Prima parola-chiave: Popolo
Durante un viaggio-studio nel 2009 in Iran (promosso dalla rivista Confronti) ho avuto l’occasione di incontrare, nella città sacra di Qom, Mostafa Milani: hojjatoleslām (titolo appena sotto quello più noto di ayatollah) addetto alle relazioni pubbliche con visitatori e loro organizzazioni.
Approfittando della conoscenza perfetta della lingua italiana (il giovane Milani aveva vissuto a Milano, in Italia, fino all’età di 24 anni), nel corso del previsto “dialogo interreligioso”, ho posto al giovane mullah questa domanda: «Perché è stata data alla Repubblica - dopo la rivoluzione contro la monarchia - la qualifica di “islamica” e non è stata denominata semplicemente “dell’Iran”? Considerando, peraltro, la millenaria civiltà iraniana, i cui segni abbiamo potuto toccare con mano durante il nostro viaggio». Milani rispose: «Perché lo ha chiesto il popolo». Impegnativa risposta, quella di Mostafa Milani; ma anche incauta.
Il popolo. Non è utile e neppure sarebbe corretto approcciare questa crisi di un’autocrazia al potere, sovrapponendosi alla Società spezzata e allo Stato in crisi di legittimità, con politologie esterne (anche se non estranee) allo stato Iran. Il concetto di popolo, peraltro, ha una sua forza costitutiva interna ai fondamenti del potere politico nell’islam sciita, anche prima della torsione komeinista. Scriveva, infatti, Alī Sharī’atī (1933-1977): «La parola “popolo/al-nās” ha nell’Islam un significato profondo e distintivo. È soltanto il popolo nel suo insieme che è rappresentante di Dio e della sua famiglia (al-nās iyalu’ Llāh). Il Corano comincia nel nome di Dio e finisce nel nome del popolo. La Ka‘ba è la casa di Dio, ma il Corano la chiama anche la “casa del popolo”, la “casa libera/bayt’atiq”» [Q, XXII, 29 e 33].
Tra il massacrare il popolo o ascoltarlo sta-o-non-sta la radice/fondamento della legittimità di una classe politica al potere. La “porta stretta” per andare oltre questo Potere che uccide molti suoi cittadini e ne tiene prigionieri altrettanti è quella che sta attraversando le migliaia di ragazze e ragazzi, mettendo in gioco la vita. Costoro sono: “il popolo”.
Seconda parola chiave: Donna
Nel 1980, uno dei primi atti dell’Imam Khomeini - come capo del nuovo Stato - fu la promulgazione di una legge sul hijab, che rendeva il velo obbligatorio per le donne che lavoravano negli enti pubblici e, successivamente generalizzata a tutte le donne, in tutti i luoghi. Ma già allora il potente imam Khomeini sperimentò la prima opposizione: quella della resistenza delle donne iraniane. Ed è per loro che Khomeini coniò il termine di «islamofobe», intendendo “cattive musulmane” (anche il termine, spesso abusato, di islamofobia deriva da questa circostanza storica).
La torsione allo sciismo e la nascita della teocrazia
Quando, recentemente, il capo dei cattolici del mondo, Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, andò in Iraq (6 marzo 2021) incontrò il capo dell’islam sciita del mondo nella persona del grande ayatollah, Alī al-Husaynī al-Sīstānī Mashhad, nella sua residenza privata, a Naiaf, in Iraq. È stato agevole apprendere dai giornali che è Sīstānī il rappresentante dell’Islam sciita e che l’islam sciita ritiene ogni Potere (politico, statuale) privo di legittimazione, dal momento che, secondo la fede islamica sciita, questa legittimità è esclusiva prerogativa del Mahdi; il dodicesimo Imam della Shia, temporaneamente occultato: tornerà, messianicamente, alla fine dei tempi per instaurare il Regno della giustizia. Sino a quel momento, il rapporto dei credenti con la politica risponde a mere necessità funzionali. Ciò non significa che essi siano indifferenti a chi governa ma che non si batteranno per un ordine conforme alla Legge divina, compito che spetta al Mahdi. L’occultazione che dura da oltre un millennio, non solo produce la relativizzazione del presente ma fa della Shia una comunità dell’Attesa.
