Magistratura democratica
Magistratura e società

Portella della Ginestra, la strage modello

di Giuseppe Di Lello
già giudice istruttore del Tribunale di Palermo
Primo Maggio 1947, a Piana degli Albanesi, nei pressi di Palermo, durante la Festa del Lavoro, sui manifestanti si abbatte una pioggia di proiettili. Undici persone rimangono uccise. Ventisette i feriti. È il primo grande eccidio dell'Italia repubblicana

Per comprendere la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 bisogna ricordare qualche antefatto. La Sicilia del dopoguerra è in preda ad una euforia separatista abbastanza trasversale. La ribellione è armata e organizzata con ben due eserciti: l’Evis (Esercito volontari per l’indipendenza siciliana), guidato dal bandito Giuliano, opera nella Sicilia occidentale, e il Gris (Gioventù rivoluzionaria per l’indipendenza della Sicilia), guidato da Concetto Gallo e dal duca di Carcaci, opera nella Sicilia orientale.

Nel frattempo i grandi partiti tradizionali Dc, Pci e Psi  tutti fortemente centralisti, hanno vanificato il separatismo e così, le classi dominanti dell’Isola sposano la più blanda forma dell’autonomia regionale che ottengono con la nuova Costituzione.

Nel referendum costituzionale del 2 giugno in Sicilia, vince la monarchia con 1.292.000 voti contro i 705.949 voti per la repubblica. Nelle contemporanee elezioni per l’assemblea costituente, la Dc raccoglie 643.000 voti, il Pci 150.000 e i socialisti 234.000. Il 20 aprile dell’anno seguente i siciliani eleggono il primo parlamento regionale e questa volta la sinistra unita nel “Blocco del popolo” ottiene un clamoroso successo con quasi 600.000 voti mentre la Dc, in netto calo, ne ottiene circa 400.000.

Bisogna arginare la spinta a sinistra e, in particolar modo, le lotte contadine per l’applicazione della riforma agraria e così, tra il ’45 e il ’48, inizia la spaventosa mattanza di sindacalisti, capilega, segretari e militanti dei partiti di sinistra, utilizzando la mafia e anche spezzoni degli eserciti “ribelli”, Salvatore Giuliano e la sua banda in testa.

In questa azione di contrasto portata avanti dagli agrari, dalla mafia, dalla destra e dai partiti del centro, si inserisce la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, determinante per una “stabilizzazione” del quadro sociopolitico non solo dell’Isola, ma anche del Paese.

La magistratura, ben inserita in quel blocco di potere agrario e mafioso, gioca un suo ruolo determinante. Tutti i processi per i crimini perpetrati dagli eserciti dell’Evis e del Gris vengono spacchettati e celebrati nei vari tribunali competenti per territorio (corsi e ricorsi delle storie giudiziarie) e i capi vengono tutti o amnistiati o assolti con motivazioni a volte esilaranti: se la cava così anche Concetto Gallo capo del Gris, mentre il duca di Carcaci e tanti altri rampolli delle potenti “nobili” famiglie implicati negli eccidi non vengono nemmeno inquisiti.

La stessa magistratura, ovvero la Corte d’assise di Viterbo, delegata per legittima suspicione a celebrare il processo alla banda Giuliano per i fatti di Portella, farà di tutto per sminuire il valore politico di quella strage, relegandola a semplice episodio criminale, così come suggerito nella immediatezza del fatto dal ministro dell’interno Scelba. «Episodio circoscritto e senza un movente politico», dichiarerà. Detto per inciso, è curioso notare come la sinistra e valenti storici del calibro di Filippo Gaja abbiano dato sempre giudizi positivi su questa sentenza.

Veniamo dunque alla sentenza che ricostruisce con cura il fatto storico, ma ne trae conclusioni contrarie ad ogni logica.

Nel ‘47, caduto il fascismo, i contadini di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, tornano a celebrare il 1° maggio con una scampagnata e il comizio a Portella della Ginestra. In quella valle e per quella festa per molti anni hanno ascoltato le parole di Nicola Barbato, che per il carisma ha dato il suo nome al podio riservato agli oratori. Si accinge a parlare il calzolaio Giacomo Schirò, segretario del partito socialista di San Giuseppe Jato. Si sentono i primi “botti” che molti scambiano per mortaretti augurali, ma sbagliano perché sono i colpi di granate, mitra e fucili che i banditi di Giuliano scaricano sulla folla accalcata sotto il podio. Muoiono 11 persone tra le quali Giovanni Grifò (dodici anni) e Lorenzo Di Maggio (sette anni), mentre i feriti saranno 27.

