1. Una questione globale, dunque di ognuno
La forza, inesorabile nelle motivazioni, indeterminata ed incerta negli esiti, dei fenomeni di protesta diffusa e ad alta voce acclamata in Iran costituisce, nella prospettiva comparata e diacronica, uno dei momenti in cui i grafici estratti dalle serie statistiche si impennano e chi svolge ricerca si ferma per ragionare sulla sostanza qualitativa dei “fatti sociali”. “Come spiegare quanto accade?” è la domanda che si pongono gli studiosi. “Quali strumenti di carattere giuridico ed istituzionale è necessario costruire per fare sì che laddove la tutela dei diritti fondamentali non sia più solo una aspirazione, ma anche una realtà sociale?” è la domanda che si pongono i policy maker e gli attori che animano i fora internazionali.
Fra le due domande un nesso esiste: esso riguarda la conoscenza che costruiamo per coadiuvare i processi di creazione e consolidamento delle istituzioni dello Stato di diritto.
Sovente tale conoscenza viene intesa essere nella disponibilità (e nella maitrise) degli esperti. Quattro decenni di politiche di promozione dello sviluppo, intersecate con le politiche di promozione dello Stato di diritto, sono stati contrassegnati da un forte accento posto sulla “expertise-driven governance” delle strategie e delle politiche. Oggi vi è un quid supplementare che ad avviso di chi scrive può fare molto la differenza. Si tratta della conoscenza che dei diritti hanno i loro stessi titolari, le persone, oggi e domani. Di qui la straordinaria potenzialità che risiede nella effettiva operazionalizzazione dell’idea di progettare la formazione e soprattutto le metodologie di erogazione dei servizi educativi insieme con i loro beneficiari: le nuove generazioni. Tale idea, affrontata nella letteratura sulla progettazione partecipativa da tempo, è stata riconosciuta come una priorità di metodo quest’anno nella sede internazionale dell’Unesco e suggellata da un endorsement istituzionale politico nella Assemblea generale dell’Onu.
Per quanto, i decenni che hanno chiuso il XX secolo siano stati caratterizzati da una enfasi politica condivisa posta sui temi delle diseguaglianze, la questione delle libertà ed in particolare di quel connubio necessario – così come empiricamente ce lo è stato rappresentato – fra libertà e pluralità delle voci e delle culture è tornata ad essere all’ attenzione di policy makers, opinion leader, media, cittadini. Di certo, l’esperienza pandemica non è neutrale rispetto a questo cambio di accenti. Ma vi è un di più. Per la prima volta, almeno con questo grado di urgenza e di coinvolgimento, le Nazioni Unite, riunite a settembre 2022 nella Assemblea Generale, hanno fatto della tematica dell’istruzione e della formazione un pilastro del paradigma di pensiero entro cui iscrivere le politiche adottate dai governi per raggiungere gli obiettivi dell’agenda 2030.
Non si tratta soltanto di ragionare di effettiva eguaglianza di accesso alla istruzione, così come vorrebbe l’obiettivo 4 dell’Agenda 2030. Il passo è più profondo e al contempo più impegnativo. Sottesa dalla ipotesi secondo la quale solo la conoscenza (e una fiducia nella propria possibilità di accedere e fruire di una conoscenza dotata di un significato) è in grado di assicurare alle persone la fruizione di tutte quelle forme di qualità o di miglioramento della qualità della vita di cui Agenda 2030 parla, questo passo ci impegna ad agire partendo dalla constatazione sulla ineludibile ed inestricabile relazione che intercorre fra promozione della formazione e tutela dello Stato di diritto. In altri e più completi termini, se Agenda 2030 punta a tutelare diritti in una società sostenibile ed inclusiva dove la “alterità” viene appieno riconosciuta e rispettata – alterità in senso ampio, includendo le alterità generazionali, quelle religiose, quelle linguistiche, quelle culturali, quelle che si producono con gli stili di vita, quelle di genere – allora la formazione è la strada necessaria che conduce all’effettivo godimento dei diritti.
Non è in caso che il Global Justice Leader Forum tenutosi in dicembre 2021 sotto l’egida dell’OCSE e dell’UNODC abbia insistito proprio sul punto della effettività dello Stato di diritto come frontiera che ci impegna e ci sfida.
Si tratta dunque – ed è questo il tipo di sguardo che intendiamo condividere nelle pagine che seguono – di promuovere una visione dell’intreccio diritti e conoscenza, diritti e formazione che vada oltre la visione positivista degli uni e dell’altra. Della visione gius-positivista del diritto non è questa la sede di discutere. Ma un punto vale la pena richiamare. Partiamo da una idea euristica. I diritti sono sogni, speranze, possibilità, immaginati ancor prima che scritti, ambiti ancor prima che ottenuti. I diritti sono della stessa materia impalpabile di ciò che potrebbe essere, ma non è da darsi per scontato. E per questo sono fragili e futuri, per loro intrinseca natura. I diritti si possono ottenere, vederseli riconosciuti. Ma questo non basta, perché è sufficiente che il riconoscimento subisca una inflessione, che il percorso per arrivare alla fruizione di quei diritti sia irto di ostacoli, conflitti, catastrofi, incertezze, dubbi, povertà, discriminazioni, perché i diritti restino nel novero – soltanto – dei sogni.
