Diverse sono le criticità emergenti da una prima lettura delle norme del Decreto legge nr. 132 del 12-9-2014 che riguardano l’istituto della separazione e del divorzio.
Gli istituti vengono regolati dal capo II del provvedimento, rubricato sotto il titolo “ Procedura di negoziazione assistita da un avvocato”, all’art. 6 e dal capo III che reca il titolo “ Ulteriori disposizioni per la semplificazione dei procedimenti di separazione personale e di divorzio”, al successivo art. 12.
L’ambito di materia viene delimitato alle ipotesi di soluzione concordata delle procedure di separazione e di divorzio (separazione consensuale e divorzio congiunto) e delle relative procedure di modifica delle condizioni di separazione e divorzio.
Il presupposto indefettibile, quindi, è la presenza del consenso delle parti, con esclusione, quindi, delle ipotesi contenziose.
Ancor più nel dettaglio, il legislatore, poi, limita la percorribilità della procedura ai soli casi di dissoluzione del nucleo familiare privo di prole minorenne, o di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti.
Si tratta di quelle ipotesi che gli operatori del settore definiscono, in termini gergali, le c.d. separazioni o divorzi “facili”, ossia quelle procedure ove siano assenti le implicazioni, non solo di natura economica, riguardanti i figli, perché non sono nati dalla coppia o perché, il che è uguale in termini giuridici, sono maggiorenni ed autonomi dal punto di vista economico.
E’ noto, peraltro, a tutti che, in effetti, la trattazione degli aspetti riguardanti la prole, per le importanti conseguenze che ne possono derivare in capo ai c.d. “soggetti deboli” (i figli), rappresentano per tutti i protagonisti della vicenda (le parti, il Giudice, gli avvocati, i consulenti) la parte più delicata; d’altronde, nell’orizzonte tematico della materia de qua, si può (anzi, si deve) sostenere la preminenza e prevalenza del primario interesse della prole rispetto a qualsiasi interesse in gioco.
Sin qui, dunque, la scelta del legislatore di operare una de-giurisdizionalizzazione di queste ipotesi non solo non è criticabile, ma appare corretta nel senso di lasciare maggior spazio e tempo ai Giudici di famiglia di occuparsi degli aspetti riguardanti la prole e del loro vitale rapporto con le figure genitoriali.
Non di meno, in questi tipi di procedure non sono assenti elementi dotati di rilevanza giuridica.
Si pensi alla possibilità per le parti di concordare un assegno di mantenimento per il coniuge che non abbia adeguati redditi propri o non possa procurarseli per ragioni oggettive; alle conseguenze giuridiche che derivano dallo scioglimento della comunione legale, che, nella proposta di legge sul c.d. divorzio breve in discussione al Parlamento, dovrebbe essere anticipata “alla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi innanzi al Presidente”.
Già qui si dovrebbe rilevare una mancanza di coordinamento tra le emanande norme, poiché, nelle ipotesi in commento regolate dall’art. 6 e dall’art. 12, non è specificato il momento perfezionativo di scioglimento della comunione.
Comunque, continuando nell’analisi del merito del testo legislativo, è indubbio che le due fattispecie, quella assistita dall’avvocato e quella innanzi all’Ufficiale di Stato Civile, si presentano, prima facie e in considerazione degli elementi sotto specificati, assolutamente identiche:
a) tipologia delle procedure: separazioni consensuali e divorzi congiunti e rispettive procedure di modifica
b) ambito della materia: procedure applicabili solo per coniugi privi di prole
c) effetti: entrambi gli articoli del decreto, al comma 3, sanciscono che “l’accordo tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi di cui al comma 1, i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione e divorzio”.
Diversi, quindi, sono solo gli attori protagonisti: l’avvocato, nell’un caso, l’Ufficiale di Stato civile, nell’altro.
Ora, in presenza di identità di presupposti, ambito di materia ed effetti, la domanda sorge spontanea: perché mai l’utente dovrebbe opzionare l’assistenza della negoziazione assistita da un avvocato, che, in ogni caso, ha un costo, in luogo di quella offerta dall’Ufficiale di Stato Civile, certamente gratuita, se non per i tributi verso lo Stato (peraltro modesti, perché presumo pari a quelli dell’attuale misura del contributo unificato per separazione consensuali e divorzio congiunti)?
Se, quindi, l’ipotesi formulata dovesse risultare corretta, ossia che il Legislatore ha offerto all’utente l’alternativa tra due strade assolutamente equivalenti (una sorta di compromesso tra le istanze di una categoria, quella degli avvocati, sempre più in crisi finanziaria, e le legittime aspirazioni dei cittadini a risparmiare sui costi delle prestazioni professionali, esigenza figlia della stessa crisi di cui sopra), si pone un primo problema di natura deontologica.
Per rispetto dei principi di correttezza, lealtà, probità che costituiscono i cardini della professione forense, la cui centralità è stata riaffermata con la recente modifica del Codice Deontologico Forense, l’avvocato cui si presenta una coppia che abbia i requisiti di cui sopra e richieda la sua assistenza per la risoluzione consensuale della vertenza familiare dovrebbe preliminarmente far presente ai clienti che possono avvalersi della procedura innanzi all’Ufficiale di Stato Civile, con costi decisamente inferiori.
