1. Uno sguardo al passato della cooperazione internazionale allo sviluppo: cosa ci insegna?
Oggi, ancora in piena pandemia, le agenzie nazionali ed internazionali che orientano e canalizzano i fondi della cooperazione internazionale allo sviluppo si pongono interrogativi nuovi e pressanti, per rispondere ai quali è necessario avviare una riflessione tanto ampia quanto urgente.
Definire cosa sia esattamente la “cooperazione internazionale allo sviluppo” non è facile né immediato. Le prime pietre per la costruzione di un processo armonizzato di sviluppo mondiale vengono poste già prima della fine della II Guerra Mondiale, con gli accordi di Bretton Woods nel 1944 in vista della ricostruzione post-bellica. A seguito di quegli accordi vengono creati il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, pilastri - ancora attuali - della stabilità monetaria mondiale a trazione americana e del finanziamento a lungo termine delle grandi opere pubbliche del dopoguerra. Nel 1945 nascono le Nazioni Unite che, tramite le proprie agenzie tecniche specializzate (FAO, UNESCO, OMS, UNICEF, ecc.) accompagneranno i processi di decolonizzazione e sviluppo a partire dall’inizio degli anni ’50. Lo stesso Piano Marshall (ufficialmente: European Recovery Program, ERP) può essere considerato il primo grande intervento di cooperazione allo sviluppo della storia contemporanea: un flusso di 12 miliardi di dollari (equivalenti a circa 130 miliardi di dollari attuali) che, a partire dal 1948, furono trasferiti - a fondo perduto e sotto forma di beni strumentali e materiali di base per la produzione - dal governo degli Stati Uniti ai paesi europei, sia vincitori (Gran Bretagna, Francia) che vinti (Italia, Germania, Austria), per la ricostruzione ed il rilancio delle loro economie.
Oggi l’attività di cooperazione internazionale allo sviluppo è a tutti gli effetti uno strumento della politica e della diplomazia internazionale: contribuisce alla promozione e al sostegno di alleanze strategiche, al cambiamento o al consolidamento di assetti geopolitici, alla creazione di partnership commerciali. L’Unione Europea, per esplicito mandato della sua carta fondativa del 1992 poi modificata dal Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009, attraverso l’attività di cooperazione internazionale promuove la democrazia, il rispetto dei diritti umani, lo stato di diritto e la sostenibilità ambientale dei sistemi economici dei paesi partner.
Oggi gli attori coinvolti nelle politiche di sviluppo sono numerosi e diversificati: entità internazionali (Nazioni Unite, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, ecc.), nazionali (Stati sovrani), sovranazionali (Unione Europea), locali (Enti pubblici, Province e Comuni), organizzazioni non governative (ONG), ed altri soggetti come Università, fondazioni, banche e imprese.
Negli ultimi decenni la cooperazione allo sviluppo, tanto nelle sue finalità come nelle sue modalità d’intervento, di finanziamento e di spesa, è stata oggetto tanto di apprezzamento come di critiche molto aspre: è stata indicata come uno strumento di dominio del Primo Mondo sul Terzo (Immanuel Wallerstein, The modern world-system, 1974) o addirittura come un puro spreco di risorse in quanto avvantaggerebbe più i donanti che i beneficiari (Peter T. Bauer, From Subsistence to Exchange, 2000). C’è anche chi ne ha raccontato i torbidi retroscena con uno stile narrativo degno di un intrigo internazionale (John Perkins, Confessions of an Economic Hit Man, 2004) o chi propone modelli di aiuto completamente diversi come Dambisa Moyo, economista zambiana, in Dead Aid: Why Aid Is Not Working and How There Is a Better Way for Africa, del 2009, un best-seller del New York Times.
Non c’è dubbio che anche la cooperazione allo sviluppo, come gran parte dei fatti umani, comporti luci ed ombre e che separare le une dalle altre sia assai difficile, se non impossibile. E’ inevitabile infatti che la valutazione dei suoi aspetti positivi e negativi possa essere diversa, se non diametralmente opposta, a seconda della visione ideologico-politica che la guida e dei presupposti politico-economici e strategici dei paesi donatori, ma anche dei paesi beneficiari.
Attraverso l’attività di cooperazione internazionale allo sviluppo si sono sempre, inevitabilmente, veicolati modelli economici, sociali e culturali diversi ed a volte in conflitto tra di loro, a seconda del momento storico, delle forze economiche e politiche prevalenti e dell’idea stessa di “sviluppo” che queste promuovevano.
