1. Il rito processuale
I riti e le sue componenti non hanno una giustificazione scenografica autosufficiente, ma rispondono da sempre ad una funzione simbolica. Nei primordi l’esigenza di dare ordine alla comunità, placandone le ansie e pacificandone le tensioni, imponeva la costruzione di un filtro tra il popolo e le forze naturali, per cui il bisogno di sacralità era utile per ordinare il disordine. La dimensione sacrale ha quindi via via ceduto il passo al potere religioso e laico, e il rito si è gradualmente secolarizzato arricchendosi di regole che lo rendevano funzionale ai poteri costituiti. Quando la socialità organizzata ha preso la forma di Stato, i riti si sono adeguati alla necessità di dare ordine e visibilità alla loro pretesa punitiva. Inizialmente questa pretesa ha mostrato l’esecuzione della pena, i patiboli, le teste mozzate, offerte dal potere sovrano alla piazza. Poi è subentrata la visibilità del tribunale e del momento in cui si bilancia il torto e la ragione, con equilibrio e senza favoritismi. Gradualmente tale pretesa ha dovuto confrontarsi con le esigenze di certezza e di sicurezza dei cittadini, e ha preso vita la tormentata ed ondivaga stagione delle garanzie che ha influito sulla confezione delle norme processuali. Questa evoluzione ha interessato le varie componenti della ritualità, quelle materiali e quelle immateriali. Esemplificando si può riflettere ad esempio sui luoghi, sui tempi, sul linguaggio, sull’abbigliamento per individuarne il ruolo simbolico e funzionale, cioè la necessità di fornire senso alla giurisdizione così offrendola alla accettazione sociale. In altri termini, si tratta della capacità di fornire servizi utili agli scopi.
Non solo: nel corso del tempo sono comparsi simboli concreti che hanno avuto la loro storia, creati dall’iconografia e dalla rappresentazione artistica. La giustizia bendata per evitare favoritismi, la bilancia per esprimere equilibrio, la spada per eliminare fisicamente i colpevoli sono stati a fianco dell’amministrazione della giustizia in un cammino magistralmente descritto da A. Prosperi (Giustizia bendata, Einaudi, 2008). Ora gradualmente gli attributi simbolici ereditati dalla tradizione sono appannati e offuscati dall’oblio, sostituiti da altri più congeniali alla modernità. Del resto e comunque dei simboli, qualunque siano, non se ne può fare a meno. Essi appartengono alla vita collettiva nel profondo, in quanto la tengono insieme come collante di pensieri e di comportamenti. Essi sono dappertutto nella nostra vita, anche se non immediatamente percepibili.
2. I luoghi e gli spazi
Esistono nell’agire individuale e collettivo “spazi preordinati” come ricordano gli antropologi sociali, cioè concepiti per una funzione o per un’attività. La loro individuazione per amministrare la giustizia e allestire la scena il processo è da sempre una esigenza imprescindibile. Dalle aree aperte che ospitavano le cerimonie arcaiche in cui si allacciava il dialogo con le forze naturali, alle architetture moderne dedicate al servizio pubblico della giustizia, la localizzazione, la delimitazione, il decoro esterno e la ripartizione interna hanno da sempre assolto al compito di sottolineare la decisività delle funzioni ospitate.
E così è per le architetture medioevali nelle quali la giustizia umana si intreccia con la simbologia religiosa, così per i grandi edifici classici che si emancipano dalle tracce del divino utilizzando la sopraelevazione e i gradini da scalare come cifra dell’autorità. Con l’evolversi del rapporto tra cittadino e stato e con la crescente attenzione per l’eliminazione delle barriere architettoniche, questa tradizione costruttiva va scomparendo e impone una riflessione. La rinuncia all’emblema della potestà, che un edificio rialzato trasmette, incrina il dovuto riconoscimento al prestigio dell’attività giudiziaria? Per fare un esempio, le scelte degli architetti Gabetti e Isola, maestri indiscussi, hanno scritto una pagina fondamentale dell’architettura contemporanea in Piemonte. Hanno progettato il Tribunale di Alba su un piano tutto al terreno e dunque accessibile alla collettività senza sforzo o scalinate, e senza spazi che plasticamente segnalino le gerarchie interne all’edificio. Queste scelte sono accettabili o sono da rifiutare per ribadire la necessità dell’impronta muscolare dell’architettura razionalista del Tribunale di Milano? Il quesito è aperto e non può essere superato dall’essere stato quel Tribunale, come altri, abbandonato in seguito all’accorpamento delle sedi giudiziarie. Forse un qualche spunto di riflessione può ricavarsi dalla ricerca forzata per le sedi sopravvissute di nuovi spazi, appetibili non per ispirazioni architettoniche ma solo per essere liberi e capienti. Come è stato per le caserme, come talora è avvenuto, simbolicamente tetre.
