Magistratura democratica
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Dicono di noi *

di Mauro Palma
già Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presidente European Penological Centre, Università Roma Tre

È ben nota l’immagine dell’Avvocato consegnata da un quadro, non grande, conservato al Museo nazionale di Stoccolma, opera di Giuseppe Arcimboldo[1]. Siamo nella metà del XVI secolo – precisamente, l’anno è 1566 – e il pittore è già celebre per quella sua ritrattistica assemblativa, in cui più elementi, spesso naturali, finiscono col delineare la fisionomia e l’atteggiamento della persona ritratta. Gli elementi che compongono il tutto sono frequentemente piante o frutti; talvolta sono oggetti, come nel famoso bibliotecario ottenuto, nelle fattezze e nell’abito, da libri chiusi e aperti. Nel caso dell’Avvocato sono animali o parti di essi, ormai cucinati, cotti.

È stato scritto, nel considerare il rapporto con Arcimboldo del futuro Surrealismo, movimento che si creerà ben più di tre secoli dopo di lui, che i suoi ritratti possono essere letti «come una forma di satira politica». Così si legge nei commenti alla sua opera in occasione di recenti mostre (per esempio, a Roma nel 2017): «Durante il suo tempo, molti governanti europei erano ossessionati dall'esibire la loro ricchezza e il loro potere attraverso sontuosi banchetti e feste. Creando ritratti composti da cibo e altri oggetti associati a tali feste, Arcimboldo potrebbe aver fatto un commento sulla decadenza e l'eccesso delle classi dirigenti»[2].

Questa ipotesi ironica è evidente nell’olio su tela – a volte riportato anche come “Giurista” – che considero come testimonianza di un antico “Dicono di noi”, un fuorviante stereotipo, quasi preannuncio di un futuro leguleio manzoniano. Il suo volto è ottenuto assemblando elementi anche grotteschi, pur riconoscendo però la rilevanza del personaggio e dei suoi studi e sottilmente indicando la necessità di mettere la sua funzione, il suo ruolo al passo con il mutare dei tempi. L’osservazione va, infatti, alla scritta «Isernia» che compare su uno dei libri posti sul tavolo. Il riferimento sembra essere ad Andrea da Isernia – giurista del basso medioevo (XIII secolo) autore di studi sul Diritto feudale[3] – molto noto ancora nel XVI secolo. Ma tale richiamo non sembra essere per consolidarne la rilevanza quanto per sottolineare indirettamente una sottile critica polemica: nonostante ben più di tre secoli siano trascorsi da quando il Maestro del diritto feudale elaborò le sue opere per l’Avvocato è ancora quella concezione del diritto a prevalere. L’immagine complessiva trasmette così, attraverso il volto arcigno una sensazione di conservatorismo[4].

L’arcigno Avvocato di Arcimboldo è composto soltanto da porzioni cotte di animali: il naso è un uccello (un corvo, secondo alcuni) passato allo spiedo, vi è poi una zampa di pollo e la sua bocca e il mento sono formati da un pesce. Singolare è proprio l’utilizzo dell’animale che non emette suoni per una professione che invece della parola deve fare lo strumento principe; anche questo un implicito cenno ironico alla scarsa intellegibilità della parola proferita. La sapienza professionale è comunque certa, assicurata dalle molte carte che costituiscono il colletto che emerge dalla toga e dalla solidità dei volumi in primo piano. Quasi a dire – forse interpretazione forzata – che è solo l’analisi delle carte e la base teorica dei libri a poter tramutare quel pesce in bocca parlante.

Così questa immagine ci dice anche oggi, in modo simbolico, qualcosa. Innanzitutto ci parla dell’essenziale funzione giuridica e sociale dell’avvocato che si fa parola per i molti che parola non hanno. Farsi parola, anche se questa viene dalla bocca di un pesce, è il compito che determina la dimensione di contributo alla crescita culturale della collettività nel suo complesso. 

