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I criteri probatori della violazione del principio del giusto processo di cui all'art. 6 Cedu. Una visione comparatistica

di Mario Serio
Professore di Diritto Privato Comparato presso l'Università di Palermo, già componente di nomina parlamentare del CSM nella consiliatura 1998-2002

La Supreme Court del Regno Unito ha fornito, in una propria recente sentenza, un contributo di essenziale rilevanza su questioni il cui intreccio avrebbe potuto portare, se non si fosse saputo individuare l'appropriato filo di cucitura, esiti disarmonici sia nel diritto di common law inglese sia, con anche maggior gravità, nel diritto europeo convenzionale. Si trattava di coordinare il fondamentale principio del giusto processo, fissato dall'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani del 1950, con il più solido dei ragionamenti circa la sufficienza del materiale probatorio raccolto a divenire indice della violazione dello stesso articolo 6. I supremi giudici inglesi si sono collocati saldamente sulla linea della giurisprudenza di Strasburgo, fissando, in un caso dalle irripetibili peculiarità, affidabili parametri che sappiano, come è avvenuto nel caso sottoposto al loro esame, felicemente contemperare l'esigenza di garantire costantemente condizioni di svolgimento dei processi rispettose dei diritti umani con quella, altrettanto meritevole di apprezzamento, di evitare l'abuso del ricorso allo strumento di tutela convenzionale fondato su motivi puramente congetturali e tali, pertanto, da scuotere la stabilità del giudicato, lasciandolo alla mercé di infinite, labili impugnazioni, contrarie allo stesso spirito del fondamentale precetto del giusto processo.

1. Il seduttivo richiamo dell'art. 6 Cedu nei casi di opposizione alla richiesta di estradizione conseguente ad una condanna definitiva nel paese richiedente

La solidità ed il credito esterno di un sistema giuridico può misurarsi in base a più metri di giudizio. Tra essi uno dei più rilevanti, in quanto, tra l'altro, sintomatico dell'adempimento di uno Stato agli obblighi internazionalmente assunti in via convenzionale, è quello della sua capacità di assicurare a tutti coloro che ne siano parte un giusto processo, secondo la nota e collaudata nozione che, ad esempio, ne offre l'articolo 6 della Cedu, ponendo l'indipendenza e l'imparzialità del giudice al centro dell'attenzione. Peraltro, la stessa Corte europea dei diritti umani[1] ha recintato i confini al cui interno opera la disposizione dell'art. 6 e, al tempo stesso, ha ribadito le condizioni che consentano di affermarne, nei casi di richiesta di estradizione in vista dell'esecuzione di una sentenza definitiva di condanna pronunciata nello stato richiedente, la più grave e patente delle violazioni, quella che si risolva in un sostanziale diniego di giustizia (“flagrant denial of justice”) in sede di svolgimento del processo da cui ha tratto origine la condanna stessa. Si è, infatti, affermato che questa evenienza non si identifica semplicemente in irregolarità formali o mancanze di garanzie processuali che potrebbero in altri casi dar vita ad una violazione dell'articolo 6. Occorre, infatti, per legittimare il rigetto della richiesta di estradizione nell'ambito di stati aderenti alla Convenzione del 1950, che la violazione sia stata di tale gravità da dar luogo all'annullamento, o alla cancellazione, della sua stessa essenza quale garantita da tale norma[2]. La statuizione, rimasta ferma nel tempo, gioca un evidente ruolo di contenimento delle pretese di impedire l'accoglimento indiscriminato di richieste di estradizione sul presupposto che le condanna di cui si chiede l'esecuzione nel paese richiedente sia stato il frutto dello svolgimento nello stesso di un processo difforme al modello descritto dall'articolo 6. Si è, pertanto, andata creando una forma di aggravamento dei requisiti necessari all'accertamento della violazione della norma e, quindi, ostativi alla concessione dell'estradizione richiesta.

Su questo sfondo generale, nei vari gradi di giudizi più perspicuamente ed analiticamente circoscritto, si pone la vicenda processuale conclusasi con la sentenza della Supreme Court dell'8 novembre 2023[3] nel caso Popoviciu v Curtea de Apel Bucharest (Romania).

 

2. La (faticosa) ricostruzione della fattispecie oggetto del giudizio nel paese richiedente l'estradizione

Nel 2016 il cittadino rumeno della cui estradizione si è trattato davanti la giustizia inglese venne condannato nel proprio paese alla pena di 7 anni di reclusione per concorso con un pubblico ufficiale (il Rettore di un'Università rumena) nell'illecita alienazione di un vasto appezzamento di terreno di proprietà pubblica ad una società privata rispetto alla quale egli vantava interessi nascenti dalla partecipazione al relativo capitale. I fatti collegati al laborioso processo svoltosi nel paese di nazionalità del condannato sono stati riepilogati con cura dalla Supreme Court. Di essi, per economia espositiva, è sufficiente riportare solo quelli dotati di diretta influenza sugli importanti principi di diritto in essa enunciati. Solo a seguito della riapertura, da parte dell'autorità inquirente di grado superiore, delle indagini originariamente archiviate l'imputato fu, insieme ad altre 11 persone, tratto al giudizio monocratico del giudice Tudoran della Corte d'appello di Bucharest. Il dibattimento si protrasse tra il gennaio 2013 ed il 23 giugno 2016, data nella quale fu depositata la sentenza di 436 pagine, 300 delle quali riproduttive dell'atto di accusa. Fu decisa la condanna di tutti gli imputati: in particolare a colui che si sarebbe poi rivolto alla giustizia inglese fu inflitta una pena detentiva di 9 anni. Nota la Supreme Court che la condanna, che muoveva dalla dichiarazione di illiceità della vendita del bene immobile e da quella del conseguente profitto, era giustificata dalla circostanza che “gli imputati non avevano in alcun modo provato la fondatezza delle proprie ragioni e che la loro colpevolezza emergeva dal materiale probatorio raccolto, certo ed inequivoco”. Nel breve esame delle singole posizioni processuali il giudice aveva concluso che l'imputato in questione aveva consapevolmente ed intenzionalmente violato la legge. La sentenza fu impugnata davanti la Corte suprema rumena che il 2 agosto 2017 la riformò limitatamente alla durata della pena, ridotta a 7 anni di detenzione, confermandola quanto all'affermazione di responsabilità del ricorrente alla stregua della logicamente motivata pronuncia del grado precedente.