Perché la tutela, la garanzia e la centralità della persona divengano vere prima che dette, vissute ancor prima che scritte, occorre sapere. Sapere i propri diritti, conoscerli, sapere come arrivare a chiederne la tutela, sapere come comprendere le società in cui si vive, si è nati, ci si muove, comprendere e sapere dire, in modo da potere anche immaginare, forti di strumenti che sono ponte verso il fare ciò che si ritiene sia importante per sé e per il mondo.
Dove vive il sapere? In molti luoghi, molti dei quali non sono di immediato accesso, né di immediata fruizione. Non perché siano luoghi con barriere architettoniche, anche se a volte lo sono. Non perché siano necessariamente lontani geograficamente, anche se questo è possibile. Nella maggior parte dei casi il sapere, i saperi, vive, vivono nelle prassi, nelle competenze, nelle produzioni che sono ricadute delle attività scientifiche, intellettuali, culturali, sovente sfuggenti alle categorie istituzionali e strutturate. [1]
Dunque, una strategia che faccia del sapere un metodo per rivitalizzare il contratto sociale e con questo l’impegno nella res publica, anche in vista delle generazioni future, che avranno nelle mani quanto promesso, quanto creato, con l’impegno per farlo vivere ancora costituisce una conseguenza pratica coerente con il paradigma di rivitalizzazione dello Stato di diritto a partire dalla centralità della persona e della sua autonoma consapevolezza dei diritti.
In questo spazio di “impegno” il fattore catalizzatore non può che essere la fiducia. Si tratta di concepire, anche in questo caso, una nozione di fiducia che non sia solo sostanziale. Non è la conoscenza di merito che fa la differenza, ma la conoscenza del fatto che i metodi con cui sono costruite le conoscenze sono solidi e condivisi.[2]
Si tratterà di una strategia di formazione capace di valorizzare le persone che producono sapere ogni giorno, persone che sono depositarie di competenze, e espressioni di creatività e immaginazione, forme di intelligenze plurali, come le arti. Ciò implica mettere insieme le intelligenze che sono nelle comunità locali, le quali conoscono bene i bisogni, le reti di ricerca interdisciplinare che si cimentano nel dialogo fra saperi, il mondo delle arti, che pensano e dicono con linguaggi nuovi, che vanno diretti verso quell’intelligenza dei più giovani. L’obiettivo è la costruzione della autonomia del sé.
2. Un contratto sociale
Le due giornate trascorse nella e con la assemblea generale delle Nazioni Unite hanno lambito i margini delle pagine dei media. Impegnati e soffocati da crisi e reazioni a queste, immersi nella logica dell’urgenza, si mobilitano le risorse che servono per cominciare a vivere già con il respiro corto, per avvicinare i poli che fissano gli estremi fra sforzi e risultati prodotti, per fare della grammatica della priorità e del “costo-diffuso-non-visibile” quell’elemento dominante della lingua con cui si parla di scelte difficili.
Così, delle giornate dell’assemblea generale delle Nazioni Unite dedicate alla trasformazione della società attraverso una formazione che sia progettata insieme con i giovani, ascoltando i bambini e impegnando tutti, della freschezza di queste giornate, di quella voglia di tornare a credere non tanto che il benessere non vada via, ma che sia possibile crearne di nuovo e per un numero maggiore di persone, la traccia nella memoria è rimasta assai debole. Eppure, del messaggio di quelle giornate noi non possiamo e non dobbiamo fare a meno.
I due pilastri del nostro pensarci nel mondo, lo spazio e il tempo, sono rinvigoriti da un vento benefico se li si guarda con nuovo sguardo che è quello della futuribilità. Per quanto negli ultimi due anni la tematica della formazione sia balzata in cima all’ordine delle priorità internazionali, in ragione della profonda frattura educativa acuita dalla reazione alla diffusione della SARS-19 e alla remotizzazione delle attività didattiche ovvero alla chiusura fisica degli spazi scolastici e formativi, la questione della formazione ha trovato nel discorso che è stato al cuore della Assemblea ONU un inquadramento di ancor più alto livello e una semantica nuova.
L’impegno politico globale sulla trasformazione della formazione si declina, secondo il Nota concettuale adottata in occasione della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sia in termini di inclusività nella progettazione della formazione, sia in termini di radicamento del processo di policy making nelle diverse realtà locali. I due aspetti sono un fondamentale segno che merita di tradotto in azione[3]. Attraverso il principio della inclusività
Mettere in relazione il contratto sociale, ossia la relazione che dà legittimazione al fatto di darsi obiettivi che siano compatibili – a livello collettivo – con la vita di ciascuno e che siano altresì perseguibili nel rispetto di chi sottoscrive il contratto ma soprattutto di chi erediterà quel contratto, con la formazione e la condivisione del sapere, significa fare un salto di paradigma.