Più volte, nelle mie recenti esperienze, europea e nazionale, di tutela dei diritti di coloro che, privati della possibilità di autodeterminazione del proprio muoversi, del proprio agire, del proprio tempo, vivono di fatto una accentuata vulnerabilità rispetto all’effettività dei propri diritti, mi sono misurato con una crescente afasia, col non sapersi narrare al di là dell’esprimere la motivazione del trovarsi in quella contingente situazione. La vita di chi per responsabilità penale o per indagine vive in un carcere, la vita di chi è trattenuto per irregolarità amministrativa in un Centro per il rimpatrio e anche la vita di chi per contingenze degli eventi personali può venirsi a trovare in una situazione di ricovero chiuso hanno una similarità, data dal rischio di affievolimento dei diritti, dalla progressiva anonimia e di graduale riduzione di tutta la propria esistenza all’essere in quel luogo: riassunto incongruo di vicende spesso complesse. Ecco perché il farsi parola altrui diviene centrale e il restituire così la possibilità di parola deve prescindere dalla motivazione per cui la persona è privata della libertà personale, per centrare tale impegno sulla ricostruzione del destinatario non come caso, fascicolo, ma come complessiva persona, in quel significato relazionale che la nostra Carta assegna a tale concetto. Qui il farsi parola dell’avvocato gioca un ruolo centrale.

Sin dal mio primo rivolgermi al Parlamento ho sottolineato questa necessità del riconoscimento dell’appartenenza alla collettività nel suo complesso di chi si trova temporaneamente al di là di muri o cancelli, tema ripreso più volte[5] negli anni successivi, perché in questo riconoscimento risiede la base di ogni altro diritto affermato e tutelato. 

Il farsi parola dell’avvocato ha certamente più dimensioni. Infatti, la stessa dimensione della difesa del singolo, compito da sempre considerato come fondamento della funzione[6], non si limita alla dinamica ricostruttiva dell’evento e del perché la persona si trovi in una determinata situazione poiché implicitamente investe sempre una questione di complessiva legittimità, così contribuendo alla continua evoluzione del confine che limita l’area di intervento del diritto stesso; del diritto penale in particolare. La parola della difesa non è solo parola del riequilibrio, perché deve divenire sempre parola del limite. 

Non posso non ricordare a tal proposito il contributo dato da un grande Maestro del diritto penale, Franco Bricola, di cui quest’anno ricorre il trentennale della morte, alla delineazione dell’ambito di intervento penale in un periodo in cui già si prefiguravano le inarrestabili estensioni a cui ci hanno portato – e continuano a portare – gli anni successivi. Ricordo la sua sottolineatura della necessaria strutturazione formale del reato come «offesa colpevole» ai beni giuridici[7] e, da qui, la critica ai reati di pericolo presunto, o di quelli a dolo specifico quando non ricostruiti come reati di pericolo concreto. Così come il concetto di limite alla tutela penale e alla sua estrinsecazione come privazione della libertà da riservare soltanto quando entri in gioco non la generica tutela di un bene individuale o collettivo, bensì di un bene costituzionalmente rilevante[8]. Questo concetto di limite sembra distante dal panorama attuale e gli organi di controllo, tutela, vigilanza, vedono chiaramente l’estensione dell’area di intervento penale – e, in particolare della privazione della libertà – essendo questo considerato come strumento principe per la tutela di un bene giuridico o ancor più per l’affermazione della rilevanza di quel bene, quasi a surroga dell’incapacità di affermarlo attraverso altri strumenti di carattere positivo, ricompositivo e non solo repressivo. 

L’avvocatura ha sotto gli occhi ogni giorno questo irrefrenabile ampliamento e il suo farsi parola deve essere chiaro in tal senso, anche se così forse finisce indirettamente col limitare l’area della propria estensione professionale. Dal canto suo, anche il Garante nazionale – chiunque ricopra oggi tale ruolo – deve contribuire, in modo convergente, a esaminare le radici di questo progressivo estendersi della penalità e a individuare le soluzioni che riportino, anche sul piano culturale, il diritto penale alla sua funzione sussidiaria e non prioritaria. Perché il progressivo estendersi, non corrispondente all’andamento della commissione dir reati, è segno della rinuncia delle culture sociali e politiche a esercitare il proprio ruolo in positivo. 

