Magistratura democratica
Magistratura e società

Dicono di noi... *

di Donatella Stasio
Giornalista

1. In questi appunti sparsi sulla mia lunga relazione con gli avvocati, vorrei partire da un ricordo personale sui miei genitori. Anche perché l’aria che si respira in famiglia ha sempre un peso nel successivo svolgimento della vita e delle relazioni. 

I miei genitori – ormai non ci sono più - si conobbero a Roma, nello studio di un grande avvocato, Francesco Carnelutti, dove facevano pratica legale. Mia madre era cattolica e socialista. Mio padre era venuto a studiare a Roma da Napoli, dov’era stato allievo di Benedetto Croce, e dunque era di formazione liberale, ma poi si iscrisse al partito comunista. Carnelutti – che gli voleva bene come a un figlio e con il quale si laureò con una tesi sulla pena di morte - gli diceva sempre che era un «naturaliter christianus», forse perché quel suo declinare la vita da comunista, certamente secondo i valori della Costituzione antifascista, aveva a che fare anche con i valori cristiani, tra i quali la fratellanza. 

La prima volta che misi piede in un palazzo di giustizia non avevo neppure 10 anni. Era il Palazzaccio, che all’epoca ancora ospitava quasi tutti gli uffici giudiziari romani. Ne ho un ricordo indelebile (su cui Freud avrebbe molto da dire): sono con mio padre, lui è avvolto nella sua ampia toga nera e insieme scendiamo lo scalone monumentale di quell’enorme Palazzo. A me lui sembra un principe, non del foro, un principe vero, bello, autorevole, gentile, che deve salvare vite umane. 

Quella toga è stata molto importante nella mia vita. Rappresentava un’etica, una cultura e un impegno, prima ancora che una professione. E quello ho sempre pensato di trovare negli avvocati. Ovviamente, non è andata sempre così.

 

2. Mi iscrissi a giurisprudenza con poca convinzione (o almeno così ho sempre pensato), ma dopo l’esame di diritto costituzionale tutto cambiò: cominciai ad appassionarmi al diritto e alla sua politicità. E decisi di laurearmi proprio in costituzionale, con una tesi, pensate un po’, sul segreto professionale del giornalista. Non pensavo affatto di fare la giornalista. Lo sono diventata per caso. In quegli anni lavoravo già a ritmo serratissimo nello studio di un avvocato civilista romano (i ragazzi degli anni ‘70 non lavoravano con i genitori ma se ne tenevano a distanza), nella speranza di potermi poi dedicare al penale, l’altra mia grande passione. Ho sempre sognato di fare la penalista, forse perché avevo una visione romantica dell’avvocato penalista, quel principe in toga che soccorre gli ultimi e li salva dalle ingiustizie, che difende le libertà e i diritti, come quelli delle donne: erano gli anni del “processo per stupro”, degli stupratori del Circeo, e Tina Lagostena Bassi era un mito per tante di noi. Il diritto penale era per me lo strumento di difesa dei diritti e delle libertà più che lo strumento di repressione dei reati e di punizione dei delinquenti.  

Il mio esame di penale fu tutto incentrato sulla legge 194 del 1978, la legge sull’aborto appena entrata in vigore, e lo feci con un’altra grande figura di professore e avvocato, Marcello Gallo, che ho reincontrato anni dopo, quando facevo la cronista parlamentare e lui era senatore della Dc e presidente della Bicamerale per i pareri al nuovo Codice di procedura penale. Da allora è nato un rapporto di grande stima e amicizia, proseguito fino alla sua scomparsa. 

 

3. Oggi si discute dell’inserimento dell’avvocato in Costituzione. Di certo non basterà ad evitare campagne di odio. Forse però sottovalutiamo l’importanza che ha, in Costituzione, il diritto di difesa. Che può apparire un diritto minore rispetto ad altri diritti fondamentali, mentre ne è il presidio, la tutela, la garanzia di effettività, in caso di violazione. È un diritto che nel processo va garantito a tutti, anche ai non abbienti, qualunque sia il fatto commesso, e sul presupposto che l’imputato sia considerato innocente fino alla sentenza definitiva, perché solo se la presunzione di innocenza è effettiva, il diritto di difesa può svolgersi nella sua pienezza.

Certo, spesso l’avvocato è visto più come un “complice” di chi è alla sbarra, che come un “principe” che difende i diritti di tutti. Una posizione scomoda e difficile. Da donna, lo confesso, spesso mi interrogo sugli avvocati che difendono gli stupratori, chiamati a un surplus di responsabilità, di etica professionale e di rigore morale, di cui non tutti si dimostrano sempre all’altezza, ma che – va detto – sono troppo spesso, in automatico, trasformati in mostri. 

Al tempo stesso, mi sono sempre meravigliata di certi onorevoli avvocati che frequentano disinvoltamente le aule parlamentari e quelle giudiziarie e che in alcuni periodi della nostra storia, al netto dei conflitti di interessi, non hanno esitato a difendere ricostruzioni non solo fantasiose ma diciamo pure umilianti per l’Italia, oltre che per la civiltà del diritto (penso, ad esempio, alla storia della nipote di Mubarak).