Implicitamente si assume una teoria del funzionamento della società e del modo con cui si dispiega la natura umana nel suo auto-determinarsi all’interno di uno spazio regolato. La certezza di potere accedere a conoscenza sulla base di percorsi di vita che possono essere largamente dipendenti da condizioni esterne a volte molto dirompenti rispetto alla quotidianità e alla incolumità rappresentano il canale con cui arrivare a costruire quella forma di autonomia della persona come titolare di diritti di cui non solo è consapevole, ma del cui significato e del significato del cui enforcement è in grado di avere piena padronanza. Al di là della formale titolarità dei diritti è necessario costruire la capacità di trasformare quella titolarità sancita nella forma del diritto in piena consapevolezza.
La conoscenza di come accedere e come utilizzare la conoscenza è il meccanismo di trasformazione[4].
Mettere il contratto sociale al centro di una nuova visione della formazione come un orizzonte che va tratteggiato innanzitutto da parte dei giovani significa riconoscere che una caratteristica fondamentale di una società improntata dallo Stato di diritto è quella di pensarsi regolata da regole capaci di resistere nel tempo perché fondate sulla adesione consapevole dei suoi attori.
Misurare fino a che punto ogni paese, ogni realtà metropolitana o montana, sia dotato di politiche capaci di realizzare quelle condizioni che favoriscono la crescita nella autonomia della persona con servizi e risposte ai bisogni capaci di riprogrammarsi e di adattarsi al mutare della società e dei suoi individui significa dotare una collettività di una bussola che la orienti nel futuro prendendo sul serio quanto si dice oggi. Il presente è già eredità dei nostri bambini.[5] Non è un esercizio di indicatori che si auspica. Ne abbiamo molti e di certo autorevolissimi. Il punto è un altro. Camminate nelle strade, salite sui treni, soffermatevi ai binari delle stazioni e indugiate con lo sguardo sul passante che vi incrocia. Da quando abbiamo tolto le mascherine lo spazio per l’auto-inganno non c’è più. Quanto fervore, quanta passione civica vediamo? Dipinta sui volti la convinzione che emozionarsi sia piuttosto un vizio di fabbrica o un vezzo del carattere, insomma una di quelle cose “apprezzabili” con cui avere una tolleranza sorridente. Di sociale, di impegno civile, si parla tanto, si dice, ma se qualcuno ci inonda con un entusiasmo bruciante o con una immagine creativa e dirompente, restiamo come nel sospetto che poi domani il picco di entusiasmo sia svanito e al fare non si dia seguito.
I giovani sentono tutto questo. Lo sentono e lo tacciono. Non sanno come era prima, prima delle crisi che sono iniziate nel 2007, non lo sanno perché erano bambini. Ma sanno che sono in grado di vedere in quelle pieghe del possibile l’opportunità di un cambiamento. Non hanno il metodo per guidarlo. A questo dovrebbero provvedere i senior, gli esperti. Non hanno il metodo per misurarlo. Ma soprattutto non sono certi che se mobiliteranno le forze del fervore e dell’entusiasmo per forgiare un diverso modo di vivere insieme, di governare le città, di organizzare formazione e lavoro, di pensare il welfare, di arredare le case, di consumare e produrre, di fare circolare le risorse, di relazionarsi con l’ambiente e le risorse primarie, l’azione che sarà compiuta nel lanciare un’idea nuova sarà seguita con certezza da una progettualità a cui farà seguito una verifica e una attuazione.
Non ne sono certi loro e non lo siamo nemmeno noi. Si tratta infatti di una questione non di responsabilità individuale ma di natura sistemica. . Regole che cambiano troppo spesso, processi decisionali molto frammentati, supplenza funzionale delle singole persone che si dedicano e si prodigano laddove la macchina non funziona, discontinuità nella memoria, mancanza di standardizzazione nelle procedure di riconoscimento di ciò che funziona e cosa no. Investire su ricerca e sviluppo costituisce solo la metà di una storia che necessita per essere completa e, dunque, effettiva, anche della costruzione dii fiducia. La conoscenza tecnica di cui sono portatori le specialità di cui sono capaci i nostri eccellenti ricercatori e le nostre eccellenti ricercatrici è una risorsa preziosa e foriera di competitività. Ma nessuna risorsa può accendersi senza una fiamma.
Di qui l’importanza della fiducia. Solo l’impegno e la fiducia in un futuro che sia effettivo spazio/tempo dove sviluppare la propria autonoma persona senza cadere nella anomia sociale possono fare la differenza rispetto al futuro che si costruisce.
Sono questi i messaggi che escono dalle giornate dedicate a Transforming Education Summit.
Un programma di rivitalizzazione dello Stato di diritto attraverso la formazione:
La giustizia è il nutrimento dell’anima delle società doloranti di fratture che esse stesse hanno generato. Nutrimento e nuova aurora, come il vento che si leva mattutino dal mare al fare del nuovo giorno. Così Albert Camus guardava la società del secolo breve dalla finestra del conflitto. Camus si è molto interrogato su cosa sia riconoscere l’altro, lo “straniero”, il “diverso”, giungendo ad affermare quanto di più importante possa esservi per costruire un paradigma nuovo sulle norme, la sostenibilità, l’inclusione e la giustizia: l’alterità è in ciascuno di noi come traccia levigata dal tempo della memoria di esperienze di vita che, nel loro insieme, hanno fatto la trama di regole, prassi, modi di essere e di assegnare valore.