Come si può agevolmente constatare, la rottura della tradizione teologica operata da Khomeini è stata enorme! Ricorda, a tale proposito Renzo Guolo: «Teologia che sarà messa a dura prova da Khomeini che, proprio a Najaf, dove trova rifugio negli anni Sessanta dopo essere stato espulso dall’Iran per la sua opposizione allo Shah, opera una vera e propria cesura con la tradizione. (…) Le tesi di Khomeini faranno tremare i vecchi muri del seminario di Najaf, che si dividerà tra quanti, la maggioranza, resteranno fedeli alla teologia fondante lo Sciismo e quanti, un’intensa minoranza, scorgeranno nell’attivismo politico la sua legittimazione». Contro l’ambizione egemonica iraniana, l’anziano leader al-Sīstānī di Najaf muove le sue pedine; in una complessa partita che coinvolge anche l’attuale guida suprema iraniana - il quasi coetaneo e concittadino Khamenei - che non è il capo degli sciiti del mondo, ma soltanto il capo dell’Iran (repubblica “islamica”, qualifica che sarebbe stata richiesta dal popolo stesso, che in questi giorni, per la prima volta, lo accusa di uccidere il popolo). Anch’egli, come al- Sīstānī, è originario di Mashad; ed è espressione di quel clero la cui legittimazione viene dal «Dio del Politico» più che dal «Dio della Fede». E che ora - più ferocemente di altri momenti - si regge non solo e non più sulla “polizia morale”, ma sulle armi dello Stato che non risulta legittimato né dalla Fede, né dal Popolo; ma dalla forza militare (per le citazioni sopra riportate cfr. M. Campli, Islamizzazione e radicalizzazione, saggio su Olivier Roy e Gilles Kepel, Cavinato Editore Internazionale, Brescia 2021).
La rapidità e il successo della operazione di conquista del potere – una islamizzazione dell’ordine politico autoritario dei Phalavi - stanno certamente a dimostrare la profondità della desertificazione pluriennale della e nella società iraniana, operata da quel regime imperiale corrotto e miope, e anche la fragilità dell’opposizione politica senza nerbo del tempo. Khomeini aggiunse una spregiudicatezza teologica e religiosa che non trovò alcuna resistenza o contrasto né nella società civile e religiosa interna, né nell’Islam governante nella intera area. Khomeini, infatti, usò la forza della narrazione motivante e mobilitante dello sciismo, operando su di essa una torsione dottrinale inattesa e singolare; a cui aggiunse, a piene mani, una pratica militarista e poliziesca del potere. Quella di «strumentalizzare i movimenti di sinistra prima di sterminarli non appena ebbe trionfato e proclamato la sua Repubblica islamica. Per fare questo, non diversamente dai salafiti era tornato ad una forma fondamentalista ed "epurata" del dogma (…) Sintetizzando i principi fondamentali della fede, rivisitati alla luce dei problemi dell’attualità, Khomeini riuscì a dare vita a una grande mobilitazione che sconfisse, contemporaneamente, tutte le altre componenti dell’opposizione e del regime imperiale» (G. Kepel, Uscire dal chaos, in M. Campli, cit.).
La lingua e le lingue della rivolta
Donna, Vita, Libertà! La mia vita per l’Iran! «Teheran è diventata una prigione, Evin una Università», cantano gli studenti di Teheran, riferendosi al carcere della capitale dove sono detenuti attivisti, intellettuali, avvocati. Ormai non si tratta soltanto del rifiuto della teocrazia, ma è una richiesta di democrazia: «Morte all’oppressore, che sia un re o un leader supremo». «Da Sanadaj a Zahedan, la mia vita per l’Iran»: un appello per l’unità che parla ai curdi iraniani del nord, da sempre un bastione dell’opposizione alla repubblica islamica. A Zahedan, il 30 settembre, c’è stato l’episodio più sanguinoso, almeno 80 vittime: «Sanadaj, Zahedan, occhi e luce dell’Iran», cantano gli studenti di Teheran (Gabrielle Colarusso, La Repubblica, 26 ottobre 2002).