 

4. Un aspetto che mi ha sempre affascinato del lavoro dell’avvocato è quello creativo, la possibilità di inventare il diritto, per dirla con Paolo Grossi, o di interpretare la vita, per dirla con Carnelutti. 

Sul campo, avevo imparato che per vincere una causa la prima cosa sono i fatti, metterli in ordine, cercarli, verificarli, riscontrarli (ottima regola anche per il giornalista). Poi viene la legge da applicare, ma mai in automatico. «La giustizia è qualcosa di meglio del sillogismo giudiziario - diceva un altro grande avvocato, e non solo avvocato, Piero Calamandrei, di cui, grazie a mio padre, sono sempre stata un’assidua lettrice -. La giustizia è creazione, che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana. È proprio questo calore vitale, questo senso di continua conquista, di vigile responsabilità, che bisogna pregiare e sviluppare nel giudice». 

Io non ho mai pensato di fare la giudice perché decidere, giudicare, non è mai stato nelle mie corde, e anche per questo rispetto moltissimo e sono grata a chi si assume, invece, quella immane e vigile responsabilità del giudicare, di cui parla Calamandrei. Ma se la giustizia è creazione, lo è anche grazie agli avvocati, all’interpretazione della legge che essi forniscono in prima battuta al giudice, giocando così un ruolo strategico nell’impedire che il giudice si trasformi in un burocrate indifferente. «Ogni interpretazione è una ricreazione», scriveva sempre Calamandrei, mettendo l’accento sulla «decisiva ispirazione individuale», così la chiamava, che entra nell’interpretazione (e anche questo, per certi versi, è un punto in comune con il lavoro del giornalista, anch’egli interprete dei fatti che racconta).

Certamente avrete visto tutti il bellissimo film “Philadelphia”, con Tom Hanks nei panni del talentuoso avvocato gay, Andrew Beckett, licenziato dal suo Studio perché malato di AIDS. Film che non mi stanco di rivedere e che mi commuove quando Andrew, rispondendo a una domanda dell’avvocato dello Studio, dice queste parole: «Che cosa mi piace del diritto? Il fatto che una volta ogni tanto… non sempre, ma a volte… diventi parte della giustizia. La giustizia applicata alla vita. Quando questo avviene, è un’esperienza davvero eccitante».

Ecco, mi ritrovo molto in quelle parole: il diritto che diventa giustizia. Esperienza davvero eccitante, di cui l’avvocato è attore, se non principale, sicuramente protagonista, proprio per il contributo intellettuale, oltre che giuridico, che può dare a una giustizia giusta, al passo con i tempi, costituzionalmente orientata, umana e mai artificiale.

 

5. Oggi il tema dell’interpretazione torna ad essere centrale, e mi piacerebbe vedere avvocati e magistrati uniti in una battaglia comune contro il sillogismo giudiziario, il formalismo giuridico, l’interpretazione originalista, e contro una giustizia allineata allo spirito politico dei tempi. Insieme ai magistrati, gli avvocati dovrebbero essere in prima linea per una comune cultura costituzionale della giurisdizione e contro una giustizia burocratizzata. Questa è la battaglia da combattere. Non altre, divisive, come quella sulla separazione delle carriere.

Non è questo il contesto per discuterne nel merito. 

In 40 anni di professione, ho cercato di avere una posizione aperta ma finora non mi sono convinta della necessità di questa riforma e tanto meno di una battaglia per farla approvare, di cui avverto invece l’estrema pericolosità. Anzitutto perché è diventata ormai una crociata ideologica, nonostante la contrarietà anche dell’opinione pubblica, che non la percepisce come salvifica della giustizia, tanto che quando è stata chiamata ad esprimersi non ha dato segnali di condivisione. Inoltre, pur di supportare politicamente la separazione delle carriere, è stata imboccata la strada di una progressiva delegittimazione del Pubblico ministero, descritto come un soggetto irresponsabile, manettaro, squilibrato, che sbaglia senza pagare: un grande spot che nuoce gravemente alla salute della giustizia, ovvero alla fiducia dei cittadini, e che paradossalmente finisce per togliere peso alle oggettive mancanze di giudici e pm.

Oggi questa battaglia politica – perché è diventata una battaglia politica – non solo non è necessaria per migliorare la qualità della giustizia ma è anche pericolosa per la democrazia perché è funzionale – a mio giudizio – a una prospettiva di riforma dell’attuale equilibrio dei poteri, nella quale i controlli e i limiti all’azione delle maggioranze politiche rischiano concretamente di indebolirsi, se non di sparire. 

Forse questo rischio è stato sottovalutato dagli avvocati. Il che mi meraviglia e mi dispiace, perché lo scenario che si apre dovrebbe preoccupare anzitutto chi, per mestiere, è chiamato a difendere i diritti e le libertà di tutti, a partire dalle minoranze e dai più fragili, e perciò dovrebbe proteggere non solo la funzione “di garanzia” della magistratura tutta, compreso il Pm, ma anche la sua autonomia e indipendenza, impegnandosi nella costruzione di una cultura costituzionale comune e di una formazione comune continua proprio su questo profilo.