Allorché molto passa e resta transeunte, la traccia del passato è foriera di alcuni semi di quel che resta comunque un futuro aperto, sino a quando sarà un futuro innanzitutto determinato dalle forme dell’umano. Si tratta di un testimone che va lasciato di generazione in generazione arricchito della forza e della capacità di radicarsi ed estendersi, con il progressivo confrontarsi con nuove linee di conflitto, di frattura, di diseguaglianza, di differenza, di ingiustizia. Tale testimone avrà saputo essere esso stesso ponte fra mondi. Si tratta dello Stato di diritto.
Non vi è Stato di diritto senza un riconoscimento di quanto vi sia di collettivo e di condiviso e storicamente stratificato nella nostra conoscenza delle regole, delle norme che governano l’agire ancor prima che dettare i parametri di ordinamenti e procedure. Si tratta di un patrimonio. Ma se ci si fermasse qui ci si limiterebbe ad osservare e a prendere in considerazione la metà di una storia che, invece, all’alba di quello che a tutti gli effetti appare uno ventennio in grado di proiettarci in un nuovo paradigma di società e rapporti fra persone e istituzioni, chiede di essere guardata in tutta la sua interezza. Mentre constatiamo il bisogno di riconnettere la persona alle istituzioni tocchiamo con mano quanto lo Stato di diritto possa oggi costituire in senso proprio il ponte che riconnette e che congiunge nel rispetto delle alterità.
Fra l’alterità, la sua comprensione, e lo Stato di diritto vi è una relazione che passa attraverso la centralità della autonomia della persona come titolare consapevole di diritti. Lo Stato di diritto è un ideale e un principio, che traccia la linea di un orizzonte equo, giusto e sensibile all'uomo e fornisce allo stesso modo logiche-guida nella progettazione delle istituzioni, nell'attuazione delle politiche pubbliche e nell'educazione delle nostre nuove generazioni. Questa è una comprensione astratta dello stato di diritto. Dopo la Seconda guerra mondiale, in un ampio spettro di sistemi sociopolitici, è stato sviluppato e messo in pratica un concetto di Stato di diritto che si declina non solo non solo della rappresentanza politica ma anche nella certezza del diritto, nel divieto di poteri esecutivi arbitrari, nella democrazia procedurale, nell'uguaglianza davanti alla legge, nel controllo giurisdizionale effettivo del rispetto dei diritti fondamentali.
Eppure, se i principi e gli ideali si vuole siano le colonne portanti dello sviluppo sociale e del disegno istituzionale, l'effettivo funzionamento delle società e le impreviste congiunture storiche sembrano spingere cittadini e governanti a mettere da parte la loro più alta ambizione, quella che mira a creare un ambiente equo, inclusivo, e società sostenibile.[6]
Lo Stato di diritto può essere dunque “sfidato” in molti modi. Il tipo di sfida più dirompente consiste nell'essere costretti a bilanciare valori diversi, a negoziare tra beni collettivi diversi e conciliare visioni di vita incommensurabili. Tali visioni nascono anche dalla pluralità delle traiettorie di vita e dalla necessaria convivenza di forme di pensiero e di agire che si caratterizzano per la loro diversità. Fornire una risposta tempestiva ai bisogni che le comunità, le persone vulnerabili – che variano da un momento all'altro e da un contesto geografico all'altro – e i cittadini in generale, sentono e sperimentano, rappresenta il campo in cui l'efficacia del primato delle regole può essere valutata. Pertanto, la legittimità delle democrazie le cui istituzioni sono ispirate dal principio dello stato di diritto dipende dalle loro capacità di attuazione di quelle stesse premesse normative con cui esse hanno definito i perimetri dell’agire legittimo e dotato di un senso collettivo.
Non si tratta soltanto di assicurare la fruibilità di beni e servizi. Il percepirsi come egualmanente dotati di diritti e doveri, ovvero la consapevolezza delle regole del gioco che ugualmente vincolano in quanto egualmente contraenti del patto sociale, è la base di qualsiasi forma di convivenza e, dunque, del riconoscimento della alterità.
Se rivolgiamo al cittadino comune la domanda su come essi percepiscano lo Stato di diritto essi indiscutibilmente manifesterebbero una comprensione dello Stato di diritto fatta come un Giano bifronte. Lo stato di diritto è sia un principio che una condizione di vita, che consente a individui e gruppi sociali con valori, visioni di come dovrebbe essere una società giusta, interessi, origini e prospettive diversi, di vivere insieme in un contesto pacifico e prevedibile. Ancor prima di porsi come spina dorsale ideale di un assetto costituzionale, lo Stato di diritto denota un metodo di coordinamento delle persone e delle traiettorie di vita attraverso un insieme di regole fondamentali che caratterizzano l'impersonalità e la stabilità.