Essendosi l'imputato nel frattempo trasferito nel Regno Unito, l'autorità nazionale di quel paese, la National Crime Agency, emise il 14 agosto 2017 un ordine di arresto europeo (European arrest warrant) in esecuzione di quello emesso il giorno stesso della sentenza della corte suprema dal competente organo rumeno.

Durante il periodo di svolgimento del procedimento di estradizione l'imputato pose in essere molteplici iniziative giudiziarie nel proprio paese tendenti alla revisione del giudizio in seguito al quale aveva riportato condanna. Nessuna di esse ebbe per lui esito favorevole.

Nel frattempo iniziò il dibattimento circa la richiesta di estradizione, discussa, sin dall'ottobre 2018, davanti la Westminster Magistrates' Court. Questa rigettò per infondatezza una serie di eccezioni sollevate dall'imputato, tendenti a dimostrare che la condanna inflittagli dalla corte d'appello, poi confermata quanto all'affermazione di responsabilità dalla Corte suprema rumena, era il frutto, oltre che di evidenti errori di giudizio, della mancanza di indipendenza da parte del giudice Tudoran. In sintesi, questa sarebbe dipesa da rapporti impropri intercorrenti tra lo stesso giudice, suo figlio ed un fondamentale teste d'accusa, ciò che avrebbe violato il principio del giusto processo e, a propria volta, precluso la possibilità di accoglimento della richiesta di estradizione. Tutti gli argomenti furono rigettati dalla Westminster Magistrates' Court che ordinò l'estradizione del cittadino straniero.

Questi impugnò la decisione davanti la High Court inglese, che inizialmente rigettò il gravame.

Sulla base di materiale probatorio sopravvenuto e formatosi in parte anche in Romania, fu chiesta alla High Court una nuova pronuncia sul ricorso contro la richiesta di estradizione. In sintesi, le nuove prove riguardavano una testimonianza di conferma dei rapporti impropri tra il giudice Tudoran, il figlio ed il testimone: rispetto ad essa lo stesso giudice, nel frattempo dimessosi dall'ordine giudiziario, non era stato in grado di replicare in quanto ricoverato presso un ospedale psichiatrico. Fu acquisita una dichiarazione dell'ufficio del pubblico ministero rumeno competente per i reati in materia di corruzione nella quale, da una parte, si negava la previa conoscenza delle circostanze addotte dalla difesa contro il giudice Tudoran e, d'altra parte, si dichiarava che, in ogni caso, le stesse sarebbero state inidonee alla revisione della sentenza di condanna.

 

3. La ratio decidendi della sentenza della High Court

Con sentenza dell'11 giugno 2021[4] la High Court in composizione collegiale accolse l'opposizione dell'appellante alla richiesta di estradizione e munì la propria decisione della formula certificativa dell'esistenza di una questione di importanza pubblica e generale ai sensi della sezione 32 (4)(a) dell'Extradition Act del 2003[5], al perseguito fine di non consentirne l'impugnazione.

