Non capita spesso di leggere una riflessione lucida, franca e “fuori dagli schemi” su trent’anni di mafia e antimafia. È quello che esprime il saggio “La mafia è dappertutto-Falso”, della collana Idola per i tipi Laterza, scritto dal giurista palermitano Costantino Visconti. Un lavoro che farà discutere. E che propone il bilancio di una lunga stagione delle istituzioni e della società italiana, in cui spiccano successi e contraddizioni, populismi e coraggio, tradimenti e speranze.
Per sviluppare la sua trama, l’autore muove dal “luogo comune” della “onnipresenza mafiosa”, molto in auge e sovente rievocato con enfasi e a sproposito. Mette in guardia dalla sua insidiosità. Non solo sul piano politico-sociale ma anche su quello giudiziario. Punta il dito contro quelle semplificazioni che non permettono di “distinguere” e di “intervenire selettivamente” sui misfatti delle organizzazioni criminali, ma paiono funzionali alla promozione di ambizioni personali o collettive. In tale prospettiva, non risparmia la magistratura, con una critica discreta nelle forme ma, come si dirà, sommaria nei contenuti sul presunto “protagonismo dei giudici”.
L’autore sottolinea, invece, l’importanza dell’impegno quotidiano di “resistenza alle prepotenze dei clan” di quei servitori dello Stato e comuni cittadini, di cui non conosciamo neppure nomi e volti e grazie ai quali possiamo “guardare al futuro” con la giusta dose di ottimismo.
1. Un No alla visione mafiocentrica
Visconti spiega come i clan abbiano “cambiato pelle”. La sua analisi va oltre gli schemi organizzativi e i programmi della “cosa nostra” corleonese, ossia quella maggiormente impressa nell’immaginario collettivo anche per le tante pagine tragiche che ha inflitto alla Sicilia e non solo. Parla di ‘ndragheta al nord, di intrecci affaristico-istituzionali di matrice camorristica e di “mafia capitale”. Rileva quanto sia riduttiva e fuorviante una lettura della realtà criminale in chiave “mafiocentrica”, attorno alla quale ruoterebbe la zona grigia dei complici. Una visione smentita da tante pagine giudiziarie recenti. Oggi i boss sembrano piuttosto coltivare alleanze nell’ombra con imprenditori, uomini delle istituzioni, liberi professionisti, per inserirsi in “comitati d’affari”, nei quali però la regia sovente non è dei mafiosi. Basti pensare ai processi sulle frodi fiscali di Fastweb-Telecom Italia Sparkle, su Buzzi e Carminati, sullo smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi in Campania. Si ipotizzano “sistemi criminali a presenza mafiosa” che coinvolgono classi, ambienti e luoghi differenti tra loro. Se negli anni novanta certi “cartelli” si dedicavano agli appalti pubblici nell’edilizia, facendo lievitare notevolmente il costo delle opere a carico della collettività, oggi gli investimenti sono di altra natura. Dalle energie alternative alla grande distribuzione, dalla sanità privata alla tecnologia e all’immigrazione. Sono settori che hanno a che fare con i bisogni quotidiani di tante persone. E che per questo rendono più complicata l’azione repressiva.
2. C’era una volta il 416 bis
Quale rapporto tra le attuali forme di manifestazione della criminalità mafiosa e le norme alla base della repressione penale? L’autore si interroga sulle potenzialità applicative dell’art.416 bis. Una “norma di sistema” che laddove sia contestata, fa scattare uno statuto speciale: strumenti processuali più incisivi che sacrificano garanzie (intercettazioni, agenti provocatori, pentiti); strutture investigative e giudiziarie particolari (D.I.A. e D.D.A), regole penitenziarie ad hoc (artt. 4 e 41 bis O.P.).
Il saggio segnala come l’applicazione giurisprudenziale del 416 bis subisca oggi vistose oscillazioni, fuori dalle aree del paese storicamente connotate dalle mafie storiche. E invita a ragionare sulla ragionevolezza di un 416 bis a forte connotazione sociologico-ambientale alla luce delle nuove forme di criminalità mafiosa. Vi è da chiedersi se il requisito della “pubblica memoria” della capacità sopraffattrice di un sodalizio su un dato territorio, certamente riscontrabile in specifiche aree della Sicilia, della Campania e della Calabria, ancora oggi decisivo per tanti giudici, vada ragionevolmente attenuato. Quei requisiti, in effetti, risultano difficilmente dimostrabili in realtà del centro-nord, nonostante ormai tanti documenti ufficiali (sentenze, informative di polizia, atti parlamentari) attestino presenze dei clan consolidate e significative. Forse andrebbe attribuito maggior peso alla forza intimidatoria che promana da una pregressa (ancorchè recente) attività delinquenziale basata ad esempio sull’uso spregiudicato e prevaricatore della potestà amministrativa unita a potenzialità economico-finanziarie derivanti dal “capitale sociale” del clan (relazioni con ambienti istituzionali e imprenditoriali), al di là del dato territoriale sulla genesi del vincolo associativo. La questione è, attualmente, apertissima.