Nel settennato del mio mandato ho visto ampliarsi l’area dell’esecuzione penale in misura alternativa al carcere in modo cospicuo senza che questo ampliamento incidesse sui numeri del carcere stesso: non due realtà comunicanti tali che l’aumento dell’una producesse effetti sui numeri dell’altra, bensì due sistemi autonomi di crescita parallela. Così se all’inizio del mio mandato vi era una complessiva area di centomila persone suddivise tra coloro che erano ristrette in carcere e coloro che erano sottoposti a una misura alternativa, al termine dei sette anni il totale era di circa centosessantamila (attualmente alle più di 61mila persone detenute se ne affiancano altre 88mila sotto controllo penale in varie altre forme, alternative o sostitutive, senza parlare del numero di coloro che in lessico interno vengono chiamati «liberi sospesi»)[9].

Ma l’altra dimensione del farsi parola dell’avvocato, del pesce parlante della sua bocca, deve riguardare anche l’essere strumento di costruzione di comprensione nei confronti di coloro che tali strumenti non hanno[10]. Qui la metafora del farsi loro parola assume il pieno significato. Il diritto a comprendere, come prerequisito della formulazione di un proprio giudizio e, quindi, dell’esercizio autonomo dei propri diritti è oggi molto distante dall’essere minimamente effettivo. L’eterogeneità delle provenienze, delle storie, delle tradizioni di molte persone che entrano in conflitto con l’ordinamento è certamente un fattore determinante tale accentuata difficoltà. Ma anche limitandosi al contesto degli autoctoni, il progressivo disinteresse verso la costruzione di luoghi intermedi di supporto sociale e l’accentuazione di un preteso rapporto diretto tra chi esercita funzioni di governo e l’eterogenea e indistinta platea del consenso sono alla base di quella cristallizzazione di situazioni di minorità sociale che portano plasticamente a sacche di totale subalternità sociale. Questa si configura poi in presenze in carcere per reati minori, per pene molto brevi e comunque eseguibili altrimenti se soltanto se ne conoscesse la possibilità, se si avessero condizioni soggettive in grado di rassicurare chi tali misure diverse deve concedere, se, in sintesi, si avesse un effettivo sostegno legale di tipo essenzialmente proattivo[11].

Da qui, infatti, esistenze vissute con interruzioni della significatività del proprio tempo, caratterizzate da reiterate presenze in carcere, per periodi così brevi da non consentire di dare alcun significato a quella finalità tendenziale che la Carta assegna a ogni pena. Un sistema che finisce col costruire vite segmentate, destinate a ripercorre sempre lo stesso percorso e in condizioni sempre peggiori, che finisce col determinare costi alti sul piano sociale non corrispondenti ad alcuna utilità sociale e che soprattutto relega quanto costituzionalmente affermato a mera enunciazione priva di effettività: un messaggio dirompente proprio laddove si vorrebbe ricostruire un rapporto positivo con la convivenza sociale.

Il tema apre a come intervenire per diminuire la disuguaglianza con cui le persone disuguali sul piano delle possibilità sociali accedono alla scena penale. Il rischio è, infatti, che il luogo di giustizia aumenti le disuguaglianze. 

Non possiamo essere soddisfatti – al di là dell’impegno dei singoli – del sistema di difesa d’ufficio e di patrocinio che il nostro ordinamento prevede perché di fatto finisce col non costituire una tutela effettiva rispetto al rischio che quella disuguaglianza si amplifichi nel momento processuale e ancor più nell’esecuzione penale.  Credo che la riflessione su questo aspetto, molto sentita in anni passati, si sia affievolita e debba invece essere ripresa perché è anch’essa parte di quel farsi parola che ritengo sia il compito ineludibile di chi è ad-vocato, cioè «chiamato presso».  In una riflessione più ampia occorre studiare altre modalità con cui il tema è stato affrontato in altri sistemi giuridici, per esempio in America Latina[12]. Nel contesto della nostra riflessione odierna il tema rileva soltanto per indicare come il contributo dell’avvocato – mi riferisco in modo particolare all’ambito penale – sia una tessera di costruzione di una riflessione che esula dalla specificità e si estenda al concorso all’evoluzione del modello ordinamentale. 