La questione su cui la High Court concentrò la propria attenzione in vista della decisione fu quella indirizzata alla ricerca dei criteri da applicare al fine di risolvere il quesito fondamentale posto dall'impugnazione della pronuncia della corte di primo grado che aveva autorizzato l'estradizione dell'appellante in Romania per scontare la condanna definitiva. E poiché l'allegazione era quella secondo cui il processo che aveva portato alla condanna aveva violato il precetto dell'art. 6 Cedu (non essendo stato assicurato il giusto processo) il compito della High Court era di accertare se, in effetti, vi fosse stato un patente diniego di giustizia (“flagrant denial of justice”). In caso affermativo la pena detentiva da espiare in conseguenza di un siffatto presupposto avrebbe, a propria volta, costituito una violazione dei diritti conferiti all'accusato dall'art. 5 Cedu che prevede la ricorribilità dei provvedimenti inflittivi della privazione della libertà personale e la scarcerazione dell'interessato nel caso di illegittimità della detenzione. Curiosamente la High Court fece ricorso, contrariamente alla consuetudine del common law inglese, ad un precedente irlandese (non annoverabile all'interno di quel sistema ordinamentale) del 2014[6] per il quale nei procedimenti di estradizione non sarebbe stato necessario per l'estradando provare, secondo la regola del più probabile che non (“on the balance of probabilities”), che l'originario processo conclusosi con la condanna da eseguire fosse stato caratterizzato da una tale plateale ingiustizia da privarlo dell'essenza dei suoi diritti come concepiti dall'art. 6 Cedu. La High Court proseguì affermando che in tali casi il corretto modello probatorio da applicare fosse quello volto a verificare l'esistenza di consistenti profili di credibilità del reale rischio che il processo fosse stato manifestamente ingiusto. In altri termini, ci si accontentò della semplice, ragionevole configurazione di un rischio concreto che la successiva detenzione avrebbe violato i diritti di natura convenzionale dell'imputato, in relazione ad una condanna frutto di un processo ingiusto, per sbarrare la via all'estradizione. Una diversa soluzione, infatti, avrebbe esposto l'accusato alla possibile collocazione in una posizione negativamente discriminatoria rispetto a quella di chi si opponga all'estradizione rivolta a consentire la celebrazione di un futuro processo. Non meno singolare fu il fatto che, nel tempo intercorso tra la circolazione verso i difensori della bozza della sentenza della High Court e la sua pubblicazione, un altro giudice del medesimo organo avesse applicato un diverso modello probatorio in un caso analogo[7]. Pur sollecitata a rivedere il progetto di sentenza la High Court rifiutò la possibilità nella considerazione che gli argomenti sviluppati in quella pressocché coeva erano stati esaminati e disattesi in quanto non condivisi. La soluzione adottata nel caso che poi avrebbe occupato, con esiti differenti, la Supreme Court fu mossa proprio dall'esigenza di superare il criterio probabilistico, espressamente rifiutato attraverso un ardito ragionamento che così suonava: benché, applicando il criterio del più probabile che non, non vi fosse evidenza conclusiva della veridicità delle accuse formulate dal condannato nei confronti dell'autorità giudiziaria rumena, tuttavia le insolite circostanze del caso rendevano accettabile l'ipotesi che lo fossero. La High Court ripiegò così verso la più blanda soluzione che richiedeva semplicemente la ricorrenza di consistenti ragioni per credere che gli impropri rapporti tra il primo giudice rumeno ed un fondamentale teste d'accusa avessero negativamente influenzato il giudizio del primo, dando luogo ad un'ipotesi di manifesta violazione dell'art. 6 Cedu. E nello stesso senso deponeva il fatto che il giudice in questione, pur richiesto, si fosse rifiutato di astenersi. Il ragionamento fu spinto ad una conseguenza estrema ed esponenziale, ossia quella che, essendo viziato da ingiustizia il procedimento genetico, tale stigma si sarebbe proiettato pure sulla successiva detenzione, anch'essa ingiusta. Ed in forza di questa conseguenzialità la High Court fu indotta a negare l'estradizione e a disporre contestualmente la liberazione del cittadino rumeno.

Poco più di 3 settimane dopo il deposito della sentenza, ed esattamente il 2 luglio 2021, la High Court compì l'importante passo di avvalersi della facoltà prevista dalla sezione 32 (4) (a) dell'Extradition Act del 2003, di cui si è già detto, e di certificare ,attraverso una massima e seppur in forma retoricamente interrogativa, un rilevante e generale principio di diritto, così espresso: “Nei procedimenti di estradizione a seguito di condanna è sufficiente per l'estradando dimostrare l'esistenza di consistenti profili che lascino credere che esista un rischio reale che il processo a seguito del quale è stato condannato fosse tanto manifestamente ingiusto da privarlo dell'essenza dei diritti riconosciutigli dall'art. 6 Cedu e, conseguentemente, che la sua detenzione nello stato richiedente possa violare i diritti riconosciutigli dall'art. 5 Cedu?”[8].

La High Court, evidentemente risoluta a blindare il principio, pur contrastante con una contemporanea pronuncia di pari grado, negò l'autorizzazione alle parti a ricorrere alla Supreme Court.

Questa, tuttavia, in forza delle proprie speciali prerogative, consentì la proposizione del ricorso, ritenendolo meritevole di esame in considerazione della rilevanza delle questioni che vi facevano corona.

 

4. Il giudizio davanti la Supreme Court e l'eccezionalità delle sue circostanze

Così autorizzato l'organo giudiziario rumeno da cui promanava la decisione di condanna dell'estradando ad impugnare la sentenza della High Court, le udienze davanti la Supreme Court si svolsero il 16 ed il 17 maggio 2023. Successivamente alla conclusione della discussione, ed esattamente il 26 maggio 2023, la Corte d'appello di Bucarest, ossia la medesima ricorrente, sorprendentemente sospese l'esecuzione della sentenza di condanna nonché della pena. Il provvedimento fu impugnato senza successo davanti la Corte Suprema rumena, dall'Ufficio della Procura nazionale anticorruzione di quel paese, che rigettò il gravame.

Non appena informata dello sviluppo processuale, la Supreme Court emanò un'ordinanza con cui al tempo stesso rigettava l'originario ricorso (in sostanza per la sopravvenuta cessazione della materia del contendere) e, tuttavia, decideva di pronunciarsi successivamente su di esso (naturalmente in via ipotetica) in modo da dar risposta alla formulazione di principio cui aveva dato vita la High Court ed alle connesse questioni sollevate nella fattispecie.

Con la sentenza, deliberata all'unanimità, dell'8 novembre 2023 i supremi giudici britannici, pronunciandosi, come detto in via ipotetica, ossia come avrebbero fatto se non fosse stato revocato dall'autorità giudiziaria rumena l'ordine di arresto hanno dichiarato che, se si fosse avverata tale condizione, avrebbero annullato la sentenza della High Court rinviando le parti davanti alla stessa per lo svolgimento di un particolare mezzo istruttorio (deposizione di esperti in qualità di “amici curiae”) volto ad appurare se l'ordinamento rumeno contemplasse o meno rimedi contro la decisione definitiva di conferma della condanna dell'estradando.

