Magistratura democratica
Magistratura e società

Giustizia e verità *

di Glauco Giostra
ordinario di procedura penale, Università di Roma, La Sapienza. Già Coordinatore Comitato scientifico per gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale

Nel sentire comune è come se la giustizia penale si avvalesse di una sorta di algoritmo processuale che, correttamente applicato, condurrebbe alla Verità. 

Se il pubblico ministero è capace e preparato, se i testimoni sono veridici e non si sottraggono al loro dovere, se i documenti acquisiti non sono stati alterati, se gli accertamenti peritali sono stati espletati con onestà e competenza, ecc.; se il giudice è imparziale e preparato, il processo dovrebbe concludersi con la condanna del colpevole. E, a quel punto: giustizia è fatta! 

Se non si perviene alla condanna, qualche protagonista del processo non ha fatto il suo dovere: il pubblico ministero ha accusato infondatamente, il testimone ha mentito, qualche documento è stato falsificato, un perito ha attestato un dato sbagliato, il giudice non ha saputo valutare.

Inespressa, ma radicata un’idea di fondo: il processo penale costituisce una specie di GPS che, se non manomesso, guida il giudice alla Verità, accertando come si sono svolti i fatti e predicandone il valore giuridico. Per quanto diffusa, una tale idea sta alla giustizia, quanto il terrapiattismo sta alla realtà cosmica.

Ci sono sentenze giuste, eppure orfane della verità. Affermazione forte, ai limiti dell’ossimoro, ma molto vicina -essa sì- alla verità.

Giudicare è un compito terribile, che trascende i nostri limitati strumenti conoscitivi e valutativi: un compito “impossibile” e necessario.

“Impossibile”, perché noi non abbiamo strumenti per raggiungere la verità o, meglio, per avere la certezza di averla raggiunta, e con essa la Giustizia. La Verità non è umano appannaggio, nemmeno nel mondo delle c.d. scienze esatte. «Mi sembra…» fu l’esordio di Einstein nell’illustrare la teoria dei quanti. In un bellissimo libro del grande matematico Bruno de Finetti, L’invenzione della verità, viene icasticamente spiegato che non contentarsi della “verità di oggi”, ma pretendere di avere “la Verità”, crea «danno alla Scienza che, quando giunge ad una svolta essenziale, oltre le difficoltà intrinseche di quel momento delicato e eroico, si trova tra i piedi una muta di botoli ringhiosi a difesa dei loro minacciati feticci». Figuriamoci quanto possa essere ardua la ricerca che non ha ad oggetto dati tangibili o misurabili, ma una condotta del passato che proviamo a ricostruire tramite investigazioni (da vestigia facti, orme del fatto). L’agire umano lascia tracce nella realtà circostante come un mosaico frantumato. Si tratta di rinvenirne il maggior numero possibile e di ricomporle in un disegno credibile, che non conosca plausibili alternative. E’ agevole prefigurarsi aleatorietà e fallibilità di una tale operazione.

Necessario, perché nessuna collettività può permettersi di lasciare privi di conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza. 

Da sempre, per punire tali comportamenti, ogni società ricorre a un metodo condiviso di accertamento delle responsabilità, il cui esito è disposta ad accettare come verità.