L’autore ci ricorda, comunque, come la nostra legislazione antimafia sia di assoluta avanguardia. E punta l’indice sugli “apprendisti stregoni”, presenti anche in Parlamento, che farebbero a gara a chi “la spara più grossa”, come accaduto in occasione della riforma del reato di patto di scambio elettorale politico-mafioso (416 ter c.p.). Probabilmente, sul piano repressivo, l’incisività del contrasto alle attuali forme di criminalità mafiosa più che attendere ulteriori novità dalla legislazione speciale, passa per un potenziamento della formazione e della specializzazione della magistratura e della polizia giudiziaria. Certe indispensabili risorse umane, in termini di capacità di lettura delle dinamiche delle pubbliche amministrazioni e del mercato economico-finanziario, non paiono distribuite in modo omogeneo sul territorio nazionale. E su questo versante occorre intervenire. Altrimenti i boss andranno a delinquere dove lo Stato non è in grado di capirli e, quindi, di scoprirli.
3. Una frettolosa lettura del populismo penale
Naturalmente non tutto è condivisibile delle tesi dell’autore. Non convince la parte in cui si ricostruiscono i destini giudiziari dei “politici amici dei mafiosi”.
In molte pagine, si enfatizza la tesi secondo cui non di rado i magistrati (in particolare i pubblici ministeri) si sentirebbero investiti di una “missione salvifica” pensando che “la questione criminale sia la principale chiave di lettura dell’intera storia del nostro paese”. Da ciò deriverebbe, per alcuni, una proiezione pubblica con la scrittura di libri, la partecipazione a convegni organizzati da associazioni di varia natura, le interviste alla stampa. Per l’autore, alcuni magistrati tenderebbero “a strafare”, con il rischio persino di forzare le opzioni sui tipi di incriminazione da applicare al caso concreto. E ciò contribuirebbe ad alimentare quel “populismo penale” che interferisce sulle dinamiche democratiche. Populismo su cui si accrediterebbero strumentalmente forze sociali, parlamentari e testate giornalistiche.
Riecheggiano, in diversi passaggi, le tesi sulla “anomalia italiana della cosiddetta magistratura militante”, formulate recentemente dal “maestro” dell’autore, Giovanni Fiandaca, e quelle sulla “società giudiziaria” dell’ex magistrato, già presidente della Camera, Luciano Violante. Ma quelle tesi sembrano muoversi “a senso unico” enfatizzando eccessi ravvisabili in condotte isolate. Certo, destano stupore vicende come quella del repentino passaggio di un noto magistrato dal ruolo di pubblico ministero in un processo ad altissima attenzione mediatica a candidato premier. Ma, al di là di sempre possibili eccezioni, quel caso non è il paradigma della magistratura italiana. Così, quando si affronta il tema delle iniziative giudiziarie nei confronti dei politici, per non alimentare una visione distorta delle cose, è bene dare il giusto peso a dati difficilmente confutabili. A partire dalla pressoché totale mancanza di forme di responsabilità politica che, in un paese in cui dilaga il malaffare, dilatano inevitabilmente il controllo penale.
Nella critica ai magistrati, l’autore, in altri termini, non evidenzia adeguatamente un leitmotiv degli ultimi venti anni. Nella selezione dei politici “degni”, i partiti hanno delegato alla magistratura l’individuazione dei “sintomi della inaffidabilità” e le “procedure” per la loro verifica. Si pensi non solo alle black list della commissione parlamentare antimafia (fondate sui decreti di rinvio a giudizio per reati di particolare allarme sociale), ma anche ai dispositivi della legge Severino o agli esposti per la verifica della regolarità di consultazioni primarie (per il PD a Napoli, Genova e Palermo). I partiti, soprattutto con “personaggi discussi” che drenano un ampio consenso elettorale, “stanno alla finestra” sino all’atto del giudice. E naturalmente ciò può determinare inconsapevoli eccessi di attenzione giudiziaria, poi cavalcati strumentalmente da voci disinvolte. I casi non sono mancati. Ma, come ricorda anche l’autore, tra i “politici di rango” processati a Palermo per reati di mafia, Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro sono stati condannati con sentenza definitiva; e Andreotti per i fatti precedenti al 1980 è stato “salvato” dalla prescrizione. A dimostrazione che la magistratura è rimasta saldamente ancorata a fatti specifici di rilievo penale; e non a fumose ipotesi di contiguità, buone solo per la stampa.
