1. È l’8 marzo 1979, le donne iraniane si trovano nelle strade di Teheran e delle principali città, manifestando per un diritto fondamentale: la libertà di scegliere come vestirsi, contro alcune voci che stavano presagendo l’introduzione dell’obbligatorietà del velo in tutti i luoghi pubblici.
Con la diffusione delle proteste, le autorità religiose moderate, inclusi l'Ayatollah Taleghani e l'Ayatollah Mahalati, intervennero, considerando inammissibile qualsiasi coercizione e violenza in materia di hijab. In seguito, la procura di Teheran annunciò in una dichiarazione che chiunque avesse disturbato le donne sarebbe stato severamente punito. Ma il discorso sul velo obbligatorio non finì, entrando al centro dell’attenzione e delle discussioni durante la rivoluzione culturale e l’islamizzazione del paese (1980-1982), nonché durante l’invasione dell’Iraq e la guerra tra Iran e Iraq (1980-1989).
Nonostante la resistenza di tante donne e il sostegno di intellettuali e attivisti, pochi anni dopo, nel 1984, l’Assemblea consultiva islamica (Parlamento) dell'Iran approvò la legge penale islamica che sancì, per chiunque non avesse indossato l'hijab nelle strade e nei luoghi pubblici, una condanna a 72 frustate.
Una condanna che successivamente si è evoluta anche in altre modalità, assumendo forma di multa, di detenzione per brevi periodi o, più recentemente, di lezioni di ri-educazione.
Tutto questo viene organizzato da un organo che si chiama Amr-e be Ma’ruf va Nahi az Monkar – letteralmente «Unendo ciò che è giusto e vietando ciò che è sbagliato», un’espressione tratta da alcuni versetti del Corano (come la Surah Aal Imran 3:110) – usando la Gasht-e Ershad, la polizia morale “religiosa” che controlla i valori islamici nella società iraniana.
2. È importante menzionare che alcuni anni prima dell’approvazione di questa legge – dal 1979, cioè quattro anni prima che la legge sul velo obbligatorio fosse approvata in Parlamento – per ordine del Ruhollah Khomeini, il leader religioso della rivoluzione iraniana, il Codice penale islamico già impediva alle donne di entrare negli uffici governativi (e poi in quelli privati) senza l'hijab.
Secondo i documenti e gli articoli pubblicati sui giornali del 1979, le prime scintille della disciplina legale dell'hijab furono appiccate nel marzo di quell’anno solo un mese dopo la vittoria della Rivoluzione. Il 16 marzo, ad esempio, il quotidiano Keihan uscì in stampa con il titolo: «Le donne dovrebbero indossare l'hijab negli uffici».
Occorre considerare che nella storia dell’Iran (o della Persia, nome ufficiale fino al 1935) – sia prima dell’arrivo dell’Islam sia dopo l’introduzione dell’Islam come religione di Stato (Islam sciita), durante il periodo Safavidi (1501-1736) – il velo diventò obbligatorio solamente (e per la prima volta) durante la Repubblica Islamica (1979 – ad oggi).
In effetti, negli ultimi cento anni di storia dell’Iran, l’abbigliamento femminile, anche se in termini più ampi, è sempre stato oggetto di attenzione da parte delle istituzioni, tant’è che Reza Shah Pahlavi (1926-1941), fondatore dell’Iran moderno su principi secolari e nazionalisti, impose nel 1936 la legge dello Svelamento Forzato (Kashf-e Hejab), facendo adottare gli abiti occidentali al posto degli abiti tradizionali come strumento di modernizzazione di tutto il paese: in altre parole, un’occidentalizzazione che vedeva nell’Islam uno dei motivi del ritardo dell’Iran nei confronti dei paesi industrializzati e sviluppati.
Nonostante questa legge sia stata successivamente abolita con l’arrivo del successore di Reza Pahlavi, Mohammad Reza Shah (1941-1979) – l’unico periodo, quello del suo regno, durante il quale le donne e gli iraniani in generale furono liberi di scegliere come vestirsi – si guadagnò comunque l’ostilità della fascia religiosa e tradizionale del Paese, con la guida di alcuni leader religiosi come Khomeini. Questa ostilità raggiunse il suo culmine soprattutto quando gli ayatollah e gli esperti religiosi persero il loro potere, non potendo più praticare come giudici e insegnare nelle scuole sotto uno stato laico.
Tanti di loro iniziarono quindi a criticare il vestiario delle donne, le attiviste femministe e le associazioni femminili, che a loro dire mostravano i simboli occidentali in contrasto ad una società islamica. Le loro opinioni si basavano su una lettura restrittiva della Shar’ia (legge religiosa islamica), senza adattarla alle realtà sociali in Iran. Lo stesso approccio che fu poi applicato dopo la Rivoluzione e che è tuttora praticato nell’attuale società iraniana.
