Introduzione
La pandemia ha sottoposto a un test durissimo i sistemi pubblici di Welfare, sotto molteplici punti di vista. Quello su cui mi soffermerò è il sostegno ai redditi, principalmente ai redditi da lavoro, che per moltissimi si sono ridotti se non anche azzerati. E’ oramai ben noto che le risorse monetarie trasferite, in modi diversi, dallo Stato alle famiglie hanno raggiunto in tutti i paesi avanzati dimensioni che solo poco tempo fa erano inimmaginabili.
In relazione a questo gigantesco impegno dello stato è interessante porsi alcune domande: quali effetti esso ha avuto nell’alleviare il disagio economico, in particolare dei più deboli? Quale influenza possono avere avuto su quegli effetti le condizioni pre-esistenti, in particolare quelle relative alla disuguaglianza e alle stesse caratteristiche dei sistemi di Welfare? Quali lezioni possiamo trarre da questa esperienza per migliorare il disegno del Welfare, rispetto sia alle modalità con le quali eroga fondi e individua i beneficiari sia alle fonti da cui attinge le necessarie risorse finanziarie? Le imposte patrimoniali hanno un ruolo da svolgere in questa prospettiva?
Quello che segue è un tentativo di delineare risposte plausibili a queste non facili domande.
I trasferimenti dello Stato nella pandemia e le disuguaglianze
Grazie alle risorse messe a disposizione dal Governo nel secondo trimestre del 2020 il reddito medio delle famiglie è caduto del 7,2% molto meno di quanto si è contratta l’attività economica come misurata dalla caduta del Prodotto Interno Lord: 12,8%.[1] Si tratta di un risultato significativo, anche se peggiore di quello di molti altri paesi dove la caduta del reddito medio, rapportata a quella del PIL, è stata minore. Ad esempio in Francia il PIL è caduto del 13,8% (quindi un punto percentuale in più che da noi) ma il reddito medio delle famiglie si è ridotto soltanto del 2,3%. Anche Germania e Gran Bretagna hanno fatto meglio di noi e negli Stati uniti, nei primi mesi della pandemia, il reddito medio delle famiglie è addirittura aumentato in conseguenza del fatto che – anche a causa di un sistema di Welfare che non permetteva interventi più selettivi – sono stati distribuiti, con il Cares Act, 1200 dollari a ogni cittadino americano.
Più interessante è chiedersi cosa è accaduto a livello distributivo delle varie fasce di reddito. L’analisi, al momento, non può che essere parziale e provvisoria a causa della mancanza dei dati necessari per una valutazione accurata. Dunque, vanno presi con molta cautela i primi risultati di cui disponiamo come, ad esempio, quelli contenuti in una Nota del Ministero dell’Economia pubblicata a ottobre. Secondo tale Nota, le misure adottate dal Governo hanno fatto sì che il 10% più povero della popolazione abbia ricevuto nel secondo trimestre di quest’anno trasferimenti superiori alle perdite subite a causa della pandemia e, inoltre, coloro che si trovano nel 10% appena superiore hanno praticamente conservato il reddito di cui disponevano prima della pandemia.[2]
Anche prendendo per buoni questi dati occorre, naturalmente, verificare quale sarà l’evoluzione successivamente al secondo trimestre ma, soprattutto, è opportuno riflettere sull’adeguatezza di analisi che si riferiscono a un insieme di individui corrispondenti al 10% della popolazione come se fossero un tutto omogeneo. In altri termini all’interno del 10% più povero può esservi una grande variabilità di situazioni e non si può affatto escludere che molti di coloro che rientrano in quel 10% abbiano visto peggiorare la propria posizione mentre l’opposto può essere accaduto agli altri, con l’effetto aggregato di cui si è detto.
In effetti, la pandemia sembra avere colpito in modo differenziato anche chi è in basso e, come vedremo, le misure adottate dal Governo ben difficilmente possono avere raggiunto tutti e averlo fatto con un’intensità proporzionata alla reale perdita di reddito subìta.
