Signor Giudice,
non posso non riconoscere che il suo sia un mestiere difficile che segna profondamente la sua vita. Tante volte mi sono domandato come può sentirsi tranquillo dopo una udienza che si è conclusa con una condanna che ha tolto all’imputato anche la speranza del futuro. Gli errori giudiziari sono sempre in agguato e tante volte è accaduto a noi avvocati di assistere persone che sappiamo innocenti, che sono condannati, o colpevoli che vengono assolti.
Mi piace immaginarla la sera, nella quiete della sua famiglia, mentre legge un libro, o guarda la televisione, mi piace immaginarla con il dubbio che improvvisamente l’assale: e se avessi sbagliato, se avessi sottratto al lavoro, ai suoi affetti, ad una vita normale, un’innocente? Mi domando: come può sentirsi tranquillo? Ogni giorno che passa la domanda tornerà a tormentarla, si immaginerà quell’uomo in una cella di pochi metri, a cui lei ha tolto tutto, anche la sua identità di essere umano. O forse le cose non stanno così, forse quando chiude il fascicolo dopo aver pronunciato la sentenza, il caso è chiuso, forse dice a sé stesso: io non sbaglio, sono un giudice.
Si è mai chiesto cos’è “un ragionevole dubbio”, e quando si può dire che la sua convinzione della colpevolezza sia “al di là di ogni ragionevole dubbio?”. Lei, a un certo punto, si è trovato a un bivio, di fronte a due possibili conclusioni: colpevole o innocente. Il “dubbio” – come lei certamente sa - è uno stato soggettivo d’incertezza, una credenza o una opinione non sufficientemente determinata o l’esitazione a scegliere tra l’asserzione dell’affermazione o l’asserzione della negazione. Perché, signor giudice, il suo dubbio deve essere “ragionevole”? Perché la sua stessa ragione è consapevole dei suoi limiti, dell’incertezza che è propria della mente umana. Si è mai chiesto come è passato dal dubbio ragionevole alla “certezza”, e cioè alla “verità”?
Talvolta si ha l’impressione, e il timore, che nel superamento del dubbio facciano gioco le esperienze personali, la vita vissuta, i pregiudizi, le convinzioni politiche, il giudizio che altri daranno della decisione. E questa è una componente della decisione su cui il difensore non riesce a incidere perché, salvo casi rarissimi, non la conosciamo, sappiamo poco del suo passato, dei suoi problemi, delle esperienze che lo hanno reso ciò che è.
Negli Stati Uniti ci sono agenzie che hanno il compito di investigare sui giurati, sia eventualmente per ricusarli, sia per impostare la difesa. E’ una conferma, questa, che i fattori personali incidono pesantemente sulle decisioni giudiziarie. Ma noi, signor giudice, non la conosciamo: ci comportiamo come se non avesse un volto, come se fosse una macchina in cui mettiamo dei dati per avere una risposta. Ma non è così.
Non sempre i nostri rapporti sono facili. Quante volte abbiamo letto sul suo viso la noia di ascoltarci, il senso di inutilità della nostra fatica. Quante volte abbiamo intuito che lei già aveva deciso, prima ancora dell’udienza. Eppure abbiamo fatto puntualmente il nostro lavoro. L’avv. De Sèze, che difese Luigi XVI davanti alla Convenzione di Parigi non poteva non prevedere che il suo cliente sarebbe stato condannato perché o il re era colpevole, o la rivoluzione era priva di legittimazione. Eppure, come il difensore ricorda nella sua arringa, «costretto a estendere in quattro notti una Difesa così importante… è mestiere ch’io faccia scusa per l’inesattezza d’un lavoro frettoloso… Ma ho dovuto adempiere ad un dovere sacro: ho sol consultato il mio zelo, non le mie forze». Forse qualche volta, signor giudice, avrà pensato, ascoltando un difensore, che l’avvocato assolveva il suo compito perché prezzolato, che faceva tacere la sua coscienza di fronte a crimini orrendi. Non è così, mi creda: può accadere, ma non è per questo che studiamo le carte, cerchiamo una sentenza che ci dia ragione, talvolta abbiamo il disprezzo della gente. Ci sentiamo investiti di quel “dovere sacro” di cui parla l’avv. De Sèze: noi siamo l’ultima barriera, abbiamo nelle nostre mani la libertà o il disonore, la felicità o la disperazione del nostro assistito, colpevole o innocente che sia.
Non posso negare che talvolta lei, signor giudice, ha mostrato molta pazienza, molta tolleranza di fronte alla noia di una discussione malfatta, che non tocca i punti che vorrebbe affrontati dal difensore: è capitato talvolta che fossimo richiamati alle questioni che voleva sentire trattate, proprio nell’interesse della comune costruzione di una verità. Ricordo un episodio narrato da Calamandrei nel suo bel libro Elogio dei giudici scritto da un avvocato: il Presidente continuava a interrompere un difensore chiedendo spiegazioni; l’avvocato si irritò dichiarando che se fosse stato ancora interrotto avrebbe rinunziato a parlare; il Presidente lo tranquillizzò così: «Se non mi aiuta a capire, non posso giudicare».
Vede, signor giudice, questo è il processo: contribuire tutti a formare il giudizio, ad essere parte attiva di un processo dialettico verso la verità.
Non mi deluda, signor giudice, con una sentenza dove non c’è traccia delle mie parole, della mia fatica; mi faccia sperare che la sera, nella tranquillità della sua vita privata si ponga la domanda: “E se avessi sbagliato?”. Così come il difensore non può non chiedersi: “Potevo fare di più? Potevo fare meglio?”.
Con ossequio.