 

6. Ma se questo non è il luogo per approfondire il tema della separazione delle carriere, è però il luogo in cui rappresentare il sentimento dei tanti che, come me, vorrebbero ascoltare la voce dell’avvocatura in tante battaglie a tutela dei diritti. Perché, se forte e chiara (oltre che meritoria) è la voce degli avvocati sul versante del carcere, non altrettanto può dirsi in altre battaglie a difesa dello stato di diritto. Non è stata altrettanto forte, per stare alla cronaca più recente, in occasione dei ripetuti tentativi di censura ai quali abbiamo assistito negli ultimi mesi, oppure nella vicenda di Ilaria Salis, in cui sono coinvolti principi fondamentali dello stato di diritto, a cominciare da quella presunzione di innocenza indispensabile per esercitare efficacemente il diritto di difesa.

Tutte vicende politiche, certo, ma l’avvocatura è ormai un soggetto politico e ha un notevole peso, non solo in Parlamento. Non può, quindi, restare afona nel momento in cui siamo di fronte, nel mondo, a una regressione democratica senza precedenti, che colpisce vecchie e nuove democrazie con modalità inedite.  

Gli osservatori internazionali ci dicono infatti che sempre più le democrazie arretrano verso forme di autocrazie non con colpi di Stato e carri armati, ma dall’interno, per mano delle maggioranze politiche e dei governi “democraticamente eletti” (come si usa dire), attraverso riforme che, prese una ad una, non appaiono pericolose ma che, sommate, determinano lo svuotamento delle democrazie costituzionali. E i principali indicatori di questo progressivo svuotamento sono: l’attacco all’indipendenza dei giudici, l’appropriazione delle Corti costituzionali, il silenziamento dei poteri di controllo, compresi i media, il ridimensionamento del Parlamento e del ruolo delle opposizioni. Le prime istituzioni a finire nel mirino sono quelle di garanzia, vissute con insofferenza proprio per la loro naturale funzione di limite al potere, funzione contromaggioritaria possiamo dire qui senza timore di essere fraintesi. È accaduto in Polonia e in Ungheria, solo per citare due esempi in Europa. 

 

7. La grande sfida di questa epoca, quindi, è arginare le regressioni democratiche per non dover dire - come ci dicono tanti polacchi e ungheresi, anche avvocati - “purtroppo non le abbiamo viste arrivare”. Tutti dovrebbero sentirsi impegnati a raccogliere questa sfida, a maggior ragione gli avvocati, che per professione maneggiano il diritto e che quindi, più di altri, possono svelare gli inganni di chi usa il diritto non più come limite al potere ma come grimaldello per scardinare le garanzie e aprire la strada a nuovi autoritarismi. Già nel 2014, a un convegno in ricordo di Franco Bricola, Marcello Gallo, ormai quasi cieco, richiamava con vigore i colleghi a lavorare per una legislazione «che non consenta sotterfugi, che non tolleri interpretazioni tali da condurre dall’assetto liberal-democratico a soluzioni apparentemente innocenti ma sostanzialmente ispirate alla logica dell’autoritarismo». Ogni riferimento a riforme oggi in cantiere è puramente casuale.

Più in generale, bisogna impegnarsi a promuovere una vera cultura costituzionale. Forse anche fra gli avvocati? È una domanda che vi pongo.

L’alfabetizzazione costituzionale è un lavoro lungo e difficile ma va fatto, anche nel paese che dice di avere la Costituzione più bella del mondo. E va fatto insieme – avvocati, magistrati, costituzionalisti, giornalisti, cittadini, Corti costituzionali – tanto più nella prospettiva di riforme che possono alterare l’equilibrio dei poteri. Lo hanno capito in Israele, prima che scoppiasse la guerra: gli israeliani hanno riempito le piazze per mesi e mesi contro la riforma della giustizia di Netanyahu, che avrebbe normalizzato la Corte suprema e che invece è stata bloccata. In quelle piazze c’erano migliaia di avvocati, e altrettanti ne vorrei vedere in Italia – idealmente, almeno finché non sarà necessario scendere in piazza, e speriamo mai – per proteggere l’essenza della nostra democrazia costituzionale. «Mai come oggi – diceva Marcello Gallo – la “necessità” ci si presenta e ci costringe a prendere posizione. Ci costringe a uscire dall’adorata asetticità del mestiere di giuristi per affrontare quello che la mia generazione affrontò nel ’43: la scelta di un futuro non solo per noi, ma per tutto il paese». 

In poche parole: principi o combattenti, difendete sempre i nostri diritti e la nostra democrazia costituzionale.

[*]

Intervento alla conferenza Dicono di noi..., organizzata dall'Ordine degli Avvocati di Firenze e dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Firenze e tenutasi a Firenze il 3 maggio 2024

03/06/2024
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