All’elenco dei morti si deve aggiungere quello di Emanuele Busellini, un campiere del luogo che la banda, in perlustrazione della zona, aveva sequestrato insieme ad altri quattro cacciatori di Piana degli Albanesi. Compiuta la strage, i quattro verranno rilasciati, mentre Busellini, trovato in possesso di un biglietto dei carabinieri che lo invitavano in caserma, verrà ucciso e buttato in un pozzo.

Giuliano (latitante fino al suo omicidio per mano del cugino Gaspare Pisciotta) con due memoriali spiega la sua linea difensiva: la strage innanzitutto non aveva nessun mandante e nessuna matrice politica e poi era stata determinata da un errore di tiro da parte di un suo accolito (Passatempo) che, invece di mirare in alto come avevano fatto tutti gli altri, e al solo scopo intimidatorio, aveva sparato in basso contro la folla. Il piano, infatti, era quello di accerchiare i manifestanti, processare pubblicamente i “caporioni” e andare via. Dopo gli spari avevano osservato il fuggi fuggi e se ne erano andati convinti di aver realizzato almeno in parte quanto si erano proposti di fare: con grande stupore, la mattina dopo avevano letto sui giornali di tutti quei morti e, così, avevano scoperto anche l’errore di Passatempo!

La Corte, con una accorta concatenazione di paradossali stravolgimenti dei fatti, spiega che non c’era bisogno di cercare il movente in quanto erano certi gli autori del reato; che Giuliano non aveva motivazioni politiche; che, infine, l’evento stesso, per la eterogeneità dei partecipanti, aveva una valenza conviviale senza implicazioni politiche.

Quanto alla causale, era pacifico che Giuliano, pochi giorni prima della strage e proprio in prossimità del 1° maggio, aveva ricevuto una lettera recapitatagli dal cognato Sciortino. Letta la missiva da solo, senza rivelarne il contenuto a nessuno, l’aveva subito bruciata, annunciando però che «era venuta la nostra ora di liberazione» e che sarebbero dovuti andare a sparare ai contadini a Portella. La corte, pur legando inevitabilmente la lettera alla strage, vede nella stessa solo una specie di “assicurazione” sulla data e il luogo del raduno, senza che ciò potesse implicare una forma di “compartecipazione al delitto”. Comunque... «Ed è necessario porre una limitazione alla ricerca della causale: questa può essere ricercata soltanto in Giuliano, poiché fu in costui che sorse la idea criminosa di agire, sia a Portella della Ginestra, sia contro le sedi del partito comunista di vari paesi della provincia di Palermo; idea criminosa cui prestarono la loro piena adesione coloro che componevano la banda per il vincolo che legava essi a chi era il capo dell’organizzazione criminosa».

E poi, era proprio sicuro che a Portella il 1° maggio ci fosse una manifestazione politica? «A dare colorazione politica non basta che un delitto comune sia consumato contro uno o più appartenenti ad un partito politico. Già non può dirsi che tutti coloro che parteciparono alla riunione di Portella della Ginestra per la celebrazione del giorno destinato alla festa del lavoro fossero appartenenti ad un partito o ad un determinato partito politico, se appartenenti ad un partito politico possono dirsi i più di coloro che si recarono in quel luogo, non può dirsi che tutti partecipavano alla vita politica. Certamente non vi partecipavano i bambini e i ragazzi che pure erano accorsi in non piccolo numero, a Portella della Ginestra; più che una riunione avente un netto carattere politico, può dirsi si trattasse di una festa campestre a cui prendevano parte tutti, senza badare al colore politico».

Un atto criminale compiuto senza mandanti e senza motivazioni politiche contro contadini in gita campestre, proprio secondo la felice intuizione del ministro Scelba, puntualmente avallata dalla corte d’assise di Viterbo: settant’anni or sono un modello di strage e relativa impunità politica agli albori della Repubblica, pronto per essere replicato nei successivi decenni in funzione della stabilità del potere.

*In copertina, un fotogramma tratto da Salvatore Giuliano di Francesco Rosi (1962)

01/05/2017
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