E’ pur vero che nel Codice Deontologico non è previsto un apposito obbligo di informativa a carico dell’avvocato, nel senso che egli sia tenuto a mettere al corrente il cliente della possibilità di definire la propria vertenza con diversa procedura che non contempli il suo intervento.
Giova, però, rilevare, se non altro in via analogica, che, ad oggi, l’avvocato è invece obbligato ad avvisare il cliente della possibilità di accedere alla mediazione.
Ritengo, quindi, che l’avvocato, nel caso specifico, sia sottoposto a quest’obbligo deontologico, esattamente come dovrebbe già fare per quei Tribunali (pochi, per la verità) che consentono la presentazione personale del ricorso di separazione senza l’assistenza del difensore o, seppur in altra materia, indicare ai clienti, ad esempio, che la presentazione del ricorso per amministrazione di sostegno non necessita dell’assistenza legale obbligatoria.
Anzi, al fine di evitare potenziali segnalazioni al proprio Consiglio disciplinare, suggerirei a tutti noi avvocati di sottoporre all’approvazione per iscritto del cliente, magari unitamente al c.d. “preventivo di massima”, l’informazione di cui sopra.
Si può comunque tentare una interpretazione tesa ad individuare punti di differenza tra le due soluzioni.
L’art. 12 al co.3 prevede che l’accordo siglato innanzi all’Ufficiale di Stato Civile “ non può contenere patti di trasferimento patrimoniale”.
Espressione (per la verità, assai infelice dal punto di vista semantico) che non si ritrova all’art. 6, che disciplina la negoziazione assistita dall’avvocato.
Ragionando a contrariis si potrebbe pervenire alla conclusione che l’accordo raggiunto dai coniugi grazie all’opera dell’avvocato possa contenere “patti di trasferimento patrimoniale”.
Circa il significato da attribuire a tale locuzione, si può presumere che il Legislatore volesse riferirsi ai trasferimenti immobiliari che, da tempo, la Giurisprudenza consente come forma di datio in solutum dell’obbligo di solidarietà economica post-coniugale: nella pratica, sovente, l’obbligato, in luogo di corrispondere un assegno mensile periodico, preferisce estinguere il proprio dovere di mantenimento con il trasferimento della proprietà (solitamente, della sua quota di 50% del domicilio coniugale) al coniuge beneficiario.
Non può escludersi, però, che il Legislatore, con tale espressione, volesse riferirsi, più in generale, ad ogni e qualsivoglia disposizione di ordine economico (quindi, anche al classico c.d.“assegno divorzile” erogato a cadenza mensile) con la conseguenza che le ipotesi di soluzione consensuale innanzi all’Ufficiale di Stato Civile si limiterebbero alla certificazione della volontà espressa dai coniugi inerente solo al vincolo, senza la regolamentazione di nessun altro aspetto, sulla scorta di una rinunzia implicita e reciproca al diritto di mantenimento ed alla regolamentazione autonoma dei coniugi rispetto ad altre questioni patrimoniali derivanti dal loro rapporto.
Senonché, tale interpretazione limitativa delle attribuzioni spettanti all’Ufficiale di Stato Civile cozza contro il dato letterale della norma, che prevede l’intervento del funzionario pubblico anche in caso di modifica delle rispettive situazioni di separazione e divorzio, ampliando una competenza “nel merito” che, in caso di modifica delle condizioni di separazione e divorzio, non implica alcuna statuizione o certificazione sul vincolo coniugale, ma, necessariamente, si estende ad aspetti collaterali che è difficile immaginare non abbiano contenuto economico.
Senza voler indulgere in sterili polemiche o introdursi in aspri dibattiti dottrinari, solo ed esclusivamente preoccupato, come sono, di quanto un provvedimento così stringato, che ha l’aria di essere stato elaborato frettolosamente, possa generare confusione nell’applicazione per gli operatori che, quotidianamente, trattano questa materia, mi sento di poter affermare che le norme in questione paiono essere state formate senza l’ausilio necessario di persone che, appunto, quotidianamente trattano la materia.
Sarebbe stata sufficiente l’introduzione di un paio di sinteticissimi commi per dipanare qualsiasi dubbio interpretativo, che, fatalmente, sorgerà qualora il testo non sia modificato e non solo nelle parti qui specificamente trattate, ma anche rispetto ad altre rilevabili incongruenze, quali, ad esempio, la diversa disciplina della comunicazione dell’accordo da parte dell’avvocato (con conseguente abnorme sanzione a carico dello stesso in caso di omissione) all’Ufficiale dello stato civile competente, obbligo oggi spettante alla Cancelleria, (vedasi articolo 10 L.n. 898/1970), a fronte della “libertà” concessa agli utenti nel caso di separazione e divorzio innanzi all’Ufficiale di stato civile, posto che i coniugi, in questo caso, possono concludere l’accordo dinanzi a detto Ufficiale anche appartenente “ad un Comune diverso da quello in cui è stato celebrato il matrimonio”.