La tradizionale collocazione dei palazzi di giustizia al centro delle città è un’opzione indiscutibile perché conferma la centralità del terzo potere, o si può accogliere la richiesta di alcuni urbanisti, affermatisi sul territorio nazionale, che prediligono collocazioni più vicine alle periferie e dunque potenzialmente più inclusive?
3. I tempi e i modi
Oltre al contenitore esiste il contenuto del rito, ed è ovvio che sia così, con notazioni tradizionali anch’esse utili e funzionali allo scopo. Innanzitutto la gestione dei tempi, preordinata, distinta in fasi comandate, ispirata alla continuità, tesa a produrre cadenze ordinate che alternano diritto di parola e silenzi. Come si è detto, una attività organizzata che deve o dovrebbe dimostrare di saper rimarginare le ferite all’ordine costituito.
Analoga specificità viene riservata alle posture, all’abbigliamento e principalmente all’oralità che, caratterizzata da un lessico specialistico, per ricordare un maestro, Cordero, accompagna gli “osservanti”. E’ peraltro innegabile che l’evoluzione dei costumi e del contesto sociale nel quale si svolge il processo ha mutato la retorica e i comportamenti che in esso hanno campo. Sforzi, peraltro sussurrati, per restituire un prestigio anche solo esteriore all’operatore giuridico, qualunque esso sia, sono andati delusi, come la frequentazione degli spazi giudiziari riconferma. Dall’utilizzo di formule magico - sacrali si è approdati al confronto dialettico, con l’affermarsi di un rito che ha modificato ruoli ed interventi e al quale si sono via via affiancate nuove realtà che lo hanno trasformato profondamente. Il diffondersi della giustizia informale, con riti speciali, ha comportato una volgarizzazione del linguaggio in direzione antiretorica, una modificazione della postura esteriore degli attori. Si è diffusa la clausura non partecipata della camera di consiglio, si sono smussate le condotte conflittuali tipiche dell’aula rinvigorendo così le prassi del ‘ processo di connivenza’. E poi l’irrompere dei saperi scientifici ha reso l’interlocuzione più specialistica, con il trionfo degli scritti compilati con linguaggi extragiuridici cui si rinvia, con il correlato scolorarsi dell’oralità.
Un altro dei requisiti essenziali del processo e ancor più del processo moderno, la pubblicità, ha subito torsioni importanti. Sta evaporando quella diretta ed immediata del pubblico spettatore della scena, silenzioso perché oramai assente. Del resto non è casuale che la pubblicità sia stato dichiarata un principio non assoluto e quindi derogabile (Corte costituzionale n.12 del 1971 e Cedu, decisione 26 luglio 2011). Parallelamente si imposta, con graduale e inesorabile invadenza, la diffusione mediatica del rito dando vita ad un processo parallelo che accompagna i giudizi fuori dalle aule, quelle cui era tradizionalmente e simbolicamente destinato. Se per un verso tale novità ha ampliato il controllo della comunità sulla amministrazione della giustizia, per altro verso ha incrinato l’indipendenza e l’autonomia delle parti, sottoponendole al controllo sociale e diffondendo aspettative di giustizia esterne con il rischio di interferire sul corretto operare giudiziario.
Tutto ciò detto si può affermare che il processo penale, come è normale che sia, è da un lato rimasto fedele al suo impianto storico e dall’altro si è adeguato alle esigenze sociali che nel tempo lo hanno accompagnato. Nel cammino di secolarizzazione, con l’affievolimento delle forme e la modernizzazione delle tecniche, esso non ha perso attenzione ai principi che auspicano che sia un “giusto processo”,
4. Il processo da remoto
In questo quadro sommariamente descritto, senza mitologie ma con pragmatismo, si affaccia un tema attuale e specifico. Esso riguarda la possibilità e l’opportunità di utilizzare la tecnologia telematica per consentire la celebrazione di alcuni momenti processuali da remoto, e cioè rinunciando alla loro realizzazione con la presenza fisica delle parti.