Come giustamente sottolineava Charles Tilly, gli esseri umani rispettano la legge perché imparano a farlo, attribuiscono un valore alla stabilità della loro vita, e sono nella posizione di ottenere un collante (anche se impreciso) dagli effetti positivi che questo può comportare. Qualsiasi tentativo di optare per una sola forma di razionalità, normativa, strumentale, pratica, finisce per cadere vittima di una comprensione insufficiente degli ordini sociali. Gli esseri umani non sono né solo orientati alle norme, né solo agli interessi personali. Sono entrambi le cose e una nozione modulare di identità sociale sarebbe molto opportuna come principio che ispira le agende istituzionali. Analogamente, gli esseri umani non sono né solo riflessivi e critici né solo capaci di seguire regole in modo routinario. Sono entrambe le cose. Questo spiega la loro capacità di adattarsi ai contesti sociali, di garantire continuità e di intraprendere allo stesso tempo pratiche e iniziative mutevoli.
Il concetto di Stato di diritto, se analizzato in questa prospettiva antropologica modulare, assume un nuovo fascino che sembra essere meno rigido e formale di quanto siamo abituati a dire e credere. Tuttavia, una volta ammesso che lo stato di diritto non è solo radicato nelle nostre impostazioni costituzionali e nella carta dei diritti, per quanto preziosi e insostituibili esse siano, non avremmo ancora un quadro solido e affidabile per far luce sulle diverse componenti dello stato di diritto. Mancherebbe quella parte che consiste nel riconoscere gli elementi costitutivi del “diritto” quando li osserviamo dal punto di vista dei cittadini, dei gruppi sociali, delle comunità, delle società.
Non sorprende che questo punto di vista incontri facilmente il consenso dei più. Intuitivamente capiamo tutti che sarebbe difficile governare un sistema in condizioni di equità e di uguaglianza se questi stessi concetti non corrispondessero ai principi che danno forma e orientamento all'agire quotidiano degli individui. Sarebbe una chimera un sistema basato sullo stato di diritto se gli attori preferissero violare le regole: in tale deplorevole contesto, che immaginiamo per fare un esperimento mentale di tipo iperbolico, il mantenimento dell'ordine sarebbe generalmente assicurato da strategie sanzionatorie e punitive.
Eppure, una volta che il consenso suscitato su questa visione generale e non contestata sia emerso e riconosciuto, resta da immaginare concretamente come radicare questi principi nelle politiche che le istituzioni stabiliscono per educare i bambini e i giovani allo stato di diritto? Come renderli fari per la creazione delle condizioni favorevoli lungo l'intero processo di apprendimento permanente per gli adulti che, quasi ogni giorno, sono tenuti a gestire innovazioni, rischi, incertezze, conflitti, differenze sulla base di una condotta ispirata al principio dello Stato di diritto? Ciò diventa ancora più cruciale e vitale nel caso di individui che prestano servizio nelle istituzioni pubbliche.
Queste osservazioni preliminari permettono di arrivare ad una nozione di Stato di diritto incentrata sulle persone. Ciò significa mettere al centro una nozione di cittadinanza basata sull'educazione e la consapevolezza. Solo quando l'essere umano è consapevole dei propri diritti è messo in grado di oltrepassare i confini nazionali nel pieno possesso della propria autonoma e responsabile espressione di sé stesso(a), in condizioni sociali altamente differenziate, contesti multiculturali e multilinguistici, prospettive future incerte.
Così si dà voce e orientamento pratico all’idea di Stato di diritto come ponte e come patrimonio educativo. Legalità è il fatto – e senza quel fatto il principio resta sopito – che vi sia un sacro rispetto di uno, e un solo modo per costruire le regole che sanciscono i perimetri di limitazione delle libertà fondamentali e questo modo è proprio quello che prevede che ci siano procedure, note prima che le norme vengano fatte, e che nel caso non raro in cui vi siano valori ed interessi confliggenti sia proprio la dinamica dialettica, che è propria della democrazia e dello stato di diritto democratico (che si sostanzia anche nel contraddittorio dentro alla giurisdizione) a fare la “qualità” di una norma. Una qualità che vale – ossia ha un valore vincolante per tutti - a prescindere dal fatto che essa possa o meno essere favorevole a un gruppo o a un altro, a una classe o a un'altra, a una realtà o a una altra. Insomma, legalità ha a che vedere con quello che pensiamo sia necessario per fabbricare delle buone regole e cosa pensiamo che si debba fare per rispettare tali regole senza che questo possa necessariamente richiedere l’intervento dell’autorità sanzionatoria. Come si impara la legalità? In molti modi. Ma uno è proprio fondamentale. Il rapporto con l’altro, in un contesto che è già portatore di regole e in quel rapporto con l’altro la possibilità di mettersi in gioco si invera attraverso e grazie a quelle regole. Quale gioco? Quello della composizione delle differenze. Perché gli altri sono differenti, uguali ma differenti, e qui sta tutta la difficoltà dell’apprendere la legalità che ci vuole uguali ma anche capaci di avere rispetto per le differenze.
