Fa molto riflettere il piccolo (ma ponderoso nei contenuti) libro di Roberto Rampioni, Ordinario di Diritto Penale all’Università Tor Vergata di Roma, dedicato alle problematiche attuali in cui versa il diritto penale e la relativa legislazione.
Già il titolo, dall’intonazione lievemente, ma esplicitamente provocatoria, su un diritto penale, qualificato come scienza dei limiti del potere punitivo, predispone il lettore a percorrere un itinerario intellettuale, certamente, non banale.
Lungo questo percorso, raccolto in una novantina di pagine e supportato dall’ausilio di una bibliografia, definita essenziale ma qualitativamente molto soddisfacente, vengono messe in evidenza le principali criticità che sembrano attualmente affliggere il diritto penale e che si possono così sintetizzare: la sua flessibilizzazione, contrassegnata dal prevalere dell’idea di scopo su quella di diritto, che postula un ampio utilizzo di valutazioni contenutistiche; la sua moralizzazione, intesa nel senso di perdite di laicità dell’ordinamento giuridico; la sua materializzazione, con il ricorso, sempre più frequente, a valutazioni di contenuto orientate ad elidere le possibili lacune di punibilità, aggirando le garanzie difensive; e, infine, la sua soggettivizzazione, caratterizzata dal privilegiare gli aspetti espressivi dell’atteggiamento interiore dell’agente rispetto agli elementi oggettivi del fatto criminogeno.
Si tratta di aspetti degenerativi, che incidono sulla stessa funzione e sulle finalità del diritto penale, con pericolose ricadute sulla tenuta dei cardini dello “Stato di Diritto” e che inducono l’A., per tentare di ovviare alla conseguente frammentarietà dello stesso diritto penale, a una riflessione sui principi fondamentali e, in particolare, sulla nozione di “bene giuridico”; la cui teoria, a seguito dello smarrimento del suo valore in senso classico, merita di essere sottoposta ad una adeguata ricostruzione.
A questo specifico aspetto il volume di Rampioni dedica importanti pagine, valutando i più recenti apporti della dottrina italiana in materia, con approfondite disamine, che mettono in evidenza come da un diritto penale «che assolve alla funzione di garantire condizioni statiche del consenso sociale» si sia progressivamente passati ad un diritto penale «che nella cosiddetta società del rischio individua un progetto di mutamento sociale e, dunque, presenta un carattere dinamico».
In questo ambito sono, pertanto, criticamente analizzate le tesi e le posizioni di alcuni giuristi: da Massimo Vogliotti a Domenico Pulitanò, da Riccardo Borsari a Francesco Palazzo, da Mario Romano a Giovanni Cocco. In particolare, con riferimento agli ultimi due, che mettono in dubbio la qualità del bene giuridico, come criterio di legittimazione della norma penale, l’A. giunge a porsi un duplice quesito: sulla funzione del diritto penale quale limite della politica criminale e sulla sua funzione limite nell’anticipare la tutela di norme di interessi strumentali o funzionali.
La risposta fornita a questi due interrogativi individua un ancoraggio del diritto penale al fatto dannoso o pericoloso e una ricostruzione della teoria del bene giuridico in cui ricomprendere le fattispecie di pericolo astratto alle quali è affidata la tutela dei beni immateriali necessari al mantenimento dell’ordine generale.
Passando, poi, all’esame del concetto di sicurezza, intesa come esigenza collettiva e degli abusi che in suo nome vengono perpetrati dal potere statuale in materia di esercizio delle libertà individuali, l’A. ne deriva una considerazione sul come nella realtà «il bene giuridico … presenti ben poco di collettivo afferendo in realtà alle posizioni individuali coinvolte nei singoli procedimenti giurisdizionali». Inoltre, il condizionamento storico, che, inesorabilmente, grava sul diritto penale, induce Rampioni a sottolineare come in un regime democratico sia indispensabile che il varo di nuove norme penali, nell’impossibilità di avere un’auspicabile maggioranza parlamentare qualificata, sia supportato, almeno, da un’ampia maggioranza.
Riflessioni che precedono il successivo passaggio critico, dedicato all’ampiezza della tutela e alla selezione degli interessi meritevoli di protezione per evitare l’allargamento a dismisura del “penalmente rilevante”, fino al punto di vanificare in questa materia il principio fondamentale dell’“extrema ratio”.
Da questa rassegna di valutazioni, tenendo a mente che il diritto penale debba essere sciolto dalla contingenza delle decisioni politiche (non a caso viene ricordata nel libro la celebre espressione di Jean Jacques Rousseau, formulata circa due secoli e mezzo fa, «il sovrano non può imporre catene inutili alla comunità») l’A. riafferma il proprio convincimento della necessità di invertire la tendenza di una legislazione che proceda «secondo il principio: forma giuridica + bisogno di pena capace di incontrare il consenso della collettività = diritto penale»; puntando, invece, decisamente sul «richiamo critico del diritto penale alla delimitazione concettuale e normativa» (ecco spiegato il riferimento nel titolo cui, già, si accennava!).
Un cambiamento culturale, prima che operativo, francamente condivisibile, anche se non di semplice realizzazione.