Semplificando, si è così passati dalla realizzazione di grandi opere infrastrutturali degli anni ’60 e ’70 con finanziamenti a lungo termine in valuta pregiata (ad es.: strade e grandi dighe per la produzione di energia elettrica e l’irrigazione che avrebbero dovuto proiettare nella modernità i paesi appena usciti dal periodo coloniale) alla universalizzazione dell’alfabetizzazione di massa; dai microprogetti paternalistico-assistenzialisti “a dono” a cavallo tra anni ’70 e ‘80, alle misure di mitigazione dei pesantissimi interventi di aggiustamento strutturale imposti dalle autorità monetarie internazionali (le prime malfamate troike) alla fine degli anni ’80 e per buona parte degli anni ‘90; dai progetti di sviluppo territoriale con “approccio partecipativo” per il rilancio dell’agricoltura familiare sostenibile, agli interventi finanziari di “budget support” dalla fine degli anni ’90 fino ad oggi; dai finanziamenti a tasso agevolato di supporto alle politiche di lotta al cambiamento climatico e contenimento delle emissioni di carbonio, ai prestiti agevolati garantiti da risorse naturali nazionali (minerali, legname, ecc.) in cambio della sostanziale appropriazione di terre (“land grabbing”) e risorse del sottosuolo da parte delle banche d’affari e dei fondi sovrani cinesi negli ultimi anni.
Le stesse fonti di finanziamento si sono distinte per visione e approccio allo sviluppo, in alcuni casi molto distanti tra loro. Valgano alcuni esempi. L’approccio praticato dalla Banca Mondiale e dalle agenzie partner come la Banca Africana per lo Sviluppo e la Banca Asiatica per lo Sviluppo, ha generalmente privilegiato una visione “macro”, strutturale, anche nella scelta delle priorità settoriali d’intervento (grandi opere di ingegneria idraulica e nel settore dei trasporti, impianti industriali ed agro-industriali, ecc.). L’Agenzia USA per l’Aiuto allo Sviluppo (USAID) ha spesso favorito interventi “business-oriented”, attribuendo fiducia alle dinamiche del mercato come motore prioritario dello sviluppo economico e mettendo spesso in secondo piano l’intervento di rafforzamento delle istituzioni pubbliche nazionali e locali. Le Nazioni Unite, attraverso le varie agenzie tecniche, hanno sistematicamente agito a sostegno delle politiche settoriali nazionali e della loro applicazione sul territorio, fornendo un forum neutrale per il colloquio e lo scambio di metodologie e tecnologie tra paesi e regioni. L’approccio dell’Unione Europea è stato tradizionalmente orientato al multilateralismo, al regionalismo, alla promozione del dialogo politico coi paesi partner. Quello delle singole cooperazioni bilaterali governative (francese, inglese, spagnola, italiana, ecc.) si sono attivate di preferenza nei settori collegati all’interscambio commerciale ed alle strategie di presenza politico-economica nelle regioni di tradizionale influenza, quasi sempre coincidenti con le ex colonie. Quello di molte ONLUS si è incentrato su azioni indipendenti di sviluppo territoriale, spesso scollegate dal contesto delle politiche e strategie nazionali dei paesi interessati.
2. Il presente della cooperazione internazionale allo sviluppo: già obsoleto?
Da qualche anno l’intenso lavoro coordinato dalle Nazioni Unite ha condotto all’elaborazione di un’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile con i suoi 17 Sustainable Development Goals (SDGs), che è stata sottoscritta nel 2015 dai governi dei 193 paesi membri con l’Accordo di Parigi (accordo da cui gli USA di Trump sono poi usciti).
Questa Agenda 2030 non riguarda solo i paesi più poveri e svantaggiati, ma tutti i paesi del pianeta, nella consapevolezza, finalmente comune, che a problemi globali vanno date risposte globali e che le diseguaglianze sociali e le conseguenze del cambiamento climatico sono trasversali a tutte le società e a tutte aree del mondo. I suoi 17 Obiettivi (SDGs) vanno dalla lotta alla povertà all’accesso all’innovazione tecnologica, dalla tutela delle principali risorse ambientali - come l’acqua - all’equità di genere, dall’accesso all’educazione alla vivibilità dei centri urbani. L’idea di “sostenibilità dello sviluppo” che sta dietro gli SDGs è dunque al tempo stesso ambientale, sociale ed economica: non c’è futuro senza un uso appropriato delle risorse, senza un approccio comune, integrato e multi-disciplinare né senza equità.
Nelle settimane recenti, la crisi pandemica ancora in corso ha del resto fatto emergere chiaramente l’alta probabilità di collegamenti diretti tra l’origine e diffusione delle stesse epidemie/pandemie e gli squilibri ambientali che l’inarrestabile processo di antropizzazione del pianeta sta provocando, riducendo sempre più, tra l’altro, le distanze di rispetto tra aree abitate ed ecosistemi naturali ancora in equilibrio.