3. In tutto questo, sia nel periodo della monarchia Pahlavi sia in quello della Repubblica Islamica, le donne e la loro maniera di abbigliarsi sono state strumentalizzate per gli interessi del governo al potere. In particolare, dopo l’insediamento dello stato islamico – per la prima volta nella storia moderna – il codice sull’abbigliamento è diventato uno strumento fondamentale per dimostrare a tutto il mondo che l’Iran “è uno stato islamico” e che i suoi valori sociali sono lontani dalla monarchia Pahlavi influenzata dall’Occidente.
Dal ‘79 in poi, pertanto, tutte le notizie, le foto e i video che uscivano dal paese o che venivano mostrati dalla stampa e dai media non iraniani confermavano perfettamente che il popolo iraniano seguiva le regole islamiche. L’uso del velo e il codice sull’abbigliamento sono entrati nel tessuto della società, completamente ‘politicizzati’ da parte del regime islamico contro qualsiasi influenza non adatta alle loro ideologie.
Qualsiasi resistenza veniva quindi repressa e interpretata come un simbolo pro-occidente: proprio in questi giorni, Hashemi Golpayegani, Segretario del Personale per Amr-e be Ma’ruf va Nahi az Monkar, in un’intervista ha detto che «attualmente, l'hijab è diventato il punto di confronto dell'arroganza globale con il sistema islamico; il nemico cerca di creare un bipolarismo nella nostra società, che deve essere contrastato, così come spezzata la dittatura dei media e del cyberspazio».
Al di fuori dell’Iran, in tanti altri paesi a maggioranza musulmana, il velo non è obbligatorio ed è visto persino come un semplice abbigliamento che le donne musulmane sono libere di scegliere per vari motivi, religiosi o culturali, in armonia con la società o la comunità che vivono. Nel libro sacro del Corano esistono diversi versetti in cui si parla dell’hijab, e in generale dell’abbigliamento, che trattano quest’ultimo sia in riferimento alle donne sia agli uomini, consigliano di vestirsi in modo modesto e di coprire le parte sessuali, ma non specificano che le donne debbano coprirsi i capelli. In effetti, con l’espansione dell’Islam in diverse parti del mondo, si è reso evidente che la peculiarità dei vestiti tradizionali sia stata forzatamente adattata a questi versetti dell’Islam e della Sunna (tradizione del profeta Mohamed) – in modo estremo come l’Arabia Saudita con l’uso del Niqāb o come il regime Talebano in Afghanistan con l’obbligo del Burqa – anche in ragione dalla tipologia di interpretazione da parte delle autorità religiose, la cosiddetta Shari’a (la legge islamica).
4. In Iran, le donne e le associazioni femminili appoggiarono e parteciparono alla Rivoluzione del ’79, come dimostrazione di solidarietà con gli ideali della Rivoluzione e rifiuto dell’orientamento occidentale del regime di Pahlavi, non immaginando che un giorno avrebbero dovuto cedere all’uso obbligatorio del velo – non più solo simbolo di protesta - per poi ritrovarsi con un governo patriarcale islamico; non immaginando, inoltre, che avrebbero perso gran parte dei diritti acquisiti dal regime precedente grazie alle leggi sulla protezione della famiglia del 1969 e del 1973, che Khomeini annullò dopo due settimane dall'ascesa al potere. Oltre al velo obbligatorio anche tanti altri diritti sono stati tolti: in tribunale due testimonianze di donne sono uguali alla testimonianza di un uomo; le donne ereditano la metà delle loro controparti maschili; le difficoltà e gli ostacoli nell’ottenere la custodia dei figli dopo il divorzio sono enormi, così come nel trasferimento della cittadinanza se si sposano con un cittadino non iraniano; sussiste l’obbligo di chiedere il permesso al marito o al padre per uscire dal paese o per lavorare; è quasi impossibile per una donna diventare giudice. Il valore della vita stessa di una donna è la metà di quello di un uomo.
Il movimento femminile in Iran ha comunque usato qualsiasi occasione per ottenere o modificare i diritti a favore delle donne, tant’è vero che si è riusciti durante questi anni a realizzare alcune riforme legislative e a trovare delle alternative contro le leggi attuali, come il contratto pre-matrimonio che la coppia firma e dove l’uomo accetta tutti i diritti, di base negati, alla donna. Ma in tutto ciò, la legge più severa contro la libertà, quella sul velo obbligatorio, è rimasta ed è stata motivo di arresto di tante attiviste e donne che protestano apertamente nella sfera pubblica del paese, come Vida Movahed, Saba Kord Afshari e sua madre Raheleh Ahmadi. Molteplici campagne online, come No al velo obbligatorio, sono attive da diversi anni, riuscendo, con l’uso dei social media, a far sentire la loro voce anche al di fuori dei confini iraniani.
