1. Tra i grandi processi storici rientra a buon diritto quello a carico di Luigi XVI, già re di Francia, messo sotto accusa dalla Rivoluzione. Protagonisti furono un Re giudicato dal suo popolo, ovvero dalla Convenzione Nazionale, ed un Avvocato che cercò di salvarlo dalla ghigliottina, in un processo il cui esito era scontato. Lo stesso Robespierre era contrario a giudicare Luigi XVI, perché se fosse stato assolto sarebbe stata condannata la rivoluzione, ragion per cui non vi era altra possibilità che la sua condanna e la sua morte: da avvocato non poté non denunciare l’inutilità di un processo senza garanzie e senza un giudice terzo e imparziale.
Il caso giudiziario merita di essere ricordato non solo per la sua importanza storica, ma anche, e forse soprattutto, perché pone delle domande che toccano l’etica dell’avvocato, e anche dei giudici: il che accade ogni volta che il processo penale è una simulazione, perché tutto è deciso sin dall’origine, per la forza della politica, per i contrasti tra politica e magistratura, per le suggestioni dei mezzi di comunicazione, o perché il giudice non è indipendente. Se il processo è un simulacro, anche la difesa lo è.
Si sarà posto la domanda, l'avv. de Sèze, faticando sulle carte del processo, predisponendo la sua difesa, trascorrendo le notti in solitudine, si sarà posto la domanda: potrà essere assolto Luigi XVI? Ritengo di sì: infatti, non c'è avvocato che non si ponga domande di tal fatta, che non tremi pensando alla sentenza che sarà emessa. Ebbene, se l'avv. de Sèze si è posto questa domanda, e sono convinto che se la sia posta, non può non aver risposto, a se stesso, che Luigi XVI mai avrebbe potuto essere assolto, per quanto egli avesse studiato gli atti, qualunque fossero state le tesi da lui sostenute.
Del resto egli si è rivolto ai giudici mostrando che era ben consapevole di quale fosse il loro ruolo e di quanto poco fossero imparziali. E' pur vero che egli apre il suo discorso con un atto di omaggio ai giudici, che ha tutta la solennità del momento, ma assai poco corrisponde a quanto stava accadendo: «dal silenzio che mi circonda io comprendo, che il dì della giustizia succede ai giorni di collera e di prevenzione: che quest'atto solenne non è una vana formalità: che il tempio della libertà è pur quello dell'imparzialità prescritta dalla legge: che l’uomo, chiunque siasi, ridotto alla umiliante condizione d’un accusato è sempre sicuro di riscuotere l’attenzione e d’eccitare l’interesse dei suoi accusatori medesimi».
Sennonché, sviluppando la sua arringa e trattando della legittimazione della Convenzione Nazionale a farsi giudice di Luigi XVI, così si esprime: «Cos'ha pronunziato la Convenzione? Dichiarando che avrebbe essa giudicato Luigi, ella si è costituita giudice dell'accusa da lei stessa intentata contro di lui». «Cittadini io vi parlo qui colla schiettezza d’un uomo libero. Io cerco tra voi dei Giudici, e non vi trovo che degli accusatori. Voi volete pronunziare sulla sorte di Luigi, e siete voi stessi che l’accusate! Volete giudicare Luigi e avete già palesato il vostro voto! E le vostre opinioni sono già note a tutta Europa! Sarà dunque solo Luigi tra i Francesi per cui non esista né legge, né formalità di giudizio? Ei non avrà né le prerogative reali, né i diritti di cittadino! Non gioirà né dell’antica, né della nuova sua condizione! Quale strano inconcepibile destino!».
2. La questione dell’imparzialità del giudice si è posta allora, e si è riproposta più volte nella storia, e può accadere che si riproponga oggi, nei nostri tribunali. Il processo penale si è manifestamente politicizzato, sia perché gli accusati sono spesso uomini politici; se non deputati o ministri in carica; sia perché sono gli stessi giudici, o i pubblici ministero, ad avere fatto parte di partiti politici, di averli rappresentati in parlamento, e di essere poi tornati a esercitare la giurisdizione.
La questione, in effetti, si è posta – sia pure indirettamente – con riguardo alla tesi secondo cui le cause di ricusazione sono di stretta interpretazione e l’art. 37 c.p.p. non consente, neppure sulla base di interpretazione analogica, di ricomprendervi anche quelle «gravi ragioni di convenienza» che consentono l’astensione del giudicante ai sensi dell’art. 36 c.p.p., lett. h). Se questa ipotesi fosse utilizzabile dalle parti processuali, troverebbe spazio anche la ricusazione per motivi politici o ideologici con pieno riconoscimento della imparzialità del giudice.