Va anche considerato che il diseguale impatto della pandemia può avere determinato un forte rimescolamento della composizione dei vari decili di reddito; in altri termini, nel 10% più povero possono essere finiti soggetti che precedentemente si trovavano molto più in alto nella scala dei redditi, la questione è naturalmente rilevante per l’analisi dell’impatto sulla disuguaglianza della pandemia e delle misure del governo
Per cercare di formarsi un’idea più precisa, ma di certo non definitiva, su quello che può essere capitato è utile ricostruire brevemente le caratteristiche del nostro sistema di Welfare, in tema di sussidi e integrazioni di reddito, al momento dello scoppio della pandemia e indicare alcuni suoi difetti che hanno reso necessari interventi urgenti che, come tali, difficilmente possono aver trattare in modo "sottile" le varie situazioni e, dunque, difficilmente hanno limitato il rischio di peggioramento della situazione per molti dei già deboli.
Il sistema di Welfare alla prova della pandemia
La pandemia ha reso necessario non soltanto estendere gli esistenti istituti del nostro Welfare relativi alle integrazioni di reddito e ai sussidi ai lavoratori, ma anche di introdurne di nuovi. Ciò si spiega in parte con la gravità della crisi e in parte con i difetti del precedente assetto che, sinteticamente, lasciava privi di protezione molti lavoratori. Esaminiamo brevemente la situazione.
La Cassa Integrazione Guadagni, le cui origini risalgono agli anni ‘50, permette ai lavoratori temporaneamente sospesi o non pienamente utilizzati, ma non licenziati, di ricevere dallo Stato un trasferimento pari, nel caso più favorevole. A circa l’80% del proprio salario. La misura, che ha lo scopo di permettere di far fronte a crisi temporanee in costanza di impiego, malgrado successivi interventi diretti a estenderne l’applicazione prevede molte esclusioni (oltre che disparità di trattamento) in base al settore di attività e alle dimensioni di impresa. Ciò ha reso necessario, di fronte alla pandemia, interventi per raggiungere i lavoratori esclusi. Anche per effetto del blocco dei licenziamenti deciso dal Governo, la Cassa Integrazione ha avuto un ruolo importantissimo nel permettere di fronteggiare la crisi.[3] Un problema di non poco conto riguarda, però, la situazione che si potrà creare tra alcuni mesi con il venire meno del blocco dei licenziamenti. In assenza di una vigorosa ripresa economica i lavoratori che ora sono in costanza di impiego diventeranno veri e propri disoccupati e dovranno, eventualmente, contare sui sussidi di disoccupazione.
Questi ultimi nell’attuale configurazione - che però sembra all’attenzione del governo per una riforma - sono di durata limitata, poco generosi, oltre che decrescenti con il perdurare dello stato di disoccupazione. Soprattutto, essi tendono in vario modo a penalizzare i più giovani. La pandemia ha richiesto interventi anche nei confronti di questo istituto; in particolare, è stata estesa la durata del godimento dei sussidi, ma solo temporaneamente. E anche qui ci sono preoccupazioni per la situazione che si potrà creare, in assenza di correttivi, nel prossimo futuro.
Problemi più seri emergono se passiamo dai lavoratori dipendenti ai lavoratori autonomi che, come è noto, in Italia continuano ad essere un universo tanto ampio quanto variegato. Questi lavoratori sono, nella sostanza, privi di forme di protezione sociale; tale mancanza aveva, già da qualche tempo, spinto a promuovere iniziative dirette a colmarla, ma gli esiti finora raggiunti sono assai limitati.[4] Di fronte alla pandemia si è, pertanto, reso necessario ricorrere ai bonus che sono stati, non sorprendentemente, molto utilizzati. Tuttavia il loro disegno "rigido" li rende inidonei a tenere conto delle diverse situazioni di difficoltà e, dunque, a ridurre in modo ‘raffinato’ le disuguaglianze.
Un problema che non si può non menzionare riguarda la cosiddetta economia informale e quella articolata rete di rapporti di lavoro "opachi" che impedisce a molti di accedere sia alle integrazioni salariali previste per i lavoratori dipendenti sia ai bonus destinati ai lavoratori autonomi. Qui l’attenzione si sposta sul funzionamento del mercato del lavoro, sulla tolleranza di rapporti di lavoro senza chiara identità (si pensi ai gig worker) e del vero e proprio lavoro "nero".