Malgrado le richieste e il cambiamento sociale – considerando che l’Iran è un paese con una popolazione giovane e un’età media di 32 anni, con quasi il 75 per cento della popolazione che vive nell’area metropolitana, considerando anche il raddoppio della popolazione e le quattro generazioni che sono nate e cresciute dopo la Rivoluzione (che non hanno partecipato al referendum del 1979 con il 98% dei sì alla Repubblica Islamica) – ancora oggi le autorità iraniane non prendono in considerazione una riforma fondamentale e necessaria alla situazione attuale dell’Iran.
5. La reazione all’intolleranza da parte del popolo iraniano, e soprattutto delle donne, si è vista con l’uccisione della giovane ragazza Mahsa Amini, arrestata e posta sotto custodia della polizia morale perché portava il velo in maniera inappropriata, un evento tragico che ha causato lo scoppio delle manifestazioni in diverse città, a partire dal funerale della ragazza nella sua città natale, Saqqez. Le donne sono scese in piazza protestando, bruciando le loro sciarpe e tagliando i loro capelli, un’azione che ha generato la solidarietà di milioni di persone a prescindere da età, sesso, etnia o religione.
Facendo un passo indietro per comprendere meglio la natura di queste proteste, bisogna ricordare che gli iraniani, da diversi decenni, protestano per vari motivi: nel 1999 iniziarono gli studenti dell’Università di Teheran per la libertà di espressione; nel 2009, per i risultati delle elezioni presidenziali e la discussa vittoria di Ahmadinejad del gruppo conservatore (considerata, questa, la prima protesta di massa dopo il ‘79 per la libertà di espressione e diritti civili); nel 2019, per la situazione della crisi economica causata dalle sanzioni internazionali imposte, in particolare, dall’occidente e dagli Stati Uniti; nel 2020, per la caduta del volo 752, abbattuto dalla milizia iraniana per errore; nel 2021, per la corruzione e per la carenza di strutture.
Dall’altra parte, la perdita di speranza per una riforma, il boicottaggio delle elezioni presidenziali del 2021 –con la vittoria di Ebrahim Ra’isi, candidato ultra conservatore –, l’isolamento dell’Iran per i diritti umani e le sanzioni economiche, l’aumento della microcriminalità e dell’uso della droga, le fratture di classe e la disuguaglianza sociale, la disoccupazione e l’irresponsabilità dell’establishment iraniano, sono stati tutti fattori sottesi alle proteste in corso in questi giorni.
Nonostante nella Costituzione iraniana l’articolo 27 permetta di organizzare le manifestazioni che non siano contro i principi islamici, mai è stato possibile ottenere il permesso per organizzarne una. Il governo islamico, superficialmente, interpreta tutte queste ragioni per protestare e manifestare come una critica al sistema islamico, dando la colpa ai propri nemici (Occidente, Stati Uniti e Israele), e considerando i manifestanti come rivoltosi contro i principi della Rivoluzione islamica. Di conseguenza, tutte le richieste per organizzare manifestazioni da parte degli organi della società civile e dei partiti politici o vengono negate o rimangono senza risposta, tant’è che, non avendo la possibilità di manifestare per i singoli motivi, i manifestanti sono passati all’uso diretto di slogan come «no allo stato islamico» e «no al sistema di Velaya-te Faqih (supremo leader assoluto “politico e religioso”)», «no al dittatore”, «sì ad un Iran libero e democratico, sì ad un referendum popolare».
6. Certamente, nel tessuto sociale iraniano le donne sono state quelle che maggiormente hanno subito la sofferenza: sebbene, a livello lavorativo, il loro contributo sia fondamentale e occupino più del 50% dei posti nelle università – nonostante il regolamento discriminatorio delle “Quote Azzurre” applicato dal tempo di Ahmadinejad – e sebbene possano partecipare attivamente alla politica, mancano di diversi diritti primari e fondamentali e hanno difficoltà ad essere elette in posizioni di decision-maker. SI viene così a creare venendosi a creare un’atmosfera sfavorevole e di confusione.
Come già anticipato sopra, si possono menzionare ancora altri diritti negati, come appunto la libertà di scegliere di usare il velo, di cantare da soli e non per forza in gruppo, di usare la bicicletta o avere la patente per guidare la moto, di avere il permesso per andare allo stadio a vedere una partita di calcio.