Affinché l’amministrare giustizia possa svolgere la sua insostituibile funzione di coesione sociale, peraltro, non è importante che il metodo sia epistemologicamente affidabile, ma che il popolo lo creda tale. Nella copertina di uno dei più bei libri sulla giustizia penale -Riti e sapienza del diritto, di Franco Cordero- è raffigurata una donna che con il braccio sinistro stringe a sé una testa mozzata e con la mano destra protende una barra incandescente verso un re seduto sul trono. Sullo sfondo una persona brucia legata sopra ad un rogo. E’ il fotogramma finale di una cruenta storia che inizia con la moglie del re Ottone III che, attratta dal capitano delle guardie, gli si offre e, respinta, riferisce al marito che il capitano aveva tentato di usarle violenza. Il re, accecato dall’ira, fa decapitare l’ufficiale accusato dalla sua consorte. La moglie del capitano si presenta allora al suo cospetto con in braccio la testa mozzata del marito, chiedendo quale sia la pena per chi, mentendo, accusa un innocente di un reato punito con la pena di morte. Il re risponde: «il rogo!». Allora, la donna chiede al re di condannare al rogo la consorte che ha accusato ingiustamente suo marito. Per dimostrare la veridicità della propria affermazione tiene in mano una barra incandescente. Strumento probatorio a dir poco implausibile, ma a cui si attribuiva efficacia: si confidava, infatti, nel fatto che la divinità intervenisse ad interrompere la normale sequenza causale, consentendo alla persona sincera di sopportare un dolore altrimenti insopportabile. Che la collettività si riconoscesse in quel metodo, è dimostrato dal fatto che lo stesso re non ritenne di potersi sottrarre al suo responso e dovette mandare al rogo la propria consorte. 

Oggi, abbandonate nelle spelonche del diritto simili esperienze, ogni Paese democratico delinea un percorso conoscitivo -ritenuto il meno imperfetto, nel momento culturale e scientifico dato- in modo che la collettività possa riconoscersi nella giustizia amministrata in suo nome. Il processo penale può essere figurativamente visto come una sorta di ponte tibetano che conduce dalla res iudicanda alla res iudicata, che pro veritate habetur. Un tragitto rigorosamente tracciato dalla segnaletica normativa per orientarsi «nel crepuscolo delle probabilità» (Locke).

E va subito aggiunto, per renderci conto di quanto sia un percorso accidentato e impervio, che non si tratta soltanto di prescrizioni di natura prettamente epistemologica, bensì anche di natura politico-culturale. Ci sono valori, infatti, che una società civile considera plusvalenti rispetto alla stessa verità, a tutela dei quali limita i suoi già inadeguati mezzi per raggiungerla: una società civile ripudia «una ricerca della verità da cui l’umanità esca umiliata» (Cordero). 

Una sintetica ed incompleta rassegna può dar sufficientemente conto di quali potrebbero essere questi valori che possono talvolta essere di ostacolo all’accertamento dei fatti e delle responsabilità.

Il rischio di condannare un innocente. Nella ricerca della verità lo scienziato si assume la responsabilità della sua ipotesi: l’errore ricade quasi sempre soltanto sulla sua credibilità professionale; nella giustizia penale l’errore sacrifica la vita di esseri umani. Un Paese civile nel dubbio preferisce addossare il rischio dell’errore alla collettività, piuttosto che al singolo. Si studiano regole, ritenute le meno fallibili, per predisporre una sorta di guard rail in grado di evitare sbandamenti verso l’ingiustizia o, più realisticamente, per assicurare che sia dato fondo a tutte le risorse per evitarla. Sostanzialmente in due modi: vengono banditi, come nel nostro sistema attuale, alcuni elementi cognitivi spuri ad alto indice di inaffidabilità (anonimi, voci correnti nel pubblico, testimonianza per sentito dire) e altri divieti si potrebbero introdurre (personalmente, ad esempio, vieterei la testimonianza de relato quando il testimone diretto non è più in vita); nei casi incerti, poi, si applica il parametro di giudizio in dubio pro reo, che nella sostanza sta a significare che la collettività preferisce correre il rischio di assolvere un colpevole piuttosto che quello di condannare un innocente. 