L’ultima delle misure di integrazione del reddito, non riservata ai lavoratori, è quella forma particolare di reddito minimo rappresentata dal Reddito di Cittadinanza. Le numerose condizioni (di reddito, di patrimonio, di residenza) a cui è sottoposto l’accesso a questa misura la rendono indisponibile per molti, anche tra coloro che sarebbero considerati poveri assoluti o che soffrono di forme gravi di deprivazione materiale.[5] Ciò non toglie che essa abbia svolto un ruolo importante in questa fase, anche nei confronti di alcuni tra coloro che non erano nelle condizioni di godere dell’una o dell’altra delle forme di integrazione del reddito prima elencate. Resta, però, il fatto che proprio per l’impossibilità di molti di accedere al Reddito di Cittadinanza si è deciso, con la pandemia, di introdurre un ulteriore istituto, il Reddito di Emergenza – anch’esso, però, non privo di condizionalità.
Da queste rapide considerazioni si evince che il nostro Welfare presentava alcune fragilità alle quali la pandemia ha reso necessario porre rapidamente rimedio; i soggetti esclusi erano molti, raramente in base a giustificabili motivi e i trattamenti troppo differenziati e talvolta del tutto insufficienti. E’ facile pensare che questi rimedi, adottati nel modo convulso imposto dal vorticoso procedere degli eventi, abbiano potuto essere disegnati nel modo ideale per contrastare "finemente" l’impatto della pandemia stessa sulle disuguaglianze. Ulteriori approfondimenti sono, tuttavia, necessari. Intanto, l’insegnamento da trarre è che disporre di un sistema di Welfare solido ed equilibrato serve anche per fronteggiare meglio eventi estremi ed improvvisi come le pandemie.
Si può, inoltre, ricordare quanto poco rosea fosse la situazione iniziale dal punto di vista della povertà e delle disuguaglianze. Nel 2019 il 7,7% della popolazione italiana viveva in condizioni di povertà assoluta, cioè non raggiungeva livelli di consumo considerati essenziali per una vita minimamente dignitosa. Quel dato, come è piuttosto noto, nasconde una grande variabilità anche territoriale; ad esempio, nel Mezzogiorno è molto più alto.
Se si fa riferimento invece che alla nozione di povertà assoluta a quella di povertà relativa (la cui soglia, in generale più alta, è fissata dall’Istat in corrispondenza della metà del consumo medio pro-capite) risulta che nel 2019 erano povere relative l’11,4% delle famiglie italiane. Si può aggiungere che un ulteriore 7,2% di famiglie, che si possono definire quasi povere, si collocava poco sopra quella soglia.[6] Per queste famiglie, dunque, una perdita limitata di reddito familiare avrebbe significato cadere "ufficialmente" in povertà.
Va anche ricordato che una quota molto rilevante della popolazione non dispone di risparmi accumulati tali da potersi permettere consumi ai livelli della povertà assoluta per più di tre mesi. In caso di perdita di reddito e con risparmi così limitati l’unica possibilità per non incorrere in forme severe di povertà e di deprivazione è chiaramente l’accesso ai trasferimenti pubblici.
Che in Italia vi sia una consistente quota di individui con conti correnti così poveri può sorprendere alla luce di alcuni dati sulla ricchezza degli italiani, che vengono spesso richiamati. A fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane è stata pari a 9.743 miliardi di euro, più di 8 volte il loro reddito disponibile. Un rapporto superiore a quello di altri paesi.[7] Quella ricchezza – che per più di metà del suo valore è costituita da abitazioni – è, però fortemente concentrata. Il 5% più ricco degli italiani possiede più del 40% della ricchezza netta; molti italiani hanno ricchezza netta nulla o negativa (cioè il valore dei debiti eccede quello delle loro attività) e moltissimi sono proprietari della casa in cui vivono ma hanno pochissima ricchezza finanziaria. Tutto ciò concorre a spiegare il fenomeno della estesa mancanza di risparmi adeguati a fronteggiare situazioni di emergenza.