La sentenza, dagli effetti processuali puramente teorici, riveste, tuttavia, notevole interesse per i principii di diritto espressi che mantengono pienamente la propria efficacia prospettica di precedente vincolante. E ciò perché viene sottoposta a serrato giudizio critico l'impostazione data dalla High Court al tema degli standard probatori da applicare in materia di violazione del precetto del giusto processo nei casi di richiesta di estradizione per l'espiazione di una condanna già inflitta nel paese richiedente. Il contesto giurisprudenziale cui la Supreme Court si è riferita è stato nei suoi aspetti di maggior rilievo oggetto di richiamo nel precedente paragrafo 1.

Come spesso accade nei giudizi davanti i giudici britannici di ultima istanza il “legal reasoning” che porta alla decisione trae spunto da un precedente che, per la sua portata generale, meglio si presta a fungere da faro che illumina i casi futuri. Anche nel presente caso ci si trova dinanzi ad una simile tecnica motivazionale in quanto la Supreme Court ha adottato come guida una sentenza della Corte EDU del 1989[9]. Il caso riguardava l'estradizione di un imputato negli Stati Uniti in modo che lo stesso potesse essere lì giudicato. In quell'occasione la Corte di Strasburgo enunciò lo stesso principio poi applicato dalla High Court nel caso in commento che però riguardava l'estradizione in vista dell'esecuzione di una pena già inflitta in un giudizio ormai concluso. Essa, infatti, affermò che, al fine di integrare la fattispecie di cui all'art. 3 Cedu, proibitiva della tortura o di trattamenti umani o degradanti, è sufficiente che sussista il rischio che l'estradizione possa portare a questi risultati. Ma, e qui è lampante la differenza rispetto al caso odierno, la condizione per l'operatività del principio è che l'estradizione sia rivolta alla celebrazione di un futuro giudizio e non alla esecuzione di una pena già comminata in precedente sede. Su questa piattaforma diversificatrice la Supreme Court basa il proprio ragionamento, che, ancora una volta, fonda la propria forza su precedenti giurisprudenziali.

All'esame di questi la corte di ultima istanza premette una fondamentale classificazione dei casi di estradizione rispetto ai quali si possa porre un problema, “in praeteritum” o “pro futuro”, di garanzia di un giusto processo. Ed infatti, vanno tenuti separati quanto al regime probatorio applicabile i cosiddetti “conviction cases” (quale quello in esame) nei quali l'indagine deve essere rivolta alla verifica che nel passato giudizio, da cui è scaturita la condanna definitiva di cui si cerca l'esecuzione attraverso l'estradizione nel paese in cui si è svolto il processo, non vi siano state violazioni dell'art. 6 e i cosiddetti “accusation cases”, quelli nei quali la domanda di estradizione si propone il fine di consentire allo stato richiedente di procedere penalmente contro l'estradando in relazione ad illeciti penali per i quali sussista la competenza del primo. E ciò perché, solo con riguardo alla seconda categoria di casi, può essere accolto il criterio fatto proprio dalla High Court, ossia quello della sussistenza di un rischio reale che, autorizzata l'estradizione, il futuro processo nel paese richiedente si sottrarrebbe al rispetto delle regole del giusto processo, di fatto cancellando la stessa essenza dei diritti garantiti dall'articolo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani del 1950. Del tutto differente deve, al contrario, ritenersi il regime pertinente ai “conviction cases”, erroneamente accomunati dalla High Court agli “accusation cases”. Questi ultimi riflettono una circostanza del tutto assente agli altri. Si tratta, infatti, di fattispecie in ordine alle quali la prospettiva del “fair trial” deve volgere al passato, tendendo a qualificare l'evento già verificatosi, il processo conclusosi con una condanna definitiva ancora suscettibile di esecuzione, alla stregua di un giudizio probabilistico circa il concretamente avvenuto - e non soltanto in base ad un rischio temuto o paventato - mancato rispetto delle garanzie dell'art. 6 Cedu. In altri termini, la linea divisoria tra i due tipi di casi passa dalla concettuale differenza tra eventi accaduti ed eventi futuri: i primi giudicabili in forza di modelli di ragionamento che valorizzano l'effettiva realizzazione di una probabilità, gli altri riconducibili, proprio per le ancora incerte modalità di avveramento, al paradigma argomentativo fondato sul rischio in quanto implicante l'assoluta impossibilità di adottare il metodo probabilistico, proprio esclusivamente dei fatti già fenomenicamente e storicamente registrati.

Come si diceva, la Supreme Court ha agganciato in via generale la distinzione tra i casi illustrati ed il correlato modello di ragionamento probatorio ad una linea di precedenti inglesi di sicuro rilievo per cogliere le ragioni intime della sentenza del novembre 2023. Ed infatti, in un precedente del 1970[10], dedicato alla soluzione del problema della liquidazione del danno riferito ad un evento già prodottosi, la House of Lords affermò che l'accertamento del fatto causativo, e della connessa responsabilità, va effettuato sulla base della maggior probabilità e non della certezza. Criterio del tutto diverso da quello adottabile in relazione a fatti destinati ad accadere in futuro per i quali è del tutto accettabile una previsione in termini di concreto rischio della loro verificazione.

Del resto, con il precedente appena citato si pose in perfetta continuità una sentenza della stessa House of Lords dell'anno successivo, relativa ad un caso di estradizione in vista di un futuro processo (“accusation case”)[11], in cui il Collegio, nell'interpretare una particolare disposizione (la sezione 4 (1)(c)) del Fugitive Offenders Act del 1967, sottolineò l'inestensibilità al giudizio prognostico su fatti futuri del criterio invalso su quelli già avvenuti, solo per questi ultimi, infatti, essendo plausibile ragionare in termini di confronto bilanciato delle probabilità.