A fronte delle resistenze che parlano di delocalizzazione, privatizzazione, smaterializzazione come minacce ai principi fondanti del processo, si tratta di provare ad individuare alcuni criteri condivisi.
a) Innanzitutto bisogna abbandonare i pregiudizi ideologici che attribuiscono alle applicazioni tecnologiche uno scontato effetto benefico sul reale e, al contrario, la radicata preferenza del conosciuto per non doversi misurare con il cambiamento. Abbandonando pur seduttive formule quali “mediazione macchinale” e rimarcando la vischiosità di ogni innovazione, più concretamente si tratta di valutare gli effetti delle novità per misurarne i rischi e i vantaggi.
b) Nella dialettica di questo confronto non è corretto invocare la tutela di principi/feticci che già oggi vivono un’applicazione trasformata rispetto al passato, e nel bene o nel male evoluta. Il parametro di confronto deve essere da un lato la vita attuale del processo, e dall’altro il rispetto delle garanzie irrinunciabili. Qualche accenno, anche se il discorso imporrebbe di essere coltivato.
In merito all’oralità e alla necessità del suo mantenimento, talora si trascura un dato cruciale. L’oralità si contrappone allo scritto, incarna il parlato rispetto al cartaceo, l’una è il vedere l’altro è il leggere. La distinzione non è futile, ma discende dalla percezione del mondo circostante, e quindi dall’uso dei sensi utilizzati per coglierlo, veri e propri ricettori dell’esterno. Altrettanto dicasi per le videoconferenze, comunemente accettate anche nella sfera giudiziaria integrando l’oralità, non certo la scrittura. Pare ultroneo insistere su questo profilo e soprattutto negare l’evidenza: l’oralità è la grande sconfitta nel processo disegnato dai riformatori del 1989. A partire dalle sentenze costituzionali del 1992 sulle letture dibattimentali, alla dilatazione delle acquisizioni cartacee da parte del giudicante, al diffondersi di memorie scritte e relative repliche in processi ad alta tecnicità extra giuridica, oggi sempre più diffusi. Per non parlare, anche se occorrerebbe, dei giudizi di appello e di cassazione, strutturalmente destinati alla rievocazione scritta.
Argomento dominante, nei sostenitori della situazione attuale, è la tutela del contraddittorio, che sarebbe inquinata dal non essere protetta una oralità ‘de visu’ o, come taluno afferma, ‘ vivida’ (si vedano gli interventi sulla rivista on line Parola alla Difesa). Ma in realtà la Corte Costituzionale già nel 1999, con la sentenza n.342, così si era espressa: “La premessa secondo cui solo la presenza fisica nel luogo del processo potrebbe assicurare l’effettività del diritto di difesa, non è fondata. Occorre sul piano costituzionale che sia garantita l’effettiva partecipazione dell’imputato al dibattimento, e dunque che i mezzi tecnici, nel caso della partecipazione a distanza, siano del tutto idonei a realizzare quella partecipazione”. I collegamenti devono avvenire “in modo che sia effettiva, e dunque concreta e non solo virtuale, la possibilità di percepire e comunicare”. In tale situazione “non è possibile evocare il superamento della tradizione, per innovazioni tecnologiche, quale elemento in se idoneo a perturbare equilibri e dinamiche processuali, che al contrario rimangono nella sostanza inalterati”.
Del resto è significativo il recentissimo comunicato del Presidente della Corte Costituzionale del 20.4.20, secondo il quale è consentito il processo da remoto per le udienze costituzionali nel rispetto del contraddittorio. Questo vuol dire che il processo da remoto di per sé non lede il contraddittorio, ma sono le modalità con cui viene esercitato a potenzialmente vulnerarlo.
c) In relazione al cosiddetto “processo da remoto”, qualsiasi giudizio va commisurato alla qualità dell’innovazione, alla raffinatezza della sua applicazione, alle necessità di una formazione che ne renda agevole l’utilizzo in grado di sfruttarne la potenzialità. Senza cedere alla tentazione fuorviante di valutare l’innovazione con l’immediata scarsità dei mezzi tecnici applicativi.
Riavviando il nastro, la memoria rimanda al codice processuale del 1989 ed alle discussioni sulla sua entrata in vigore. Taluni, anzi molti, spingevano per il rinvio in attesa del perfezionamento delle strutture, anche immobili e spaziali, in quel momento carenti. Si ricordano le critiche scagliate sul Guardasigilli dell’epoca, che non arretrò di un millimetro, consapevole a ragione che, se si fosse atteso il superamento delle carenze strutturali, il codice non sarebbe mai entrato in vigore. Una rilettura di quel periodo sarebbe illuminante per il presente.
d) Quando interviene una nuova tecnologia non è risolutivo valutare qualche inconveniente che la rende meno soddisfacente rispetto al passato, ma è necessario effettuare una valutazione complessiva, analizzando costi e benefici indotti dall’innovazione. Anche se i processualisti non sono adusi a queste verifiche e anzi per esse sembrano freddi, esse sono indispensabili per apprezzare la novità di cui si discute. In realtà l’uso di questa tecnica non è una novità in quanto la videoconferenza è stata introdotta e implementata con vari interventi nel tempo, senza particolari allarmi e anzi talora con soddisfazione, tenuto conto dei benefici in termini di sicurezza o di genuinità della prova, senza lesione del contraddittorio. Tra l'altro essa si è diffusa persino in Gran Bretagna, depositaria indiscussa del processo accusatorio: risulta dalle cronache che si sia svolto un processo avanti l’Alta Corte con giuria attivando il sistema Zoom. Non solo: esso fu aperto al pubblico e divulgato sul canale Youtube (“Maxi processo su zoom e Youtube con testimoni da tutto il mondo”, Il Sole 24 ore del 20 aprile 2020, p.3).