La dignità dell’imputato. L’imputato è l’unico depositario della verità: colpevole o innocente che sia, sa come sarebbe giusto che il processo si concludesse. Di qui la frequente tentazione, nei secoli, di costringerlo a rivelarla, la verità, anche ricorrendo alla tortura, peraltro strumento tanto orribile, quanto spesso fallace. L’art. 188 c.p.p. vieta oggi di ricorrere, anche con il consenso dell’imputato, a «metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti». L’intento di rispettare la dignità dell’imputato e la fallibilità di tali strumenti hanno indotto il legislatore, condivisibilmente, a non farvi ricorso. Ma le novità della tecnologia incalzano. Il PSA, sino a non molto tempo fa, era soltanto un marcatore medico della situazione prostatica, non l’acronimo di uno strumento invalso negli USA per la predizione della pericolosità di un individuo (Public Safety assessment), come il più noto COMPAS. Conserviamo, se non una istintiva ripulsa, di certo molta diffidenza nei confronti di questa prassi che si va affermando. Ma ci dobbiamo anche onestamente chiedere: ove un domani fosse sperimentato un metodo indolore e sicuro, una sorta di psicoscopia, sarebbe giusto privarne l’innocente? L’imputato innocente potrebbe gridarci contro: “vi preoccupate, non richiesti, di tutelare la mia dignità, ma il prezzo di un ergastolo (o della pena di morte, ove è ancora prevista) lo pago io, se mi precludete l’unico mezzo che ho, nella mia vicenda, per provare che sono innocente!”. Sono certo che finirei per convenire che sarebbe eticamente inaccettabile privarlo della possibilità di dimostrare la propria innocenza. Poi, però, sugli imputati che non dovessero richiedere di far ricorso a questa “psicoscopia” finirebbe inevitabilmente per gravare una presunzione di colpevolezza. Sono sollevato dal fatto che l’età mi eviterà di ricordare l’attualità del problema. 

Altri valori. Ci sono, come si diceva, valori sociali ed etici che una collettività civile considera più importanti dell’accertamento della verità. Ad esempio, la riservatezza dei colloqui del soggetto inquisito con il proprio difensore (divieto di intercettazione) o il vincolo del segreto per il medico o il sacerdote cui l’imputato si sia rivolto. E’ ben possibile che consentendo all’autorità inquirente di entrare in questi sacrari in cui l’individuo ha bisogno di affidare ad un altro soggetto le proprie più intime fragilità possano aumentare le chances per una più rapida o più corretta ricostruzione dei fatti, ma a prezzo di una società composta di persone più sole e più diffidenti, che percepiscono l’Autorità come un inesausto e onnipresente perquisitore della loro vita.

Un ultimo esempio di possibili frizioni tra giustizia e verità. Possiamo non essere quasi mai certi della verità raggiunta, ma possiamo esserlo dell’errore commesso. Esempi estremi: condanna definitiva per omicidio e rinvenimento in vita del presunto ucciso oppure assoluzione passata in giudicato dall’accusa di omicidio e sopravvenienza di prove che dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio la responsabilità dell’erroneamente assolto. Anche qui si impone una scelta valoriale, politica e culturale insieme: sino a che punto si deve sacrificare il valore della certezza e della definitività del giudicato ad istanze di giustizia? 

Il tempo a disposizione non mi consente di soffermarmi ancora sui delicati e spesso difficili rapporti tra giustizia e verità. Spero di essere almeno riuscito a far comprendere quanto abbia profondamente ragione Antoine Garapon, quando ricorda che essere un buon giudice esige «la permanente elaborazione del lutto di una giustizia perfetta». 

Se si conviene che questa è la giustizia che noi uomini siamo in grado di amministrare, alcune importanti considerazioni-corollario meritano di esser fatte, perché viviamo un tempo che le ignora. Spesso ad ignorarle, e non può non preoccupare, sono i nostri rappresentanti istituzionali.

Anzitutto, diversamente da quanto accade per altre pubbliche funzioni (politica economica, estera, ambientale, della sicurezza pubblica) il prodotto della giustizia non si giudica dai risultati, ma dal metodo seguìto. A differenza di tutte le altre potestà pubbliche, che obbediscono ad un programma di scopo, quella giurisdizionale, per dirla con Luhmann, risponde ad un programma condizionale: se accerta che si è verificato un certo fatto, il giudice deve applicare una determinata conseguenza. E in tal modo si sottrae alla critica politica, essendosi limitato ad applicare la legge che la politica ha predisposto. In altri termini, il giudice non può e non deve rispondere delle conseguenze (economiche, sociali, etiche) della sua decisione, ma solo del rispetto delle regole del procedere e del valutare. 