Ancor più evidente si rivelò l'atteggiamento giurisprudenziale in un precedente sempre della House of Lords del 2009 in materia di abusi sessuali su minori[12] in cui, pronunciandosi sulla disposizione di cui alla sezione 31 (2)(a) del Children Act del 1989, fu affermato che, con riguardo ad un fatto di violenza del passato, compito del giudice è accertare, sulla base di un criterio probabilistico, se lo stesso sia o non avvenuto effettivamente, e sia così rimasta del tutto esclusa la possibilità che lo stesso possa essere avvenuto. E ciò perché il sistema probatorio afferente ai fatti del passato conosce soltanto un sistema binario in cui sono presenti i numeri zero (corrispondente alla mancata verificazione del fatto) ed uno (corrispondente all'ipotesi contraria): ed il sistema a propria volta si regge sul pieno assolvimento, dalla parte processuale su cui grava, dell'onere relativo.

È facile arguire che questa minuziosa citazione di precedenti da parte della Supreme Court[13] abbia posseduto un'efficacia di indiscutibile rilevanza per assestare un colpo decisivo al ragionamento della High Court e ad enfatizzare l'errore di giudizio compiuto. Ma la “ratio decidendi” è stata ulteriormente corroborata dai riferimenti alla Corte europea dei diritti umani.

Altre pronunce, oltre quelle già sommariamente esposte al paragrafo 1, hanno consolidato il punto di vista diretto a rendere necessariamente distinguibili “conviction cases” da “accusation cases” in tema di procedimenti estradizionali. In sintesi, il principio riguardante i primi è quello che debba essere fornita la prova oltre ogni ragionevole dubbio dell'avvenuta violazione dei diritti riconosciuti alle persone dalla Convenzione del 1950[14].

Ma la stessa giurisprudenza della Corte EDU non si è mai trincerata dietro una distinzione che, se perseguita in tutti i casi ed in maniera manichea, comporterebbe il pericolo dell'insufficiente riconoscimento di centralità al principio dell'articolo 6 ed al tempo stesso limiterebbe senza scopo i propri poteri di indagine ed ha così apportato significativi correttivi (dei quali, come si vedrà, la Supreme Court ha saputo beneficiare) alla sua rigidità. Così, ad esempio, si è statuito che non può attribuirsi in maniera esclusiva l'onere della prova ad una delle parti soltanto, ben rimanendo integro il potere dei giudici di Strasburgo di esaminare il materiale probatorio di cui dispone, indipendentemente dall'origine, e di acquisirne altro d'ufficio[15]. D'altra parte, si ammette la possibilità di trarre inferenze logiche dal concreto comportamento tenuto dallo stato contraente nell'ambito del procedimento nel corso del quale sarebbe avvenuta la violazione dei diritti riconosciuti alle persone dalla Convenzione[16]: l'assenza di un siffatto apparato probatorio relativamente alla dedotta ricorrenza di un manifesto diniego di giustizia (“flagrant denial of justice”) conduce al rigetto, da parte della corte europea, delle istanze dei ricorrenti[17].

Così stabilita la regola secondo cui nei “conviction cases” non sia consentita la scorciatoia dell'affermazione del solo rischio concreto della possibile violazione dell'articolo 6 per legittimare la conclusione del diniego di giustizia, dovendo il giudizio esplicarsi sulla base della maggior probabilità di tale accadimento, la Supreme Court ha mostrato di aderire allo spirito eurounitario mai messo a repentaglio dall'infelice esito del referendum del giugno 2016. Ed infatti, ha prestato completo credito all'orientamento della Corte Edu secondo cui si sottrae alla regola che esige che nei “conviction cases” destinati all'estradizione venga raggiunta la prova ogni oltre ragionevole dubbio della violazione dell'articolo 6 la fattispecie nella quale venga denunciato l'esercizio della tortura o di altri trattamenti inumani o degradanti per ottenere le prove della colpevolezza, poi affermata nella sentenza da cui scaturisce la richiesta di estradizione[18]. E ciò perché l'inflizione della tortura non è solo contraria alla disposizione dell'articolo 6, ma in quanto essa contrasta con i più essenziali precetti del diritto internazionale che devono guidare lo svolgimento di un giusto processo. La violazione di questo fondamentale divieto non soltanto renderebbe immorale ed illegale l'intero processo, ma lo renderebbe del tutto inaffidabile quanto all'esito[19]. La conclusione su questa base fatta propria dalla Supreme Court è stata, pertanto, nel senso che nei casi in cui venga prospettato l'uso della tortura ci si possa accontentare dei normali mezzi di prova e non esigere la dimostrazione oltre ogni ragionevole dubbio. Mentre la regola generalmente applicabile ai “conviction cases”, questa volta con riferimento all'emissione di mandati di arresto europei, è stata riaffermata dalla giurisprudenza della High Court inglese, in un caso di alcuni anni precedente quello qui commentato[20], attraverso la massima per cui la prova di un fatto accaduto in passato va fornita sulla base della regola della maggior probabilità che il processo al termine del quale era stato emesso il mandato fosse risultato “flagrantly unfair”.