Queste considerazioni spingono a ribadire che contenere le disuguaglianze che si creano nei mercati e disegnare per tempo un sistema di Welfare in grado di tutelare tutti in modo tendenzialmente egualitario dai rischi sociali non è soltanto importante di per sé, è anche di grande aiuto per limitare le sofferenze sociali ed economiche generate da eventi tragici quale è una pandemia.
Le debolezze del nostro sistema fiscale
Il nostro sistema fiscale presentava e presenta debolezze che rendono necessari interventi di riforma anche a prescindere dai problemi aggiuntivi causati dalla pandemia. Ricordiamo le principali tra queste debolezze.[8]
La prima riguarda l’evasione fiscale che viene stimata di dimensioni enormi, significativamente maggiori di quelle rilevate in altri paesi, comparabili per il livello dello sviluppo.[9] Per quello che riguarda l’imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef) l’evasione sembra concentrarsi su redditi diversi da quello da lavoro dipendente e ciò contribuisce a fare sì che una quota esorbitante del gettito di quell’imposta provenga, appunto, dalla tassazione del lavoro dipendente.
La seconda debolezza si riferisce a una serie di disparità di trattamento fiscale difficilmente giustificabili, che violano quella che viene chiamata equità orizzontale: redditi di eguale ammontare pagano imposte diverse a seconda del settore produttivo in cui quei redditi vengono prodotti. Ad esempio, sotto questo punto di vista, il settore agricolo gode di significativi benefici.
La terza debolezza è costituita dal modo in cui si sono venute sovrapponendo detrazioni e deduzioni fiscali che oltre ad essere spesso discutibili in se stesse risultano particolarmente vantaggiose per i percettori di redditi più elevati. Ne consegue una forte attenuazione della già debole progressività del sistema fiscale, cioè del principio per cui le imposta devono crescere più che proporzionalmente con la capacità contributiva, iscritto anche nella nostra Costituzione, all’art. 53.
Infine, può essere considerata una debolezza il ruolo limitato, e non proprio ben disegnato, del patrimonio come base imponibile. La questione è molto rilevante e anche alla luce del dibattito sul tema che ha ripreso vigore in queste settimane, merita un approfondimento.
Prima occorre, però, sottolineare che queste debolezze producono due effetti negativi: limitano le risorse di cui può disporre lo Stato per effettuare i suoi interventi; rendono il sistema fiscale meno equo. Entrambi gli effetti non agevolano il contrasto alle disuguaglianze.
Come si formano e come crescono i patrimoni. Distinzioni importanti.
Si tende a dimenticarlo, ma in Italia vi sono già alcune imposte sul patrimonio; limitate e non perfettamente disegnate, ma vi sono. Sono le imposte sul patrimonio immobiliare (come l’IMU sulle abitazioni, esclusa soprattutto la prima casa) e le imposte di bollo che gravano sui conti correnti e gli investimenti finanziari. Queste imposte vengono chiamate reali perché si riferiscono a specifici elementi di ricchezza e non alla ricchezza complessiva di un individuo come sarebbe se l’imposta fosse personale. E’ evidente che solo con un’imposta personale si potrebbe realizzare pienamente il già ricordato principio di progressività delle imposte. Molti di coloro che invocano oggi una patrimoniale – molti, non tutti – intendono riferirsi proprio a un’imposta personale.
Imposta patrimoniale è anche quella sulle successioni che, però, in Italia è davvero minima, dopo le revisioni degli scorsi decenni, peraltro in sintonia con numerosi altri paesi. D’altro canto, i lasciti ereditari sono molto importanti nel nostro paese: nel 2016 raggiungevano il 15% del reddito nazionale, un valore analogo a quello della Francia ma superiore a quello della Germania (11%) e del Regno Unito (9%); inoltre, risultavano prevalenti i lasciti di importo superiore al milione di euro.[10]
Il riferimento all’eredità permette anche di puntualizzare quale è il suo ruolo tra le possibili origini della ricchezza di cui gode una generazione.