Il problema si è posto in tempi di particolare conflittualità tra magistratura e politica. La Corte Costituzionale con sentenza n. 113 del 2000 ha ritenuto, in ossequio ai principi del giusto processo, di dare una lettura ampia dei contenuti della causa di astensione di cui alla lettera h) dell’art. 36 c.p.p., affermando «il valore deontico del principio del giusto processo si esprime, in questo caso, sul piano interpretativo ed impedisce di attribuire alla locuzione “altre gravi ragioni di convenienza” un significato così ristretto da escludervi l’esercizio di funzioni di un diverso procedimento che abbia avuto in concreto, un contenuto pregiudicante. La disposizione in oggetto pone una norma di chiusura a cui debbono essere ricondotte tutte le ipotesi non ricadenti nelle precedenti lettere e nelle quali tuttavia l’imparzialità del giudice sia da ritenere compromessa». «Quale logico corollario se ne desume che, nella lettera h), la parola “convenienza” assume un valore prescrittivo tale da imporre l’osservanza di un obbligo giuridico che non riguarda soltanto situazioni private del giudice, ma include l’attività giurisdizionale che egli abbia svolto legittimamente in altri procedimenti». In effetti le ragioni di convenienza «private» possono essere assai numerose, da uno scritto scientifico in cui il giudice ha preso posizione sul contenuto di una norma che dovrà applicarsi nel procedimento, a una presa di posizione politica in contrasto con le convinzioni dell’imputato, ad una carica istituzionale in cui il giudice si è schierato con determinati partiti o gruppi di opinione.
Il sistema, tuttavia, appare viziato da una evidente contraddizione, perché, da un lato, si riconosce che la formula «altre gravi ragioni di convenienza» riguarda situazioni in cui l’imparzialità del giudice è (o può essere) compromessa, e, dall’altro, l’imputato è privato della possibilità di domandare ad un soggetto terzo, e di rango superiore, se sia a rischio il valore costituzionale su cui si fonda il giusto processo, e cioè l’imparzialità del giudice. Bene, perciò, farebbe il legislatore a intervenire riconducendo la lett. h) ai casi di ricusazione, proponibili dalle parti, per evitare che, com’è accaduto, un potere politicamente schierato possa giudicare senza la garanzia di imparzialità, o addirittura i vincitori possano giudicare i vinti.
3. L’avvocato de Sèze avrebbe potuto scegliere una di queste opzioni, di fronte ad un processo che mascherava una esecuzione annunciata: rifiutare il mandato, ricusare la Convenzione, o, come ha fatto, accettare di essere una comparsa di questa macabra messa in scena, un protagonista assolutamente necessario perché tutto apparisse regolare, perché fosse rispettato «il diritto di difesa».
Se il processo è una parata, se il processo salva le forme, ma in realtà è un mandato a togliere un soggetto dalla società, se non addirittura a ucciderlo, se il processo non c'è, l'avvocato deve stare egualmente al gioco? Deve recitare con i giudici ed il pubblico accusatore, o deve ribellarsi? Personalmente non ho dubbi: il processo di «connivenza» richiede il riconoscimento di regole comuni, da parte di tutti i soggetti, ed in primo luogo delle regole secondo cui il giudice deve essere terzo e imparziale, deve essere sordo alla piazza (o, più modernamente, alle istanze politiche), deve riconoscere che la prova è conoscenza, non è né teorema, né congettura. Se mancano queste condizioni, non può esservi che il processo di "rottura", il processo attraverso il quale il difensore denunzia che non ci sono né giudici, né accusatori, né avvocati, bensì attori di uno squallido spettacolo. Il difensore deve trasformarsi in accusatore, accusatore di chi giudica.
Perché, allora, l'avv. de Sèze mise tanto impegno nell'esecuzione del suo mandato, dall'inizio destinato a fallire? Probabilmente perché la difesa è una specie di imperativo categorico: l'avvocato difende, perché deve difendere, perché questo è il suo ruolo, perché è un suo dovere ed è un diritto dell'accusato. Probabilmente perché con le sue parole, pur inascoltate dal giudice, dà al proprio assistito qualche ora di speranza, l'illusione che le argomentazioni del difensore faranno breccia nel cuore, se non nella mente del Tribunale. Oggi l’avvocato è spesso solo contro tutti, come il povero de Sèze: i mezzi di comunicazione condannano l’imputato prima del processo, e a lui associano il suo difensore. Ma come de Sèze il difensore continuerà a battersi nel nome della presunzione di innocenza, pilastro di ogni giustizia e di ogni democrazia.