La lunga rassegna di casi, interni e sovranazionali, ha portato la Supreme Court a formulare un netto giudizio circa l'esattezza del principio di diritto certificato dalla High Court, formulandone uno diametralmente opposto. Ed infatti, i giudici supremi hanno lapidariamente stabilito che ad eccezione dei casi, diversi da quello ricorrente nella fattispecie, in cui le prove di colpevolezza siano state ottenute mediante tortura, nei casi di estradizione fondati su una precedente condanna, non è sufficiente che l'estradando provi che esistono consistenti ragioni che facciano credere che vi sia un reale rischio che la condanna stessa sia stata così manifestamente ingiusta da averlo privato degli essenziali diritti conferitigli dall'articolo 6 e che, pertanto, sussista un rischio reale che la sua detenzione in carcere nello stato richiedente violerebbe i diritti riconosciuti dall'articolo 5 della Cedu. È, infatti, necessaria la prova, sulla base della maggior probabilità, che sia occorsa la violazione dei diritti di cui all'articolo 6[21].

Su questa rigorosa base concettuale la Supreme Court, nel giudicare in via solo virtuale il merito del caso, ha ritenuto che l'evidenza probatoria fosse troppo debole per soddisfare il criterio del più probabile che non, sotto lo specifico profilo dell'insufficienza allo scopo di dimostrare la ricorrenza di una patente violazione del diritto ad un giusto processo, il fatto che tra il giudice ed un testimone d'accusa ricorresse un intenso rapporto di amicizia e di comunanza di interessi economici.

Tuttavia, proseguendo lungo la strada del giudizio ipotetico la Supreme Court si è posta il problema del se, nell'ipotesi in cui non fosse stato revocato dall'autorità giudiziaria rumena l'ordine di arresto, potesse considerarsi adeguata l'istruzione probatoria condotta dalla High Court per accertare - questa volta sulla base della “balance of probabilities”- l'effettiva realizzazione di un diniego di giustizia.

Ed ancora una volta, censoria nei confronti dei giudici del precedente grado di giudizio è stata la risposta della Supreme Court che ha rimproverato la High Court di aver trascurato di ammettere un mezzo istruttorio che, soddisfacendo in astratto il criterio probatorio dai giudici supremi come sopra fissato, avrebbe contribuito alla verifica della effettiva sussistenza della violazione dell'articolo 6 Cedu.

Ed infatti, con ripetute istanze rivolte prima alla High Court e poi reiterate davanti alla Supreme Court, l'estradando ha sollevato il problema della necessaria integrazione istruttoria in merito ad un aspetto che avrebbe rivestito carattere di decisività sull'accoglibilità della richiesta di estradizione, ovvero quello della correttezza in punto di diritto interno rumeno della dichiarazione di quell'autorità giudiziaria che, oltre a confutare la rilevanza delle prove addotte dal proprio cittadino a sostegno dell'inquinamento del processo a suo carico a cagione dei rapporti impropri tra giudice e testimone, metteva in rilievo l'inidoneità delle circostanze addotte a soddisfare i requisiti in forza dei quali soltanto si sarebbe potuto procedere ad una revisione del processo. L'affermazione era stata contestata in punto di diritto dal condannato che aveva senza successo chiesto già alla High Court di escutere un esperto giurista rumeno per sottoporre a vaglio l'interpretazione fornita dai giudici rumeni relativamente alle condizioni legittimanti l'ammissibilità di un giudizio di revisione. La Supreme Court, andando di nuovo in contrario avviso rispetto alle statuizioni della High Court, ha ritenuto che la questione sarebbe stata certamente meritevole di approfondimento e che il mezzo tipico per conseguire tale risultato sarebbe stato quello di rinviare le parti dinnanzi alla High Court perché procedesse all'assunzione del mezzo di prova al fine di stabilire se il diritto rumeno effettivamente conosca un rimedio revocatorio verso sentenze penali definitive. L'assenza di esso, pur rilevata da una corte inglese, non avrebbe esonerato la Romania dall'osservanza dell' obbligo di fornire ai propri cittadini rimedi adeguati anche verso sentenze definitive. L'indagine, infatti, rientra tra i casi che, integrando nuovi elementi capaci di incidere sul giudizio intorno alla legalità del procedimento che ha portato ad una condanna cui abbia fatto seguito una richiesta di estradizione, pienamente giustifica, secondo la stessa giurisprudenza della Corte EDU, l'acquisizione del nuovo materiale probatorio conducente allo scopo di fornire al giudice incaricato, nei cosiddetti “conviction cases”, di pronunciarsi sulla domanda di estradizione, ulteriori elementi idonei a rassicurare circa l'esistenza nel paese richiedente di adeguati rimedi rispetto alle pronunce definitive di condanna[22].

A conclusione dell'inconsueto impegno a giudicare di un caso che aveva oggettivamente perduto l'interesse delle parti, pur involgendo importanti questioni di diritto, la Supreme Court ha formulato un dispositivo virtuale, e di fatto alternativo a quello ufficiale di rigetto del ricorso dell'autorità giudiziaria rumena per sopravvenuta cessazione della materia del contendere. In esso ha dichiarato che, avendo in mente la necessità di assicurarsi dell'esistenza nel diritto rumeno di un rimedio che garantisca ad ogni cittadino il diritto ad un giusto processo nonché quello ad una verifica “ex post” dell'effettiva osservanza dell'obbligo convenzionale gravante sullo stato, avrebbe rimesso gli atti alla High Court perché procedesse all'assunzione di quei mezzi istruttori (quali l'assunzione della testimonianza di qualificati giuristi interni indicati dall'estradando in controesame con l'altra parte processuale) prima di pronunciarsi sull'impugnazione della sentenza della Westminster Magistrates' Court che aveva accolto la domanda di estradizione e contestualmente disposto la detenzione del cittadino straniero. Tuttavia, la revoca dell'ordine di arresto da parte dell'autorità ricorrente davanti la Supreme Court non ha potuto che sortire l'effetto, conforme alla previsione della sezione 43(4) dell'Extradition Act del 2003, del rigetto del ricorso.