Il prepotente processo di indiscriminata urbanizzazione su scala mondiale (siamo ormai vicini al 60% della popolazione totale), il continuo utilizzo di energie fossili inquinanti anche nei paesi più virtuosamente “verdi”, l’inarrestabile aumento dei consumi individuali e collettivi - in particolare di energia e carne - la prevista drastica riduzione di posti lavoro legata alle nuove tecnologie, sono tutti percorsi che incrociano l’attuale crisi sanitaria e le sue pesanti ricadute economiche, finanziarie e sociali in ogni paese.
La pandemia sta dunque mettendo tragicamente in luce la fragilità dei nostri modelli di sviluppo. Le aree ad essere colpite per prime e più duramente sono state proprio le più avanzate del pianeta: se si osserva la mappa mondiale del contagio si vede chiaramente che la pandemia – almeno nella sua fase iniziale - ha percorso con maggiore intensità proprio i più importanti corridoi economici del Nord del mondo.
Alla luce di quanto sta accadendo, saranno sufficienti gli SDGs a ridefinire un nuovo modello di sviluppo? Quale modello di sviluppo dovrebbe dunque promuovere la cooperazione internazionale (almeno quella italiana ed europea) nel mondo post-virus? Quale orientamento dare all’azione di stimolo allo sviluppo socio-economico dei paesi più in difficoltà? Come mitigare l’impatto del cambiamento climatico nella fase post-virus, non solo a seguito dell’impatto globale, nazionale e locale della pandemia, ma anche alla luce delle trasformazioni geopolitiche ed economiche che erano già in corso nel recente passato?
Un precedente storico che, seppure a scala regionale, può richiamare l’attuale crisi globale lo troviamo forse in ciò che avvenne a seguito dell’uragano Mitch che, alla fine del 1998, devastò i paesi di tutto il Centroamerica. In quella circostanza, la comunità internazionale dei donanti ed i rappresentati dei governi dei paesi colpiti si riunirono urgentemente a Washington e successivamente a Stoccolma, trovando pieno accordo sulla necessità di cogliere l’opportunità della tragedia per realizzare una ricostruzione che fosse anche motore di trasformazione. In estrema sintesi, le principali finalità della ricostruzione furono: (1) ridurre la vulnerabilità sociale ed ambientale della regione centroamericana, (2) incidere sul buon governo dei paesi della regione, consolidando la democrazia e la partecipazione della società civile, (3) promuovere il rispetto dei diritti umani, l’equità di genere, i diritti dei minori e dei gruppi etnici minoritari, (4) coordinare ed allineare gli sforzi internazionali alle priorità dei paesi colpiti e (5) ridurre il fardello del loro debito estero. Gli aiuti arrivarono ma i programmi di ricostruzione non furono tempestivi. Si protrassero per almeno dieci anni e non furono abbastanza incisivi da indirizzare davvero quei paesi verso le trasformazioni strutturali desiderate.
3. Il futuro prossimo della cooperazione internazionale allo sviluppo: alcune domande strategiche
Oggi, vent’anni dopo l’uragano Mitch, si tratta dunque per noi di modulare e trasferire quelle stesse finalità su scala globale, imparando allo stesso tempo dalle lezioni positive e negative apprese in Centroamerica? Sarà possibile raggiungere a livello planetario quegli obiettivi che a livello regionale non si sono ottenuti?
Dobbiamo intanto riconoscere che l’epidemia ha messo in evidenza la rilevanza strategica della sovranità sanitaria, intesa come autonomia nazionale e controllo sui presidi sanitari, i farmaci, le attrezzature, la formazione del personale, ma anche della sovranità alimentare (autonomia e controllo nazionale delle risorse alimentari) e della sovranità energetica. Dovranno essere queste alcune delle nuove priorità dell’azione della cooperazione internazionale?
È assai probabile che a breve termine una porzione cospicua degli aiuti internazionali venga dirottata verso gli interventi umanitari di emergenza e il supporto ai servizi sanitari pubblici. In parallelo, è possibile che le autorità monetarie ed i fondi internazionali siano chiamati ad intervenire anche per mitigare gli squilibri macroeconomici che inevitabilmente la crisi pandemica sta generando nei paesi già gravati da un debito estero elevato. La polarizzazione dell’aiuto internazionale sulle emergenze generate dalla pandemia potrebbe dunque sottrarre risorse importanti agli interventi diretti ad incidere su quei problemi strutturali (istituzionali, ambientali, sociali ed economici) che tradizionalmente affliggono i paesi a basso reddito. Sarà così? Si riuscirà a conciliare emergenza, ricostruzione e sviluppo dopo la tempesta perfetta della pandemia? E se sì, con quale modello di sviluppo, essendo quello neo-liberale, della crescita infinita in un mondo di risorse finite, già fortemente in crisi?