La ricchezza si può accumulare attraverso il risparmio, cioè la decisione di non consumare tutto il reddito di cui si dispone ma può derivare anche da lasciti ereditari rispetto ai quali non si possono vantare grandi meriti e, ancora, da incrementi del valore della ricchezza, dipendenti da varie cause, anch’essi poco o per niente "meritocratici". Per fare un esempio estremo: nel corso della pandemia i valori di Borsa di molte imprese – in particolare, a livello internazionale, delle big tech della tecnologia digitale – sono cresciuti enormemente, permettendo ai loro azionisti, soprattutto quelli con quote maggioritarie come è Bezos per Amazon, di veder crescere enormemente e repentinamente la propria ricchezza.[11] La causa principale di questi specifici arricchimenti va individuata nei cambiamenti che la pandemia ha indotto nelle abitudini di consumo e che si sono tradotti in profondi disagi economici per molti altri soggetti - a cominciare dagli operatori del commercio tradizionale. Dunque, siamo di fronte ad arricchimenti senza merito, anzi, derivante da fenomeni tragici per gran parte della società.
Negli ultimi decenni è aumentata la quota di ricchezza che proviene sia da eredità sia da questi incrementi di valore della ricchezza stessa mentre è diminuita quella accumulata attraverso il vero e proprio risparmio. Semplificando: gli arricchimenti non meritocratici dominano quelli meritocratici, come potrebbero essere considerati quelli che derivano dalla rinuncia al consumo per risparmiare e che sembrano essere gli unici presi in considerazione da chi si oppone alla tassazione dei patrimoni.
Se si ritiene che questo problema sia rilevante - e vi sono moltissime ragioni per farlo – si può intervenire in almeno due modi, non necessariamente alternativi: introdurre una tassa annuale, ben congegnata, sui patrimoni; rimodulare l’imposta di successione. Quel che va tenuto presente è che quando entrambe queste forme di tassazione del patrimonio sono basse accade che molta ricchezza si trasferisce da una generazione all’altra e, inoltre, che una volta trasmessa cresce più velocemente grazie alla bassa tassazione a cui è sottoposta. In breve, si attiva un processo che conduce verso una sempre crescente concentrazione di ricchezze per via poco meritocratica.
La tassazione dei patrimoni oggi è nel complesso molto bassa. Dalle imposte sul patrimonio ricordate in precedenza, stando alle statistiche dell’OCSE, derivano entrate complessive per il bilancio dello Stato nella misura del 2,5% del PIL. Si tratta di una percentuale esigua, ma è anche vero che sono pochi i paesi dell’area OCSE in cui tale percentuale è maggiore. Dunque, alla tassazione dei patrimoni si fa scarso ricorso praticamente in tutto il mondo; non a caso studiosi come Piketty invocano una tassazione patrimoniale (annuale e personale) su scala globale[12].
Le imposte patrimoniali, l’equità fiscale e le entrate dello Stato
Per formarsi un’idea più precisa del ruolo da assegnare alle imposte patrimoniali, oltre che del modo migliore di disegnarle, è utile qualche ulteriore considerazione sul ruolo che tali imposte potrebbero avere nel consentire una ripartizione più equa del carico fiscale, anche prescindendo dal problema – pur rilevante – del reperimento di entrate aggiuntive per lo Stato.
Se, rispettando la condizione di invarianza del carico fiscale, si sposta in tutto o in parte la tassazione dal reddito alla ricchezza ne risulta modificata la distribuzione delle imposte pagate da ciascun individuo. L’ovvia ragione è che la ricchezza si distribuisce diversamente dal reddito ed è più concentrata di quest’ultimo. Quindi, vi sarebbero vincitori e perdenti. I primi sarebbero coloro che vivono soprattutto di reddito, in particolare da lavoro, i secondi sarebbero soprattutto coloro che hanno elevate ricchezze e che vivono (anche o soltanto) di rendite. [13] Difficile sostenere che non si tratti di un passo avanti sulla via dell’equità.