 

5. Fugace, rassicurante prognosi degli effetti della sentenza 39/2023 della UK Supreme Court

Lo studio del caso qui rappresentato, ed in particolar modo del suo epilogo di fronte alla corte di ultima istanza, potrebbe incitare fallaci giudizi sul doppio versante, dogmatico, della incorruttibilità della nozione ricevuta di precedente giudiziario inglese, e di policy, per l'inerenza a temi e questioni di massima in quanto riflettenti il complesso di garanzie, tutele e forme di funzionamento del sistema dei diritti umani. Il primo genere di lettura sotto falsa luce della pronuncia della Supreme Court potrebbe sorgere ravvisando nella possibilità, in concreto colta dai giudici supremi, di emettere nello stesso caso due contemporanee pronunce, tra loro inconciliabili o almeno alternative, l'una corrispondente alla realtà processuale effettivamente presentatasi, l'altra ispirata ad una semplice ipotesi, non di meno trasformata e trattata alla stregua di un fatto processuale fenomenicamente percepibile, una contraddittoria e pericolosa innovazione nel perimetro storico e concettuale del precedente giudiziale inglese. Poiché esso è ispirato all'essenzialità, che si esprime nella intolleranza di fughe o deviazioni dalla realtà degli accadimenti della vita umana riprodotti nella loro versione giudiziaria, potrebbe lasciar sgomenti l'aver la Supreme Court ceduto alla tentazione di imbastire una pronuncia su ciò che non era più - benché per una certa fase lo fosse stato - materia di giudizio attuale ed emanato una sentenza virtuale sovrapposta a quella formale. Il punto che il giurista osservatore per mestiere e vocazione delle multiformi epifanie del diritto inglese non può mancare di affrontare è duplice: se si sia trattato di un'operazione eccentrica, se non addirittura non consentita, e, se essa sia addirittura possa rivelarsi in futuro nociva. Sembra di poter rispondere, seppur succintamente, in maniera negativa e senza particolari apprensioni ad entrambe le domande. Alla prima può replicarsi in termini di rigorosa aderenza all'apparato concettuale e tassonomico che proviene dalle fonti del common law britannico facendo ricorso, per la legittimazione della scelta della Supreme Court, alla nota figura dell'“obiter dictum” quale variante della forma classica e tipica del “precedente” ossia come esondazione, a fini rafforzativi e logicamente riassertivi della motivazione, dai confini della simmetria tra giudizio ed elementi di causa allo stesso direttamente riconducibili. Ed i caratteri contraddistintivi della figura possono dirsi ricorrenti nel caso di specie, in cui la pronuncia virtuale non ha manifestato in alcun modo l'ambizione (quella sì vietata) di contraddire il dispositivo ufficiale di rigetto del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse e di permanenza della materia del contendere, ma ha descritto uno scenario ipotetico che avrebbe postulato una risposta diversa. Risposta che, tuttavia, non essendo stata spesa nel caso reale relega, appunto, il ragionamento della Supreme Court al rango puramente persuasivo e non vincolante della lunga sentenza. Persuasivo e, come tale, in coerenza con la tassonomia propria dei precedenti giudiziari, del tutto capace di essere adottato in futuro come motivo concorrente di decisioni su materie analoghe. Da questo punto di vista sembra plausibile respingere il possibile punto di vista che pretendesse di apporre alla sentenza in esame l'etichetta di pronuncia indebita. Egualmente non appare all'orizzonte il pericolo della sua nocività perché eccentrica al sistema. Questo timore può dirsi fugato per la concorrente ragione della sua iscrizione al capitolo degli ammissibili e collaudati “obiter dicta” e, per di più, della limpidezza in sé del ragionamento svolto in tema di rapporto tra la violazione di fondamentali diritti umani, quale quello ad un giusto processo, e mezzi e criteri di prova.

Su quest'ultimo punto in particolare, lasciando da canto la questione della decisività effettiva delle considerazioni svolte dalla Supreme Court in diretta relazione ai fatti di causa, si impongono osservazioni conclusive che contribuiscono ad una più fedele rappresentazione della posizione del diritto inglese con riguardo al trattamento processuale - quello sostanziale non è mai stato revocato in dubbio, al pari della grande considerazione riservata al tema - dei diritti umani assicurati dalla Convenzione del 1950. Non può certo ricavarsi un'impressione negativa circa la posizione della giurisprudenza inglese. Ad essa va, al contrario, riconosciuto un merito che può declinarsi in più di una direzione. In primo luogo, è innegabile quanto positiva e fruttuosa vada giudicata l'affezione mostrata verso la giurisprudenza convenzionale eurounitaria e la promozione a criterio di giudizio anche in materia di standard probatori della differenza tra “conviction cases” ed “accusation cases” in materia di estradizione, a propria volta frutto della intrinseca differenza tra prove di fatti accaduti e prove di fatti futuri. Ben si giustifica la maggior esigibilità di affidabili parametri di giudizio, quale quello probabilistico, preteso con riguardo ai primi. Ma anche sul terreno del messaggio politico lanciato verso i potenziali fruitori del sistema processuale di ricorso diretto alla Corte EDU loro riservato dalla Convenzione la sentenza non si lascia trascinare nell'arena delle possibili critiche di modesta attenzione alle tutele in caso di violazioni dei diritti individualmente garantiti, a partire da quelli risultanti dalla combinazione degli articoli 3,5 e 6. Ed infatti, il diverso standard probatorio prospettato, in piena coincidenza con la giurisprudenza di Strasburgo, con riguardo alle differenti categorie di fatti, accaduti o da accadere, non risponde soltanto all'imperativo di approntare un criterio di valutazione probatoria sul terreno giuridico che faccia salve le caratteristiche ontologiche dei due fenomeni. Altro e di indubbia rilevanza è il pregio di questa impostazione: quello dell'elevazione di un sistema protettivo delle sentenze degli stati contraenti passate in giudicato da tentativi che, in ipotesi, possano mirare, anche per il gusto dell' avventura intellettuale, ad incrinarne la stabilità. Ora, proprio il sistema binario adottato dalla Supreme Court, in armonia con la Corte EDU, mentre non lascia scoperti di tutela attraverso meno esigenti standard probatori i casi di allegata tortura per l'acquisizione di mezzi di prova, d'altra parte pone un freno a tentativi di sovvertire, anche mediante il possibile abuso dello strumento processuale, realtà conclamate in giudicati formali e sostanziali.