Al di là delle realistiche ipotesi appena suggerite, il miglior contributo che si può dare mentre la pandemia è ancora in piena evoluzione e in assenza di un nuovo modello di sviluppo sociale, economico ed ambientale, è forse quello di formulare buone domande piuttosto che pretendere di avere già delle risposte. Eccone alcune:
a) Sul piano metodologico: quali modalità e criteri dovrebbero essere adottati nella ridefinizione delle priorità di intervento? Quali approcci, metodologie e tecniche utilizzare ai vari livelli per favorire la sempre più evidente necessità di una visione e di un approccio interdisciplinare e intersettoriale? Quali modalità e meccanismi di finanziamento saranno più appropriati? Quali soggetti istituzionali e non istituzionali saranno più indicati per la gestione delle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo: le solite agenzie multilaterali, le cooperazioni bilaterali dei singoli paesi, le ONG nazionali ed internazionali?
b) Sul piano dei meccanismi di finanziamento: il processo di ricostruzione/trasformazione non sarà finanziariamente sostenibile senza un coinvolgimento strategico del capitale privato (come già da tempo si auspica da parte della Unione Europea e si pratica, ad esempio, da parte della cooperazione tedesca). Che ruolo potranno e dovranno svolgere le grandi imprese transnazionali nell’azione di ricostruzione/trasformazione? Saranno queste capaci di allinearsi senza contropartita ai criteri di trasparenza, promozione dei diritti umani e sostenibilità ambientale, come auspicato 20 anni fa in occasione della ricostruzione del Centroamerica e già chiaramente indicati dall’Agenda 2030 e dai suoi Obiettivi (SDGs)? Quali sinergie dovrebbero essere attivate tra l’azione della cooperazione pubblica allo sviluppo, la finanza, l’impresa, la ricerca? Un player globale come la Cina potrà allinearsi a criteri di intervento e modalità di azione definiti e controllati da organismi di coordinamento politico multilaterali, come le Nazioni Unite o da altri nuovi tavoli di concertazione, ancora tutti da inventare?
c) Sul piano dei settori prioritari di intervento: l’epidemia ha messo in evidenza la probabile relazione causa-effetto tra degrado ambientale e mutazione/trasmigrazione dei virus ed ha indicato nell’inquinamento atmosferico un possibile fattore facilitante della diffusione del virus. La protezione e il distanziamento delle aree con ecosistemi ancora in equilibrio naturale dovrà essere una delle nuove priorità dell’azione della cooperazione internazionale?
E più importante ancora: al di là del probabile collegamento tra crisi climatica e virus, la quasi totalità degli studi ambientali prevedono scenari a medio/lungo termine ad altissimo rischio (se non catastrofici) e molti studi economici prevedono crescente disoccupazione e povertà. Come sostenere il percorso verso un’economia sostenibile davanti all’urgenza di far ripartire i sistemi produttivi dei paesi a più basso reddito ancora fortemente vincolati a tecnologie inquinanti e finalizzati al soddisfacimento di una domanda di consumi di massa già oggi in diminuzione?
Insomma, il mondo sta cambiando, in fretta, ma non sappiamo ancora come, quando e in che direzione. Sappiamo che avremmo bisogno di riparare agli errori commessi e di riorientare i processi in corso se vogliamo disegnare un diverso modello di sviluppo adattato ai tempi. Sappiamo anche che sfide globali richiedono risposte globali. E che per il momento non siamo ancora sulla strada del dialogo e della collaborazione internazionale.
Sul Financial Times del 20 marzo scorso (The world after coronavirus) Yuval Noah Harari ha scritto: «La (…) scelta importante che affrontiamo (oggi, ndr) è tra l'isolamento nazionalista e la solidarietà globale. Sia l'epidemia che la conseguente crisi economica sono problemi globali che possono essere risolti efficacemente solo attraverso la cooperazione globale». Dalla diffusione di questa consapevolezza dipenderanno anche le nuove forme e modalità di cooperazione internazionale, nella speranza e convinzione che nonostante tutti i limiti e le opacità del passato, un mondo aperto allo scambio ed all’interazione sia comunque preferibile alle chiusure politiche, economiche e culturali che già si affacciano qua e là nel mondo.
Alessandro Cocchi, agro-economista, professore a contratto presso la Scuola di Economia dell’Università di Firenze
Luca Fe' d'Ostiani, socio-economista, FAO