Apprendere che l’interazione con gli altri è una interazione che sancisce, negozia e poi definisce limiti e al contempo avere in questo la possibilità di costruire la propria identità sociale è parte cruciale del percorso di formazione del cittadino, poiché la legalità diviene un fatto istituzionale e un fatto sociale nella misura in cui il sacro e convinto rispetto di conferire un significato condiviso al mettere le diversità delle persone in uno spazio dove ciascuna manifesta se stessa e lo fa con regole comuni (alla cui manutenzione e alla cui eventuale revisione o fabbricazione partecipa) sia un principio interiorizzato.
Il ruolo della cooperazione allo sviluppo e il contratto sociale globale
“Il mondo che conosciamo è in pericolo”. “Siamo in un mare agitato. Un inverno di malcontento globale si profila all'orizzonte.” Si è espresso così, senza edulcorazioni, il Segretario Generale delle Nazioni Unite durante l’ultima Assemblea Generale ONU a New York. Basta volgere lo sguardo su quello che avviene nella nostra quotidianità per capire quanto questo sia influenzato da ciò che accade al di là della dimensione locale, nelle reti inestricabili di un mondo sempre più interconnesso. Lo definiamo interdipendenza, quel legame indissolubile che significa, tra le altre cose, destino comune.
L’era dell’interdipendenza globale, dello scambio e della diversità come fattore propulsivo di sviluppo necessita di risposte integrate che conducano a risultati tangibili e sostenibili. È con questa premessa che abbiamo abbracciato un’agenda ambiziosa quale è l’Agenda 2030, una dichiarazione di interdipendenza tra i popoli alla base di un nuovo contratto sociale che aspira a rispondere alle sfide globali.
Quello che ci viene chiesto è un atto trasformativo che parte innanzitutto da noi stessi. Questo patto sociale globale può scaturire soltanto da una visione del mondo fatta di responsabilità condivisa, uguaglianza e cooperazione. Non si può costruire fiducia e coesione sociale se il contratto che abbiamo firmato non è frutto di una negoziazione collettiva, se non è in grado di offrirci soluzioni che siano rivolte a tutti ma anche costruite grazie al contributo di tutti. Il passaggio da una concezione della legalità centrata sulla qualità della forma giuridica della definizione dei diritti ad una concezione che sia multi-dimensionale e che, a quella qualità, unisca anche la qualità della conoscenza che viene costruita insieme con le comunità e le persone costituisce una strada di trasformazione anche della cooperazione allo sviluppo. Si tratta di andare verso la centralità della persona anche al di là dei confini nazionali senza pur tuttavia perdere di vista l’importanza che la cultura e il contesto locali hanno nel costruire “il significato del vivere insieme”.
La cooperazione allo sviluppo ha un ruolo importante nella definizione e nell’evoluzione di questo contratto. Ripensare il paradigma della cooperazione significa abbandonare l’idea dell’aiuto come strumento per l’ottenimento di risultati nel breve e medio periodo, per renderlo parte attiva di una strategia lungimirante di redistribuzione sociale che protegga e migliori le condizioni di vita dei più vulnerabili. I fragili, protagonisti del: “Non lasciare indietro nessuno”, la promessa centrale e trasformativa dell’Agenda 2030.
Per chi opera nel mondo della cooperazione internazionale questo si traduce nell’attuazione di programmi che siano incentrati sull’empowerment della persona e sulla valorizzazione delle diversità.
Questa architettura progettuale, affinché sia sostenibile e inclusiva, richiede che si cooperi nel senso etimologico del termine, ovvero che si lavori insieme, spogliandosi di retaggi paternalistici e scardinando l’asimmetria tra paesi ricchi e poveri, nella consapevolezza di essere tutti al contempo donatori e beneficiari.
Donare, aiutare, aiuto allo sviluppo. Alla luce dell’evoluzione del sistema internazionale è certo utile ripensare il concetto stesso di aiuto come esercizio di responsabilità comune. Tale approccio postula il superamento dei molteplici meccanismi di condizionalità, che altro non sono se non l’ontologica e plastica applicazione di un paternalismo al rapporto di cooperazione inter-statuale. Al contrario, un sistema paritetico presuppone lo stabilimento di obiettivi condivisi verso i quali potranno concorrere gli scambi di conoscenza nel rispetto delle ownership reciproche.
Ed ecco che il flusso di conoscenza diventa elemento chiave per una cooperazione che sia strumento di cambiamento globale. Questo avviene quando eleviamo lo sguardo dal trasferimento di know-how, tecnologia e saperi – fondanti, beninteso, un’interazione volta alla crescita macroeconomica – per portarci al livello di un progresso che restituisca priorità all’individuo, cittadino soggetto attivo di diritti.
È così che la rinnovata centralità della persona ci porta a ragionare non solo in legittimi termini di crescita, ma in un orizzonte più ampio di empowerment. In questa prospettiva, la conoscenza è motore di condivisione, in un dialogo paritetico.
Essa è fonte di una cittadinanza attiva nella misura in cui, portata al cittadino e dallo stesso apportata, diventa chiave di accesso alla consapevolezza di diritti e al contempo di responsabilità verso la società; responsabilità sociale, ambientale, intergenerazionale. È portatrice di autonomia dell’individuo e parallelamente ne orienta l’azione, diventando sorgente di sostenibilità.