E ancora, il saggio trascura che gli stessi partiti che oggi si lamentano del “populismo giudiziario”, sono stati i primi ad affidare incarichi di governo locale o centrale a magistrati, o a candidarli alle elezioni politiche o a sindaci di importanti città. Tutto questo per far fronte alla crisi di autorevolezza e di credibilità in cui erano piombati. Insomma, la realtà è complessa. Dunque ridurre tutto al “protagonismo dei giudici” non aiuta a comprendere i difficili rapporti tra magistratura e politica.
Infine, nel valutare la forte esposizione della magistratura sul versante della ricerca delle responsabilità penali in ambienti politico-istituzionali, l’autore sembra sottovalutare un dato storico, nonostante sia stato testimone di eventi tragici che lo hanno segnato. La Palermo degli anni a cavallo tra il 1978 e il 1982 è stata teatro di forme estreme di violenza politica. Gli omicidi di Piersanti Mattarella, Cesare Terranova, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, per citare i più eclatanti, secondo una pluralità di pronunce giudiziarie, hanno una matrice politico-mafiosa. Ma a pagare sinora sono stati solo gli uomini delle cosche.
Si tratta di crimini che hanno inciso profondamente sugli scenari istituzionali della Sicilia e dell’Italia, così come le stragi del 1992-1993. Molti ancora sono i “pezzi mancanti” di quelle stagioni, grazie anche a colossali depistaggi. Un dato, tuttavia, pare ormai assodato. Ossia che i gruppi mafiosi abbiano agito come “braccio armato” di superstrutture criminali che coltivavano progetti di condizionamento degli assetti politici del nostro paese. Ciò viene affermato anche nella requisitoria del processo per la strage di via dei Georgofili a Firenze dai pubblici ministeri Gabriele Chelazzi e Giuseppe Nicolosi, che certamente non possono essere accusati di “protagonismo giudiziario”. D’altronde, nei ciclici frangenti di “sbandamento” del nostro sistema istituzionale, la storia di Cosa Nostra è intessuta di alleanze nell’ombra con ambienti economico-finanziari corrotti, gruppi eversivi e sottobosco politico. Di certe vicende la magistratura doverosamente si è occupata e continua ad occuparsene. E solo forme di incomprensibile “rimozione collettiva” giustificherebbero le critiche feroci verso coloro i quali, con le armi dello Stato di diritto, tentano o hanno tentato di far luce su pagine drammatiche della nostra democrazia.
4. Il valore del dialogo tra diverse generazioni
Al di là dei punti discutibili del saggio, due aspetti colpiscono il lettore sin dalle prime pagine. Il primo è la avvincente trama autobiografica che lega la narrazione di varie questioni. Visconti trae spunto non solo dalla sua esperienza professionale ma anche da una lunga stagione di impegno civile. Se è vero che, da oltre un quarto di secolo, studia l’ “anatomia dei processi” ai clan e ai loro complici, alimentando un confronto fecondo tra accademia, magistratura e foro. E’ anche vero che, dalla lettura del volume, si intuisce come la fonte di ispirazione di questo lavoro sia quella passione civile coltivata sin dall’esperienza di rappresentante studentesco del movimento antimafia, vissuta ai tempi della mattanza corleonese.
Qui entra in gioco il secondo aspetto prezioso del volume della Laterza: l’uso di un linguaggio accessibile a tutti. Non è consueto per un accademico. Ma nel nostro caso, non è neppure casuale. In realtà, l’autore tradisce l’esigenza di “raccontare la sua storia”. Il messaggio rivolto a chi non ha vissuto il periodo delle stragi, ma sarà interprete della società dell’avvenire. Sono i più giovani i destinatari di questa narrazione.
Lo si intuisce nel coinvolgente Post scriptum, in cui l’autore svela due dialoghi sulla mafia tra lui e i suoi figli, entrambi di minore età. Il libro, allora, sembra una occasione per parlare a ragazzi come loro dell’Italia di oggi: dei suoi eroi, dei suoi vizi, delle sue virtù, dei suoi giornali, della sua sicurezza pubblica e privata, della sua economia; in altri termini, della qualità della sua democrazia. D’altronde la longevità e l’espansione delle associazioni mafiose (le c.d. mafie storiche), presenti sul territorio nazionale da almeno un secolo e mezzo, forse si spiega proprio con le fragilità politiche, economiche, sociali e culturali del nostro tessuto democratico. E allora è giusto lavorare sulla conoscenza. Perché proprio la conoscenza rimane la prima arma nel contrasto ad ogni forma di prepotenza mafiosa.