Perché la voce essenziale risiede nella continua analisi dell’evoluzione anche non esplicita, ma effettiva dell’ordinamento stesso. Non possiamo, del resto, limitare l’osservazione del modello ordinamentale soltanto a partire dall’impianto normativo, dalle leggi approvate: sono spesso le circolari, le norme secondarie e le prassi a costituire l’ossatura più rilevante di un sistema, a essere criteri della sua direzione e, quindi, del suo tasso di democrazia. 

Non si può, per esempio, rimanere silenziosi, rispetto all’estensione delle forme “anfibie” di privazione della libertà personale, quali sono quelle che dietro il termine apparentemente edulcorato di «trattenimento» non celano soltanto la non predisposizione di un sistema che ne regoli l’andamento con norme di rango primario, ma anche la riduzione delle tutele, inclusa quella giurisdizionale. Tale presunta tutela è, infatti, affidata al giudice di pace – con una destinazione di competenza su cui occorrerebbe riflettere – soltanto limitatamente all’iniziale convalida del trattenimento stesso, senza alcuna funzione di vigilanza sul suo successivo svolgersi, peraltro per periodi ormai estesi ai diciotto mesi, ben più della pena a cui attualmente sono condannati circa tremila persone detenute in carcere. Né si può non considerare l’aleatorietà della tutela giurisdizionale laddove la privazione della libertà si realizza de facto, senza cioè un provvedimento formale ricorribile. 

Non solo, ma l’osservazione del presente detentivo consegna a tutti noi, che con funzioni diverse analizziamo e operiamo nel contesto dell’effettività dei precetti che l’articolo 13 della Costituzione stabilisce, una immagine di un mondo in cui alle condizioni materiali quasi ovunque deprecabili si accompagna la violenza istituzionale, anche documentata spesso da riprese videoregistrate. Un tema grave, questo, certamente non generalizzabile, ma altrettanto certamente non eludibile con rassicuranti interpretazioni di cosiddette «mele marce in un paniere altrimenti sano», quando si estende, come in un caso recente[13], a più di un terzo degli operatori di polizia dello stesso istituto. Né è accettabile che nel caso di azioni da parte di tali operatori doverosamente muniti di equipaggiamento protettivo sia impossibile la successiva identificazione dei responsabili di eventuali azioni violente, anche gravi, perché l’equipaggiamento protettivo diviene impropriamente una sorta di camuffamento[14]

Sono temi su cui parte dell’Avvocatura è impegnata – ne ho avuto esperienza diretta nel mio ruolo di Garante nazionale e ne vedo l’azione, per esempio dell’Unione delle Camere penali nella continua visita agli istituti di detenzione. Sono tuttavia temi su cui c’è bisogno di un’attenzione più ampia. Perché su di essi il nostro Paese deve essere portato a riflettere con maggiore coraggio. Anche a partire dalle nuove fattispecie di reato recentemente introdotte o che sono in sede di definitiva adozione e soprattutto dalle distorsioni determinate dalla tendenza crescente a una modalità legislativa che su questi temi, cioè sulle stesse norme incriminatrici e su ciò che attiene alla privazione della libertà, affida la priorità all’esecutivo – decreti legge, decreti legislativi – a discapito della centralità parlamentare. 

Dicono di noi. Per quanto mi riguarda – individualmente e nell’eco delle Istituzioni che ho negli anni rappresentato – dico del grande contributo che la cultura dell’Avvocatura può e deve dare. Non limitata alla mera identificazione con la funzione della costruzione cognitiva nel dibattimento o nelle altre varie fasi del complessivo percorso di chi è autore di un illecito, di un reato o è accusato di esserlo, bensì come attore di quella crescita ordinamentale di cui oggi si avverte ancor più la necessità. 