La direzione da intraprendere per una nuova grammatica della cooperazione è quindi quella della messa a disposizione di una “cassetta degli attrezzi” globale, cui tutti gli attori, statali e sociali, possano contribuire e da cui possano attingere.[7]
La grammatica è anche linguaggio, scelta consapevole delle parole. Occorre quindi superare le narrazioni di una cultura che si percepisce dominante per abbracciare un tessuto linguistico riconosciuto come proprio da tutti. E occorre ascoltare, sedersi e fare spazio alla parola dell’altro nella nostra arena globale, lasciando che sia l’altro a esprimere i propri desideri, bisogni, emozioni. Non facciamolo noi per loro.
Abbandoniamo la pretesa di interpretare i desiderata altrui, di stabilire quali bisogni siano meritevoli di entrare nel perimetro degli interventi di cooperazione e quindi di contribuire al cambiamento.
È questo il ruolo di una nuova cooperazione: diventare scintilla di cambiamento. Tuttavia, in questa prospettiva creativa è fondamentale l’apporto di tutti. Quella che tecnicamente si definisce fase di progettazione deve raccogliere il contributo di pensiero che può venire da tutti i soggetti del rapporto.
Ed ecco che anche qui è il linguaggio ad essere elemento fondante. Non serve un ruolo statico e implicitamente asimmetrico di cosiddetti donatori e beneficiari. Serve una partecipazione attiva di attori statali, cittadini, società. Serve che quelli che finora abbiamo visto come soggetti fragili siano protagonisti di questa rivoluzione copernicana, dove al centro non deve essere il preteso sottosviluppo di uno Stato o la fragilità di un individuo. L’individuo deve essere attore di una progettualità nella quale le note delle sue fragilità sono parte di una più ampia sinfonia.
Va da sé che, affinché questo processo creativo si inneschi efficacemente, diventa strategica l’educazione delle nuove generazioni chiamate a interpretare e far progredire questo nuovo linguaggio.
L’ultimo Transforming Education Summit, il vertice sull’istruzione tenutosi lo scorso settembre durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha ribadito la necessità di ripensare il sistema educativo, rifondando gli orizzonti di conoscenza, istruzione e apprendimento. Si tratta di avere il coraggio di percorrere territori finora inesplorati, di scardinare stereotipi e valorizzare diversità per un pieno sviluppo della persona che fornisca ai giovani gli strumenti per diventare attori del cambiamento.
“Garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti”; questo recita il quarto obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. Partiamo da qui, dai concetti di equità ed inclusione. Ogni sistema educativo, infatti, è un potente motore di inclusione sociale e, ove adeguatamente orientato, uno strumento imprescindibile per consentire a tutti i giovani di accedere su basi di equità a opportunità formative che diventano, oltre che momenti essenziali di crescita individuale, anche preziosa fonte di accesso a occasioni di miglioramento delle condizioni di vita. Ciò riguarda anche le forme di educazione che sono offerte al di fuori del sistema convenzionale, come ad esempio in contesti di crisi umanitarie caratterizzate dalla massiccia presenza di rifugiati.[8]
Al riguardo, è degna di nota l’ormai decennale esperienza della Giordania, paese a medio reddito che tuttavia conosce al suo interno alcune aree economicamente e socialmente svantaggiate dove si concentra un elevato numero di rifugiati, in particolare siriani e palestinesi[9].
In un contesto di grave e prolungata crisi regionale, la Giordania ha agito su un doppio binario. Da un lato, negli ultimi anni il Regno hashemita ha maturato una forte consapevolezza di come l’educazione sia la chiave per la valorizzazione del proprio capitale umano[10]; questo ha richiesto uno sforzo culturale non trascurabile, che ha toccato temi controversi e impopolari legati ad approcci tradizionalisti della società giordana per addivenire a un modello educativo che sia in grado di raccogliere e canalizzare le energie e le aspettative dei suoi giovani. Parallelamente, lo sforzo del Regno è rivolto a rendere maggiormente accessibile l'istruzione a tutti i bambini e le bambine indipendentemente dalla loro nazionalità, status e condizione[11].
In questo contesto, è ben chiaro in Giordania come la costruzione di competenze e saperi sia la chiave per ricucire le molteplici fratture esistenti e costruire una società resiliente. Ma è anche tanto altro. Un sistema educativo per potersi definire inclusivo non deve soltanto offrire istruzione di qualità per tutti ma deve anche riuscire ad assorbire i desideri di riscatto e affermazione di chi è rimasto indietro, costituendosi parte attiva nel percorso per l’emancipazione e l’integrazione.
Nonostante la riforma strutturale del quadro normativo e l’impegno politico per il miglioramento della qualità del sistema dell’istruzione in Giordania, il cammino è ancora molto lungo.