Se alla lettura del solo dispositivo giudichiamo una sentenza “vergognosa” (quasi sempre quando è di assoluzione) o siamo in malafede o siamo giuridicamente analfabeti. E mentre si può comprendere la rabbia delle vittime del reato, da cui non si può pretendere che attendano di esaminare il percorso processuale e la motivazione della sentenza per esprimere rimostranze critiche, inescusabile è la censura mossa senza conoscere, soprattutto quando proviene da rappresentanti delle istituzioni. Va da sé che, al contrario, si possano ovviamente muovere motivate critiche al singolo processo o alla singola decisione individuando falli nel modus procedendi o decidendi.

Quello che non ci si può e non ci si deve consentire, tanto più se si rappresenta un altro potere dello Stato, è delegittimare il metodo giurisdizionale convenuto, mettendone in crisi la stessa funzione di coesione sociale.

Per comprendere con facilità cosa non dovrebbe essere consentito in un maturo Stato di diritto basta andare alle reazioni di larga parte della nostra classe dirigente quando intende demagogicamente assecondare il sentire della piazza o quando i provvedimenti della magistratura investono persone o temi politicamente sensibili: “vuole colpire la nostra forza politica in ascesa”, “è il cancro della democrazia”, “una magistratura obnubilata dall’accanimento persecutorio”; “questa sentenza ha fatto giustizia di anni di feroce persecuzione giudiziaria”, “stanno indagando mio figlio o mio padre, solo perché figlio o padre mio”, “la misura è colma: bisogna istituire una Commissione di inchiesta sull’operato della magistratura”; “per alcuni giudici ci vorrebbero le manette”. Per carità di Patria, poi, non mi soffermerei sul malvezzo italico del garantismo ciclotimico: le sentenze si rispettano quando condannano gli avversari politici e sono sintomi di persecuzione giudiziaria quando colpiscono i propri sodali.

Un'altra percezione distorta, in qualche modo collegata alla precedente, è quella di ritenere che la giustizia penale debba perseguire scopi ulteriori oltre a quello di stabilire se una certa accusa è fondata. Diffusa è la convinzione, ad esempio, che serva per combattere la criminalità (es. mafia) o per moralizzare la politica e la pubblica amministrazione (es. inchiesta di Mani pulite su “Tangentopoli”). Queste patologie sociali si debbono contrastare con la prevenzione, l’etica politica, il controllo del territorio, indagini condotte con adeguato dispiegamento di uomini e di mezzi. La giustizia penale, il processo penale in senso stretto serve soltanto per accertare il fondamento di un’accusa: per assolvere o condannare. La magistratura e il processo non possono e non debbono perseguire obbiettivi diversi. Per esempio le indagini avviate di recente dal Procuratore di Bergamo sui provvedimenti di contrasto alla pandemia da Covid, dichiaratamente volte anche a fornire «valutazioni epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologico-amministrative», escono dall’alveo della ortodossia istituzionale, pur se mosse dall’ intendimento -molto meritorio, se perseguito con altri mezzi- di fare in modo “che la gente sappia cosa è successo”. 