Per cogliere una delle molte implicazioni di questa ipotetica modifica, che è di rilievo anche per la situazione creatasi con la pandemia, si consideri che se la tassazione sui redditi da lavoro fosse stata inferiore e sostituita da qualche forma di tassazione del patrimonio, sarebbe quasi certamente stata maggiore la quota di risparmi accantonati da molte di quelle famiglie che oggi ne sono poco provviste e sarebbe cresciuta la loro capacità di fare fronte allo shock sui redditi provocato dalla pandemia.
Un ulteriore elemento di riflessione è il seguente: spesso le grandi ricchezze sono un ostacolo al buon funzionamento della democrazia perché contribuiscono a determinare il potere di influenza sulle decisioni politiche alimentando quella unequal voice[14]di cui si è parlato con riferimento principale ma non esclusivo agli Stati Uniti, che allontana dal principio secondo cui le decisioni politiche – e non solo gli esiti elettorali - dovrebbero riflettere il numero di teste e non quello dei dollari o degli euro, che dir si voglia.
Per mettere in luce le conseguenze di un’imposta patrimoniale annuale sull’equità del sistema fiscale si è finora ragionato assumendo che il carico fiscale complessivo rimanesse invariato. In realtà vi è una seconda ragione per interrogarsi sull’opportunità di dare più spazio a un’imposta sui patrimoni ed è la necessità di disporre di risorse aggiuntive; una necessità che può derivare, anzitutto, dall’esigenza di assicurare la restituzione del debito accumulato che si va accumulando a ritmi sostenutissimi in questi mesi di enormi deficit pubblici.
Quanto grave possa essere questo problema è difficile a dirsi perché molto dipenderà dalle politiche della Banca Centrale Europa e della Commissione Europea che, in vario modo, possono rendere quel problema diversamente gravoso. Tuttavia è difficile pensare che esso si possa risolvere senza alcun ampliamento delle entrate dello stato. Peraltro, tale ampliamento sarebbe auspicabile anche per altri motivi ed in particolare per fare fronte alle crescenti difficoltà di finanziamento delle spese di Welfare. Tali difficoltà sono dovute al fatto che la base principale di quel finanziamento attualmente è il reddito da lavoro che, per vari motivi, rischia di essere insufficiente anche soltanto a conservare il Welfare che abbiamo avuto fino a ieri.[15] Dunque, anche per questo motivo è opportuno individuare altre basi imponibili e tra le candidate vi è il patrimonio che, per quanto si è detto, potrebbe consentire di accrescere le entrate in condizioni di maggiore equità fiscale.
I problemi con le imposte patrimoniali: superabili o insuperabili?
Gli oppositori dell’imposta patrimoniale sono numerosi e i loro argomenti sono molto variegati. Spesso tali argomenti vengono proposti contro un astratto esemplare di imposta patrimoniale, cioè a prescindere dai dettagli – decisivi – di specifiche proposte. I dettagli rilevanti riguardano principalmente l’entità dei patrimoni esenti e la progressione delle aliquota da cui dipende su chi ricade, e in che misura, l’imposta. E’ forse superfluo ricordare che bisognerebbe esentare patrimoni di limitata entità e fare in modo che il carico ricada principalmente sui grandi patrimoni, che in genere sono i meno ‘meritocratici’. A questo scopo si possono combinare appropriatamente l’imposta di successione e l’imposta annuale, curando anche l’eventuale complementarietà con l’imposta sui redditi. La moltiplicazione delle imposte non dovrebbe essere intesa come una forma di accanimento dello Stato nei confronti degli individui ma come strategia per sfruttare, appunto, la complementarietà tra i diversi strumenti facendo passi avanti sulla strada dell’efficienza e dell’equità. Il problema di "quanto" prendere è diverso dal "come" prendere e se si prende bene si può anche prendere di più senza troppi danni sociali.
Imposte patrimoniali ben disegnate e di cui si renda il più possibile esplicita la destinazione in modo da far emergere che vi sono anche dei beneficiari –plausibilmente "meritevoli" – potrebbero suscitare meno avversione nell’opinione pubblica.[16] Sull’origine di questa avversione, vera o presunta, molto si potrebbe dire. Ma occorre registrare che, stando ad alcuni sondaggi, in questa fase non sono pochi coloro che, in Italia e all’estero, si dichiarano non contrari, in generale, a un’imposta patrimoniale e, comunque, a contribuire maggiormente alle entrate pubbliche. Si tratta, probabilmente, dell’effetto combinato del privilegio immeritato che almeno alcuni di coloro che non hanno sofferto economicamente dalla pandemia sentono di avere e della convinzione che il loro contributo potrebbe servire a sanare qualche situazione di drammatica sofferenza. Cioè, una buona destinazione.