 


 
[1] Il quadro, olio su tela (64 × 51 cm) è riprodotto sul sito dello Nationalmuseum di Stoccolma all’indirizzo web: https://collection.nationalmuseum.se/eMP/eMuseumPlus?service=ExternalInterface&module=artist&objectId=5150

[2] Gallerie nazionali Barberini – Corsini (20 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018). La citazione è tratta da J. Dubreil, Artmajeur Magazine, 2023.

[3] Certa solo la data della morte: 1316. Professore di diritto e magistrato, documentato a Napoli dal 1288. Suo un testo dal titolo In usus feodorum Commentaria.

[4] Alcuni recentemente hanno ipotizzato che l’Autore abbia ritratto l’umanista e giurista Ulrich Zasius (1461 – 1535) a cui sarebbe indirizzato il messaggio ironico di conservatorismo.

[5] Tra le altre, M. Palma, Presentazione al Parlamento della Relazione annuale del Garante nazionale 2021: «Il primo riconoscimento è riassumibile, appunto, proprio nella parola appartenenza. Il mondo dei luoghi della privazione della libertà non è luogo ‘altro’: ci appartiene e quei muri e quei cancelli indicano soltanto una separazione temporale dovuta a esigenze di tipo diverso, che possono aver determinato la restrizione della libertà. Mai devono costituire una separazione sociale e concettuale e diminuire il riconoscimento della specifica vulnerabilità che li abita. Perché oltre alla riserva di legalità e di giurisdizione che la Costituzione pone a baluardo di ogni misura restrittiva della libertà personale, vi è anche una riserva di appartenenza sociale che gli articoli 2 e 3 della Costituzione stessa pongono a baluardo di ogni previsione normativa specifica».  

[6] Posto peraltro al primo comma del primo articolo del Codice deontologico forense.

[7] F. Bricola, Teoria generale del reato, voce in Noviss. Dig. It., vol. XIV, 2 1973.

[8] G. Marinucci, Ricordo di Franco Bricola, in S. Canestrari, Il diritto penale alla svolta di fine millennio, G. Giappichelli ed., Torino 1998.

[9] Alla data di questo intervento (3 maggio 2024) le persone detenute in carcere sono 61318, a cui si aggiungono 543 minori ristretti negli Istituti penali minorili. Le persone in esecuzione penale in altre modalità (misure alternative, pene sostitutive, sanzioni di comunità, messa alla prova sono 88949. A questi si aggiungono i cosiddetti «liberi sospesi» per i quali manca un dato certo, ma stimati all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024 attorno a 90000).

[10] L’ultimo dato disponibile, fornito dall’Amministrazione penitenziaria, circa il titolo di studio ha considerato soltanto 30437 persone detenute, non essendo rilevato il dato per altre 29729 persone, prevalentemente straniere. Nell’insieme, quindi, poco superiore alla metà delle persone detenute e quasi esclusivamente italiane, risultano 824 analfabeti (circa il 40 percento stranieri), 4943 persone che non hanno completato la scuola primaria (di cui 4080 italiane) e 14646 persone italiane che hanno soltanto il titolo di licenza media inferiore (l’obbligo scolastico è fissato al biennio della scuola secondaria superiore).

[11] Alla data del 3 maggio 2024 sono in carcere 1514 persone condannate a una pena inferiore a un anno e altre 2986 a una pena compresa tra uno e due anni.

[12] Cfr. per esempio www.defensadelpublico.gob.ar

[13] L’inchiesta sulle presunte violenze all’Istituto penale minorile “C. Beccaria” di Milano ha coinvolto 26 poliziotti penitenziari, per episodi datati da novembre 2022 a marzo 2024. In quel periodo la complessiva forza di polizia operante nell’Istituto ha oscillato tra 60 e 70 unità.

[14] Cfr., in particolare, la richiesta di archiviazione da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza del 4 maggio 2021, relativa all’indagine sui presunti maltrattamenti ai danni di persone detenute nel carcere di Melfi (Proc. Pen 1236/2020 mod.44 RGNR).

[*]

Intervento alla conferenza Dicono di noi..., organizzata dall'Ordine degli Avvocati di Firenze e dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Firenze e tenutasi a Firenze il 3 maggio 2024

22/05/2024
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