La sentenza che pubblichiamo tratta la questione complessa del differimento della pena carceraria (eventualmente sostituibile con la detenzione domiciliare) nei confronti del condannato affetto da grave infermità fisica (artt. 146 e 147 cod. pen.).
Non lo fa con riferimento a un condannato qualsiasi.
Il detenuto in questione è Totò Riina, il capo di Cosa Nostra, il boss sanguinario, il 41 bis per eccellenza. La pronuncia tocca quindi un nervo scoperto della civiltà giuridica e del garantismo, e in questo senso si capisce l'ondata emotiva suscitata.
Al di là di come il caso concreto verrà deciso – si tratta di un annullamento con rinvio per carenza di motivazione al tribunale che aveva rigettato il differimento e non della “apertura alla scarcerazione di Riina”, come rilanciato dai media –, la sentenza è un distillato di principi costituzionali e convenzionali (art. 27 Cost. e art. 3 Cedu su tutti).
Con parole secche e precise si sottolinea che:
1) stare o meno in prigione, in condizioni di grave infermità, non dipende solo dalla trattabilità in carcere della patologia o dal pericolo per la vita del paziente, ma dalla possibilità per quest'ultimo di condurre un'esistenza che non sia al di sotto della dignità, che deve essere rispettata anche nella restrizione carceraria;
2) anche il peggior criminale possiede diritti fondamentali, come quello a una morte dignitosa;
3) le condizioni di compatibilità con il carcere e il livello di umanità devono essere valutate in concreto dal magistrato di sorveglianza, anche in relazione all'idoneità delle strutture penitenziarie;
4) il bilanciamento con le esigenze di tutela della sicurezza sociale e dell'incolumità pubblica deve essere effettuato a partire da una fotografia attuale delle “eccezionali condizioni di pericolosità”, che tenga conto del quadro sanitario e dello stato di “decozione” del paziente. Punto particolarmente importante, quest'ultimo: il condannato potrà anche “comandare con gli occhi”, ma sul punto il giudice deve motivare.
Fondamentale, anche, il riferimento all'idoneità delle strutture di detenzione: Dap e Asl, come viene acutamente rilevato (F. Gianfilippi), devono garantire livelli di assistenza tanto più alti quanto più vogliono evitare la fuoriuscita dal circuito detentivo dei soggetti più pericolosi.
Nel complesso, poi, la sentenza ci ricorda che per la Costituzione non c'è persona, terrorista o mafiosa che sia, che possa essere privata del nucleo fondamentale dei diritti umani.
Non si tratta di concedere un beneficio al capomafia; si tratta di riconoscere un diritto a quella “dignità statica” di cui è composto ogni uomo, anche criminale.
È il sentiero difficile dello Stato democratico di diritto. Un sentiero che non può essere abbandonato mai e che anche nella lotta alla mafia è, oltre che doveroso, utile.
Più della vendetta, toglie alibi e acqua a quelle mentalità criminali che dei diritti hanno fatto strame.