Alla luce di queste considerazioni, è da ritenere che la sentenza della Supreme Court trovi una sua dignitosa ed apprezzabile collocazione nel contesto della più evoluta giurisprudenza europea.

 


 
[1] Othman c Regno Unito del 17 gennaio 2012 in c 8139/09.

[2] Così nel testo inglese: “A flagrant denial of justice goes beyond mere irregularities or lack of safeguards in the trial procedures such as might result in a breach of art.6 if occurring within the Contracting State itself. What is required is a breach of the principles of fair trial guaranteed by art.6 which is so fundamental as to amount to a nullification, or destruction of the very essence, of the right guaranteed by that article”. In senso conforme anche Ahorugeze c Svezia, anch'esso dello stesso anno, in c 37075/09.

[3] (2023) UKSC 39.

[4] (2021) EWHC 1584.

[5] La disposizione prevede l'improponibilità dell'impugnazione delle decisioni della High Court nei casi di estradizione laddove la stessa abbia certificato l'esistenza di un principio di diritto di importanza pubblica e generale. Essa, tuttavia, come si vedrà, non preclude la possibilità che sia la stessa Supreme Court ad autorizzare il ricorso davanti ad essa.

[6] Minister for Justice and Equality v Rostas (2014) IEHC 391.

[7] Kaderli v Chief Public Prosecutor's Office of Gebeze, Turkey (2021) EWHC 1096 (Admin). La sentenza fu resa dal giudice Chamberlain.

[8] “...In a conviction extradition case, is it sufficient for the requested person to show substantial grounds for believing that there is a real risk that his trial was so falgrantly unfair as to deprive him of the essence of his article 6 rights, and therefore a real risk that his imprisonment in the requesting state will violate his article 5 rights?”.

[9] Soering v United Kingdom in c 55721/7 del 1989 relativo ad una richiesta rivolta dal governo statunitense all'autorità giudiziaria inglese di un cittadino accusato di omicidio volontario che avrebbe dovuto essere giudicato nello Stato della Virginia in cui non era prevista un'assistenza legale gratuita d'ufficio.

[10] Mallett v Mc Monagle (1970) AC 166: l'opinione riportata nel testo fu espressa da Lord Diplock.

[11] R v Governor of Pentonville Prison, Ex Parte Fernandez (1971) 1 WLR 987.in cui ancora una volta fu lo stesso Lord Diplock a fornire l'opinione guida.

[12] In re B (Children) (Care Proceedings: Standard of Proof) (CAFCASS intervening) (2008) UKHL 35.

[13] Ad essi se ne sono aggiunti due, in continuità con quelli citati nel testo, della medesima Supreme Court in Shagang Shipping Co.Ltd (in liquidation) v HNA Group Co Ltd (2020) UKSC 34 e R (Pearce) v Parole Board (2023) UKSC 13.

[14] Si possono vedere da ultimo le sentenze rese nel 2017 in Baka c Ungheria e, l'anno dopo, in Simeonovi c Bulgaria.

[15] Merabishvili c Georgia del 2017.

[16] Più di recente El-Masri v Former Yugoslav Republic of Macedonia del 2012.

[17] Come avvenuto in Willcox c Regno Unito del 2013 in cui il ricorrente, condannato in Tailandia per reati in materia di traffico di stupefacenti, aveva mancato la prova della plateale violazione dei suoi diritti fondamentali

[18] Othman c Regno Unito già citato.

[19] Il caso riguardava la situazione concernente il modo di amministrare giustizia in Giordania ispirato anch'esso all'uso sistematico della tortura.

[20] Wieslaw Kazimierz Lezon v Regional Court in Tarnow, Poland (2015) EWHC 1908 (Admin).

[21] Per maggior fedeltà al testo della massima è utile riportarla nella lingua originale: “Subject to an exception in the case of evidence which may have been obtained by torture which is not applicable in this case, in a conviction extradition case it is not sufficient for the requested person to show substantial grounds for believing that there is a real risk that his trail was so flagrantly unfair as to deprive him of his article 6 rights and therefore a real risk that his imprisonment in the requesting state will violate his article 5 rights. It is necessary for the requested person to prove on the balance of probabilities a flagrant violation of his article 6 rights”.

[22] Etute c Lussemburgo del 2018 che richiama anche Weeks c Regno Unito del 1987 a proposito della necessaria compatibilità dei rimedi e delle tutele assicurati dal paese contraente con la disposizione di cui all'articolo 5 (4) della Convenzione del 1950.

13/12/2023
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