Tuttavia, come alcune delle critiche mettono in evidenza vi possono essere molti e seri problemi nel mettere efficacemente in pratica un’imposta patrimoniale.[17] Problemi che nascono dalla mancanza di un’anagrafe patrimoniale, dal rischio di fughe di capitali – in assenza di coordinamento internazionale - con conseguenti "disparità" di trattamento. Senza poter entrare nel merito, avanzo alcune semplici considerazioni: il coordinamento internazionale è di grande importanza come lo è la creazione di un’anagrafe patrimoniale che con le tecnologie digitali non appare un compito impossibile. In entrambi i casi le difficoltà appaiono più di ordine politico che non tecnico. Inoltre, nessuna imposta è perfetta. Ad esempio quando si teme che ci si possa sottrarre all’imposta patrimoniale o che si possano generare disparità di trattamento si tiene in conto l’evasione fiscale relativa alle imposte sul reddito nonché le iniquità orizzontali relative a queste imposte di cui si è detto?
In conclusione
La pandemia ha sottoposto a un severissimo stress i sistemi di Welfare e ne ha messo in luce anche i difetti, sia nel disegno degli istituti sia nella loro applicazione. L’esigenza di fronteggiare le diffuse situazioni di crisi e di raggiungere le molte persone in difficoltà escluse dal sistema della protezione sociale ha portato ad adottare provvedimenti che - nel complesso e almeno finora - sembrano avere avuto effetti significativi di complessivo contenimento delle disuguaglianze e di alleviamento di molte sofferenze. Tuttavia, in attesa di dati e studi più dettagliati, si può dubitare che provvedimenti presi in tempi rapidi e senza poter prestare troppa attenzione alla diversità di situazioni – una diversità profonda, data anche la frammentazione dei rapporti di lavoro – possa avere agito con sufficiente "finezza" nei confronti di queste situazioni.
In ogni caso misure dirette a contrastare la disuguaglianza appaiono indispensabili, anche alla luce di considerazioni di più lungo periodo e di cosa potrà accadere quando alcune delle misure introdotte nell’emergenza verranno a scadenza. Ragionando su questi temi diventa essenziale soffermarsi anche sul nostro sistema fiscale che contribuisce alle disuguaglianze in vario modo: attraverso le modalità con cui distribuisce il carico fiscale e attraverso le risorse complessive che mette a disposizione del Welfare. Sotto entrambi gli aspetti è doveroso interrogarsi sul ruolo che potrebbero avere imposte patrimoniali ben disegnate, all’interno di una più complessiva riforma fiscale. E tanto più è così se si ritiene, come allo stato delle cose è ragionevole fare, che l’enorme debito accumulato in questa fase richiederà entrate aggiuntive per farvi fronte, al di là del molto che possono fare, per quanto di loro competenza, la Banca Centrale Europea e la Commissione europea.
I problemi da affrontare per fare dell’imposta patrimoniale uno strumento in grado di rendere il sistema fiscale più equo sotto i vari aspetti prima ricordati sono diversi, non lievi ma – nel complesso – tecnicamente superabili. E nel valutare quei problemi bisognerebbe ricordare che non è mai una buona strategia confrontare un’alternativa con un astratto, perfetto, ideale piuttosto che con le alternative realmente disponibili. E non è mai una buona strategia per il progresso sociale parlare di ostacoli che l’iniziativa politica potrebbe superare come di ostacoli insuperabili, soprattutto se a pronunciarsi in questo senso sono i politici stessi e forse anche qualche intellettuale.
