quella media singola di cui al D.M. 11 aprile 2006, con esclusione soltanto di quelle condotte afferenti a quantitativi di sostanze stupefacenti talmente minimi da non poter modificare, neppure in maniera trascurabile, l'assetto neuropsichico dell'utilizzatore»); Cass. Pen., Sez. VI, n. 8393 del 22 gennaio 2013 («ove si è affermato che ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 è necessario dimostrare, con assoluta certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante»).
[7] Si «impone l'effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all'attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi. Tanto si afferma, alla luce del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, che, come detto, opera anche sul piano concreto, di talché occorre verificare la rilevanza penale della singola condotta, rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione»; Cass. Pen., Sez. unite, ud. 30 maggio 2019, dep. 10 luglio 2019, n. 30475.
[8] «Resta ovviamente salva la possibilità per il legislatore di intervenire nuovamente sulla materia − nell'esercizio della propria discrezionalità e compiendo mirate scelte valoriali di politica legislativa − così da delineare una diversa regolamentazione del settore che involge la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L, nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali»; Cass. Pen., Sez. unite, ud. 30 maggio 2019, dep. 10 luglio 2019, n. 30475.