L’emergenza sanitaria da COVID-19 ha richiesto una ristrutturazione delle modalità di erogazione della didattica, esacerbando inevitabilmente le disuguaglianze esistenti[12]. La ricerca di soluzioni ibride di apprendimento si è rivelata spesso fallimentare: l’accessibilità dei contenuti non si traduce soltanto nella disponibilità di una connessione alla rete, bensì nella predisposizione di un pacchetto fruibile da ogni studente sulla base delle sue necessità. La crisi epidemiologica si aggiunge ad altre problematiche sistemiche quali il deficit motivazionale del corpo docente[13], le modalità di reclutamento dello stesso, il sovraffollamento delle classi e la mancanza di una efficace “alleanza didattica” scuola-famiglia. [14]
Solo il superamento di questi limiti, attraverso un approccio condiviso e una responsabilizzazione di tutti gli attori, potrà permettere di rendere la scuola luogo di effettiva maturazione per portare i giovani a una autonomia di pensiero e di azione. Affrontare la matrice complessa dello Stato di diritto e della conoscenza a partire dalla cooperazione allo sviluppo non è una scelta di carattere scolastico o dottrinale. Se si osservano i dati del rapporto GEM, ossia il rapporto che annualmente affronta sulla base di dati quantitativi l’insorgere di barriere strutturali e funzionali all’accesso – reale – alla formazione non solo per i più giovani ma tutte le fasce della popolazione si nota come aree del mondo che preoccupano per la estensione e la distribuzione sono fortemente segnate da una endemica difficoltà a garantire nel tempo la conoscenza e soprattutto la formazione in materia di e sui diritti. Come correttamente viene sottolineato nel rapporto OECD sulla giustizia, la questione dell’accesso alla giustizia – segmento cruciale della attuazione dello Stato di diritto – non si risolve solo abbassando i costi di accesso ma operando con politiche pubbliche che incidono sulla conoscenza di quale sia il modo per trattare un problema – che il cittadino sente e vive come un problema, non necessariamente un problema giuridico – con categorie che sono ancorate alla carta dei diritti.
Dunque la conoscenza, la fiducia nella possibilità di avere una voce nella costruzione delle finestre attraverso cui a quella conoscenza si accede, la fiducia nella certezza che queste finestre esisteranno nel tempo e non saranno soggette alle discontinuità drammatiche spesso generate da eventi esogeni che travolgono la vita delle persone, sono fondamenti di quella parte dello Stato di diritto che, certamente fragile come ciò che è fatto della materia dei sogni (idee e aspirazioni), necessita da parte nostra un impegno concreto.
[1] UNESCO. 2020. Inclusion and Education. All Means All, Global Education Monitoring Report, 2020 GEM Report – Inclusion and education – All means all (unesco.org). UNESCO. 2021. Global Education Monitoring Report 2021/2: Non-state actors in education: Who chooses? Who loses? Paris, UNESCO. UNESCO. 2018. Education and Disabilities. Analysis of Data from 49 Countries, UNESCO/ip49-education-disability-2018-en%20(1).pdf
[2] Ci permettiamo di rimandare a Daniela Piana, Rules for Trust, Roma, Carocci, in corso di stampa.
[3] tes_concept_note.pdf (un.org)
[4] Dobbiamo questo aspetto di riflessione a Federica Guardigli.
[5] L’OCSE sta opportunamente lavorando ad una strategia di promozione della tutela dei diritti che sappia avere un significato comprensibile anche per i minori di età. https://www.oecd.org/social/family/child-well-being/
[6] Si veda su questo https://idea.int/gsod/sites/default/files/2021-11/global-state-of-democracy-2021.pdf
[7] United Nations, Department of Economic and Social Affairs. 2020. Inequality in a Rapid Changing World, World Social Report, ST/ESA/372 , World-Social-Report2020-FullReport.pdf (un.org). World Economic Forum. 2021. The Jobs of the Future Report, WEF_Future_of_Jobs_2020.pdf (weforum.org).
[8] Shadow education in the Middle East: private supplementary tutoring and its policy implications - UNESCO Digital Library; Global education monitoring report 2022, South Asia: non-state actors in education: who chooses? who loses?; summary - UNESCO Digital Library.
[9] Per una disamina più approfondita si veda, da ultimo, il Piano di Risposta alla crisi siriana in Giordania 2020-2022 (https://www.jrp.gov.jo/Files/JRP%202020-2022%20web.pdf).
[10] È lo stesso Sovrano Abdullah II ad avere piena contezza della sfida e a tracciare una linea di azione. Si veda al riguardo il settimo discussion paper, consultabile sul sito: https://kingabdullah.jo/en/discussion-papers/developing-human-resources-and-education-imperative-jordan’s-progress
[11] V. Education Strategic Plan 2018-2022 del Ministero dell’Educazione giordano (https://andp.unescwa.org/sites/default/files/2020-09/Education%20Strategic%20Plan%202018-2022.pdf).
[12] Per approfondimenti e dati statistici si vedano: https://www.worldbank.org/en/country/jordan/publication/education-expenditure-enrolment-dynamics-and-the-impact-of-covid-19-on-learning-in-jordan; https://uis.unesco.org/en/country/jo
[13] Il malcontento che serpeggiava tra il corpo docente si è tradotto in una serie di proteste (degno di nota tra i vari articoli: https://www.hrw.org/news/2020/07/30/jordan-teachers-syndicate-closed-leaders-arrested)
Daniela Piana, professoressa ordinaria di scienza politica
Maria Calaresu, esperta internazionale di cooperazione allo sviluppo