Terza e più importante implicazione. Se tra verità giudiziaria e verità storica dei fatti imputati può ben esserci uno iato, qualunque Stato laico o religioso preveda la pena di morte è uno Stato barbaro. Anche se gode della patente di specchiata democrazia, come gli Stati Uniti d’America. L’alibi morale è in genere costituito dalla necessità di scongiurare con la terribilità di questa pena la commissione di altri gravi delitti. Una giustificazione tanto diffusa, quanto priva di ogni riscontro scientifico e statistico. Abbiamo letto in queste ultime ore la notizia che in Israele ha superato il primo voto del Parlamento un testo che recita: «chi intenzionalmente o meno [sic! da augurarsi vivamente che vi sia un difetto di traduzione] causa la morte di un cittadino israeliano [sic!], se l'atto è portato a termine per motivi razzisti o di odio allo scopo di danneggiare lo stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua patria» è passibile di pena di morte. Non meno agghiacciante di questo proposito legislativo è la giustificazione che ne è stata data: «si tratta di una legge morale (…). La pena di morte esiste nella più grande democrazia del mondo» e avrà «un grande effetto deterrente». Tanto è diffuso questo insulso luogo comune che un noto e molto apprezzato scrittore come Scott Turow non si è peritato di affermare testualmente: «Quando mi dicono: gli europei non hanno la pena di morte da generazioni e stanno bene così, io, che pure penso che la pena di morte non sia una buona idea, replico che non puoi paragonare la società americana alle società europee, perché noi abbiamo cinque volte il numero di omicidi pro capite dell'Europa occidentale». E’ singolare che un intellettuale del suo livello non si accorga del boomerang argomentativo cui ricorre. Se, nonostante gli Usa abbiano la pena di morte e un indice di carcerazione quasi dieci volte superiore a quello italiano registrano una percentuale di omicidi otto volte superiore alla nostra, come si può sproloquiare di deterrenza esercitata dalla paura della pena? Sul fatto poi che ci si consenta di definire morale una legge istitutiva della pena di morte quando proprio negli USA l’Innocente project sta da tempo dimostrando, soprattutto grazie agli accertamenti sul DNA, che sono state mandate a morte decine e decine di persone innocenti, omettiamo ogni commento: non ci occupiamo di blasfemia.

Su un punto, prima di concludere, non vorremmo essere fraintesi. Non smetteremo mai di denunciare quanto sia malmesso e traballante il ponte del processo penale, ma con forza maggiore dobbiamo ammonire che senza questo ponte - cioè senza un itinerario cognitivo rispettoso dei diritti difensivi dell’accusato e una pronuncia emessa da un giudice indipendente da ogni potere - si apre il baratro delle democrature e dei totalitarismi, della giustizia del più forte, dei diktat della maggioranza del momento, delle regole imposte dalla oppressiva religione di Stato, della vendetta privata o per bande. La nostra è inevitabilmente una giustizia congenitamente imperfetta, ma, come per la democrazia, qualsiasi alternativa è peggiore. 

Dirò di più: ogni alternativa è causa o conseguenza di un tracollo democratico. Sarebbe compito purtroppo estremamente agevole offrirne esempi (Iran, Afghanistan, Russia, Turchia, Cina, ecc.). 

Mi sembra che il nostro Paese ancora creda, nonostante qualche sinistro scricchiolìo, nella necessità del giusto processo davanti a un giudice indipendente dal potere politico. Non penso che corra il rischio di simili sciagure democratiche. Semmai indulge talvolta alla farsa (un ex ministro che formula la sua accusa al citofono del presunto spacciatore di stupefacenti in presenza di un gruppo di curiosi), alla caricatura (due ministri che organizzano un’accoglienza impavesata per l’arrivo in aeroporto di un criminale come Battisti) e alle parodie (processi-farsa allestiti in tv, con format collaudati e, purtroppo, di successo). 

Mi avvio davvero alla conclusione. La modestia delle nostre capacità non ci esonera dal dovere di dar fondo a tutte la risorse disponibili per offrire la giustizia migliore, per inseguire la Vera Giustizia. Dobbiamo regolarci con questo irraggiungibile obbiettivo come il grande Galeano suggerisce di fare con tutte le utopie: «L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare». 

Nel nostro caso, per camminare nella giusta direzione con la povertà dei nostri mezzi e la nobiltà dei nostri propositi. 

[*]

Relazione tenuta al Festival della giustizia penale di Modena il 18 maggio 2023

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