Quest’ultimo diritto negato, in particolare, ha causato il suicidio della giovane ragazza Sahar Khodayari, famosa con il soprannome di Dokhtar-e Abi, “Ragazza Blu”, che manifestava contro il divieto alle donne di andare allo stadio. Alla fine, con la spinta e le minacce della FIFA, le donne sono riuscite ad ottenere l’ingresso negli stadi per vedere alcune partite. Tutti questi piccoli diritti sociali negati alle donne da uno stato patriarcale si pongono in contrasto con la società progressista e attuale iraniana che è molto più aperta e avanzata rispetto alle regole esistenti. È sufficiente vedere il sostegno degli uomini alle donne nelle diverse proteste – in particolare quest’ultime con lo slogan «Donna, Vita, Libertà» – che comprendono e hanno unito tutte le richieste degli iraniani contro le regole in contrasto alla società.
Il supremo leader dello stato islamico Ali Khamenei (1989 – ad oggi) non ha espresso minimamente rispetto sull’uccisione della ragazza e sulle proteste in corso. Il Presidente Ebrahim Raisi in un comunicato stampa ha detto solo che bisogna risolvere il problema usando qualsiasi mezzo, ma senza toccare i valori già esistenti. L’organizzazione di Amr-e be Ma’ruf va Nahi az Monkar ha pubblicato invece nel suo sito che «la visione di questo problema debba essere cambiata e che sia un crimine dissacrare e arrestare e aprire un caso e portare le persone in tribunale, il che provoca solo tensioni sociali e occasioni per il nemico, serve riformare le leggi e affrontare il fenomeno dell'oscenità come una violazione». E ancora, «di fronte a questo problema, la polizia non dovrebbe entrare direttamente in scena, né il problema dovrebbe essere affidato ai tribunali giudiziari, né il potere esecutivo dovrebbe assumersi la responsabilità di questo problema; la questione della castità e dell'hijab può essere risolta solo lasciando il lavoro nelle mani delle persone e conferendo specifici poteri legali e progettuali, che si risolvano in una corretta gestione». Inoltre, le autorità iraniane, come tante altre volte, hanno organizzato delle manifestazioni pro-governative usando le loro organizzazioni religiose per un'altra propaganda governativa.
7. L’uso dei social media come Twitter, Instagram, Facebook e TikTok, al contempo, ha contributo tantissimo ad espandere la voce delle persone oppresse e la denuncia delle violenze contro i diritti umani in Iran, nonostante l’accesso ad internet sia stato bloccato per la maggior parte del tempo.
Sono stati arrestati giornalisti, attivisti, studenti, politici e manifestanti, per controllare le proteste. Ma questa volta le proteste pro-donne sono riuscite a resistere, non soltanto all’interno ma persino in tanti altri paesi del mondo, coinvolgendo la diaspora iraniana, tra cui persone di fama mondiale e politici stranieri a sostegno di questa manifestazione e all’organizzazione delle manifestazioni nelle loro città. Una protesta di natura femminile che ha coinvolto anche altre donne in tutto il mondo, soprattutto nei paesi vicini all’Iran, con la solidarietà delle donne in Turchia, Iraq, Siria e Afghanistan. Come per le proteste del Movimento Verde del 2009, anche questa volta gli iraniani sono riusciti a dare un messaggio forte al governo e a tutto il mondo perché non ci si schieri più a favore di queste leggi discriminatorie, in particolare contro le donne, chiedendo un governo giusto e un referendum, sebbene non contro la religione islamica in sé, ma contro il fondamentalismo religioso strumentalizzato a fini di potere politico e per la libertà di espressione. Una richiesta di sostegno sociale, umano, su una questione nazionale, che non necessita di un intervento esterno dal resto del mondo, ma della solidarietà e del supporto di chi crede negli stessi diritti.
Esiste questa volta un’armonia molto forte e unita tra i manifestanti, sia tra quelli all’interno che tra quelli al di fuori dell’Iran, senza nessun leader specifico: una protesta nata dal basso tra i giovani dell’attuale generazione con l’appoggio delle generazioni precedenti. Ora il motivo delle proteste in Iran sotto lo slogan di «Donna, Vita, Libertà» ha un maggiore significato e richiede diritti fondamentali e giustizia per un cittadino, in un Paese ricco non solo per le risorse naturali ma anche per la sua cultura, tradizione e storia, in sofferenza totale da decenni.
In questo breve articolo non si potranno comprendere tutti i dettagli di una società complessa come l’Iran, ma si può dare una lettura più profonda sulle motivazioni delle proteste, con la centralità delle rivendicazioni delle donne in Iran.
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