La repubblica islamica nell’intreccio della geopolitica
«A Kiev, raccogliendo pezzi di droni (quelli, cosiddetti, kamikaze), le autorità hanno potuto leggere frammenti di scritte che rinviano senza alcun dubbio al costruttore, l’Iran - scrive Maurizio Molinari (La Repubblica, domenica 6 novembre 2022) - da uno studio della Fondazione Carnegie di Washington si rileva che la Russia ne ha richiesti almeno 1.700; li usano a grappolo, contro gli obiettivi civili (persone, abitazioni, servizi di elettrificazione e riscaldamento). Costano poco ed è un risparmio notevolissimo rispetto ai missili. Ma la partnership Russia-Iran riguarda anche i militari: J. Korby, portavoce della Casa Bianca, a fine ottobre ha fatto sapere che in Crimea era presente ed attivo un ristretto gruppo di pasdaran - i Guardiani della rivoluzione - per assistere e formare all’uso dei droni iraniani. La Repubblica islamica ha esportato queste innovazioni della rivoluzione khomeinista già nello Yemen, dati ai gruppi sciiti Houti nella guerriglia contro Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Non solo costano poco, ma vengono pagati con uno scambio di “servizi”: la Russia sta assistendo la repressione contro le proteste e le rivolte delle migliaia di uomini e donne della società civile al potere autocratico con “sostegni” e “consigli”, da parte dei Servizi di sicurezza russi, specialisti nelle “tecniche di sorveglianza”, “metodi interrogatori e di gestione delle manifestazioni di piazza”. Si conferma e si intensifica una relazione speciale tra Russia e Iran, le cui prime indelebili tracce furono depositate in Siria, quando nel 2015 Mosca mandò le truppe per puntellare il traballante e sanguinario regime di Bashar Assad, sostenuto da Hezbollah e unità di Pasdaran. Con acume la rivolta della società civile in Iran grida: “Morte all’oppressore, che sia un re o un leader supremo”» (cfr. M. Molinari, cit. sopra).
«Da Mahsa agli ayatollah, ora in Iran la protesta minaccia il regime»
Vali Nasr, docente alla Johns Hopkins (istituto universitario privato di Baltimora nel Maryland-USA), afferma: «La protesta è diventata persistente e si è allargata: dalle ragazze che si toglievano il velo alla squadra di calcio che non canta l’inno; da poche piazze a molte città; dalla richiesta di lasciare in pace il corpo delle donne, alla libertà della persona, ai diritti. Adesso si inneggia alla morte della dittatura. Quindi il bersaglio, ora, è il regime. La repressione è stata sanguinosa anche nel Baluchistan (vasta regione dell'Asia sud-occidentale, politicamente suddivisa tra Iran, Afghanistan e Pakistan), dove oltre cento persone sono state uccise in un solo giorno, negli scontri dopo la preghiera del Venerdì dei Sunniti locali. Quindi la protesta ha acquistato una dimensione etnica, che rende il governo incapace di fermarla. La frustrazione nella società è ampia. Masha ha rappresentato il “momento George Floyd” dell’Iran: dove la morte di una ragazza, mentre era detenuta per una questione frivola come il velo messo male, ha scatenato la rabbia non solo delle donne laiche, ma di molte famiglie vicine al regime. Siamo di fronte ad una profonda disconnessione tra le nuove generazioni e il governo cosiddetto rivoluzionario. I giovani, non solo i teenager, parlano il linguaggio dei diritti universali, mentre il regime usa ancora quello terzomondista degli anni settanta. Sono differenze profonde e reali. L’approccio degli USA (e, in generale, dell’occidente) deve cambiare. Gli aiuti agli armenti missilistici e droni alla Russia è una realtà geopolitica; serve un piano B del mondo euro-atlantico per affrontarlo, perché non c’è certezza che la protesta -quantunque eroica e permanente – riesca a rovesciare il regime» (estratti da intervista a La Repubblica, 23 novembre 2022).
Ormai non si tratta soltanto del rifiuto di una teocrazia auto-legittimata dal suo stesso gruppo di Potere, ma della lotta per la Democrazia, che si colloca nell’ampio conflitto geopolitico mondiale tra autocrazie e democrazie. Il nuovo ordine internazionale non pioverà dal cielo; sarà il risultato anche di questo conflitto, sarà il frutto delle forze positive, delle lotte per la Democrazia e per la Libertà.