E non sono emerse significative critiche sulla lesione del contraddittorio, in realtà non ‘visivo’ ma mediato, ma pur sempre orale. L’elenco è significativo per la diluizione nei decenni e per l’ampliamento dei confini. Dalla modifica dell’art. 147 bis disp. att. cpp sui collaboratori di giustizia e sui reati di criminalità organizzata, (L.n.11 del 1998, n.374 del2001, n.136 del 2010, n.6 del 2018), alla L. 279 del 2002 sugli imputati di delitti di terrorismo ed eversione, attività sovversive e banda armata, alla L. n. 45 del 2001 sul testimone vulnerabile, al d.lgs n. 159 del 2011 e n. 161 del 2017 per le misure di prevenzione, alla L. n. 24 del 2014 sul testimone vulnerabile, alla L. n.46 del 2017 per i processi di immigrazione e protezione internazionale, alla L.n.103 del 2017 impostata sulla natura di particolari reati. Senza dimenticare la L. n. 66 del 1996 sull’audizione protetta per le vittime di abusi.
Nei decreti emessi in questa fase di emergenza si è evidentemente tenuto conto dei benefici in termini sanitari. Se l’amministrazione della giustizia deve avere attenzione a realizzare prodotti di qualità ma anche prodotti finiti, è opportuno valutare se questa soluzione temporanea non possa diventare permanente in quanto utile a risparmiare mobilità e tempo di lavoro.
e) Altresì merita approfondimento la ricerca di quei momenti sensibili in cui va privilegiata la “fisicità” (tra tutti raccolta della prova orale, interrogatori, discussione dibattimentale). Nel contempo vi è da chiedersi se alcune fasi non possano essere individuate come campi dove sperimentare le nuove tecniche, anche grazie ad un inevitabile miglioramento delle tecnologie e ad un’auspicabile sempre maggior competenza degli operatori nel governarle. In quest'ottica il pensiero si dirige ai procedimenti in camera di consiglio esclusivamente cartacei (opposizione richiesta di archiviazione ad esempio), agli incarichi peritali (ad esempio per le trascrizioni delle intercettazioni), alle udienze dibattimentali di smistamento cd ‘filtro’, alle udienze con esclusiva costituzione di parte civile. Discorso più delicato ma egualmente da affrontare è il rito abbreviato, dove la carta acquisita è la regola Altrettanto delicato, ma sempre da affrontare, è il giudizio di appello e quello di cassazione, dove l’oralità è un pallido simulacro e il connotato strutturale di quel grado è lo scritto, talora ripetuto senza variazioni dalle parti in udienza.
Esistono alcune difficoltà interpretative, già presenti nelle ultimi decreti (L. n. 27 del 2020 e Decreto Legge 28 del 2020) che hanno di molto ridotto l’impatto del processo da remoto. Infatti non sono state introdotte distinzioni né casistiche, né è stato previsto come muoversi in due momenti topici del dibattimento. Il primo è come avviene la trasformazione da remoto a udienza tipica in presenza di momenti in cui il remoto è escluso. Il secondo è come procedere nei processi con più imputati che operano scelte diverse sulla praticabilità del remoto.
In conclusione, senza nascondere problemi ma affrontando i nuovi volti della modernità, merita concentrarsi sulle tutele sostanziali avendo il coraggio di abbandonare garanzie ormai soltanto più apparenti, mantenute in vita artificialmente da abitudini cristallizzate. La vera forza del diritto di difesa parte dall’equità delle norme sostanziali, dal corretto esercizio dell’azione penale, dalla effettiva parità di mezzi a disposizione delle parti, dalla formazione dei difensori. Non dalla perpetuazione di rituali difensivi stanchi, barocchi, formali. Come scrive il giurista francese Antoine Garapon, spesso citato in questo dibattito, “Il rito deve essere funzionale allo scopo, perché se si autogiustifica rinuncia alla missione sociale per il quale è sorto”. (Del giudicare, Raffaello Cortina,2007, p.20).