[1] Cfr. OCSE, Growth and economic well-being: second quarter 2020, novembre 2020, www.oecd.org/newsroom/growth-and-economic-well-being-second-quarter-2020-oecd.htm
[2] Cfr. Ministero Economia e Finanze, L’impatto del Covid-19 e degli interventi del Governo sulla situazione socio-economica delle famiglie italiane nei primi tre mesi della pandemia, Analisi Economica e Statistica, Nota di Lavoro n. 3, Ottobre 2020.
[3] INPS, XIX Rapporto annuale, Ottobre 2020 https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemdir=54273
[4] Cfr. A. Buratti, Quali tutele per il lavoro autonomo professionale, Menabò di Etica e Economia, 30 settembre 2020 https://www.eticaeconomia.it/quali-tutele-per-il-lavoro-autonomo-professionale/
[5] Per qualche approfondimento, cfr. FrGRa (M. Franzini, E. Granagli e M. Raitano), l reddito di cittadinanza. Proviamo a fare chiarezza, Menabò di Etica e Economia, 14 ottobre 2020, https://www.eticaeconomia.it/le-critiche-al-reddito-di-cittadinanza-proviamo-a-fare-chiarezza/
[6] Più precisamente si tratta di famiglie con consumi non superiore del 20% alla soglia della povertà assoluta.
[7] Banca d’Italia- Istat, La ricchezza delle famiglie e delle società non finanziarie italiane, 2005-2017, 9 maggio 2019 www.bancaditalia.it/pubblicazioni/ricchezza-famiglie-societa-non-fin/2017-ricchezza-famiglie-societa-non-fin/index.html
[8] Si veda anche V. Ceriani, Disuguaglianze, equità e fisco, Menabò di Etica e Economia, 2 e 17 febbraio 2020, https://www.eticaeconomia.it/disuguaglianze-equita-e-fisco-seconda-parte/
[9] Secondo le stime contenute nella Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2019, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’economia sommersa rappresentava circa il 13% del PIL.
[10] Inoltre, i lasciti superiori al milione di euro, nel loro insieme rappresentavano il 25% del totale dei lasciti. Dati sulle eredità sono disponibili sul sito del Forum Disuguaglianza e Diversità, www.forumdisuguaglianzediversita.org/page/2/?s=eredit%C3%A0
[11] Si noti che qualcosa di simile può avvenire, ed è storicamente avvenuto, anche per il valore degli immobili.
[12] T. Piketty ha motivato la sua posizione nel suo libro di grande successo di qualche anno fa: Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2016. Nel più recente Capitale e ideologia, Nave di Teseo, 2020 ha ribadito la sua posizione fornendo ulteriori elementi di valutazione.
[13] Sul punto si veda F. Patriarca, Mani in alto!, Huffpost Blog, 4 dicembre 2020, https://www.huffingtonpost.it/entry/mani-in-alto-questa-e-una-patrimoniale-gli-equivoci-dellimposta-sulla-ricchezza_it_5fca095ac5b6636e09245b47?utm_hp_ref=it-blog
[14] Il riferimento è al libro di K. L. Schlozman, H.E.Brady e S. Verbe, Unequal and Unrepresented: Political Inequality and the People's Voice in the New Gilded Age, Princeton University Press, 2018.
[15] Cfr. M. Franzini, M. Raitano, Se il lavoro arretra. Conseguenze, forse trascurate, sui sistemi di welfare, Menabò di Etica e Economia, 28 giugno 2019, https://www.eticaeconomia.it/se-il-lavoro-arretra-conseguenze-forse-trascurate-sui-sistemi-di-welfare/
[16] Se non altro, almeno da questo punto di vista è da segnalare la proposta avanzata dal Forum Disuguaglianza e Diversità di destinare una riformulata imposta di successione a finanziare una dotazione di 15.000 euro per tutti i diciottenni.
[17] Altre critiche sulle quali non posso soffermarmi ma che ritengo siano superabili o, comunque, non dirimenti sono quelle sul rischio di doppia tassazione della ricchezza (sostanzialmente prima come reddito e poi, appunto, come ricchezza – ma è evidente che si ha in mente il risparmio come sola fonte di ricchezza) e quella sui problemi di liquidità che avrebbe a pagare l’imposta chi possiede patrimonio non liquido e ha anche scarso reddito.