Magistratura democratica

Agire per tutti e per nessuno.
Appunti per una teoria processuale dei beni comuni

di Antonello Ciervo

L’obiettivo del saggio è quello di individuare quale tipologia di interesse, meritevole di tutela giudiziaria, sia sotteso alla categoria dei beni comuni. A partire dalla recente traduzione in italiano di un importante saggio di Yan Thomas, l’autore ritiene che la tutela processuale dei beni comuni potrebbe essere accostata a quella dei cd. “interessi diffusi”, sebbene tale tipologia di interessi non si adatti perfettamente alla particolare specificità dei beni comuni. In attesa di una presa di posizione da parte del legislatore sul punto, tuttavia, già la magistratura potrebbe dare riconoscimento giuridico a questa ulteriore species di interessi processuali, anche in continuità con la ormai consolidata giurisprudenza in materia di “interessi diffusi”.

«Hoc ius: nullum in his quae transeunt ius habere»

Ugo di Digne

1. Che cos’è una cosa?

La recente traduzione in italiano di un importante saggio dello storico del diritto francese Yan Thomas, La valeur des choses. Le droit romain hors la religion[1], ha aperto un nuovo spazio di ricerca per gli studi (non soltanto giuridici) in materia di beni comuni. Nonostante il lavoro di Thomas appaia, a prima lettura, molto distante dai temi oggetto di questo vivace dibattito scientifico – si tratta di un saggio sullo status giuridico dei beni nel diritto romano –, tuttavia, esso appare estremamente utile per provare a rileggere la questione dello statuto concettuale dei beni comuni in una prospettiva più articolata, che tenga conto cioè anche della possibilità di far valere in sede processuale le istanze dal basso che provengono dai cittadini, singoli o associati, a tutela di questa particolare tipologia di beni.

Una delle questioni che, in effetti, ha reso estremamente vivace, nel corso degli ultimi anni, il dibattito italiano sui beni comuni, è stata senz’altro quella della loro definizione giuridica che la Commissione Rodotà aveva provato ad introdurre nel codice civile, purtroppo senza successo[2].

In breve, le domande che ci si è posti, nel dibattito sui beni comuni, possono essere sintetizzabili nel modo seguente: una volta individuata l’esistenza di un bene comune – questione, in verità, di non semplice risoluzione, non soltanto teoricamente, ma anche praticamente – chi sarebbero poi i legittimi titolari di un simile bene giuridico? Meglio, quali soggetti sarebbero legittimati giuridicamente ad agire in giudizio per tutelare questa particolare tipologia di beni? Quale tipo di interesse giuridico sarebbe sotteso all’esercizio di un’azione giudiziaria volta a tutelare i beni comuni? Tale interesse, inoltre, assumerebbe una forma individuale oppure, come sembrerebbe più logico – in ragione della caratteristica strutturale di questa particolare categoria di beni –, collettiva[3]?

Questi interrogativi – che indubbiamente hanno dato (e continuano a dare) molto da riflettere alla dottrina – non sono di facile soluzione teorica, anche perché risentono di un’impostazione permeata da una visione individualista della proprietà, pubblica o privata che sia. Il giurista, infatti, una volta individuata l’esistenza di un bene, subito si pone il problema della sua titolarità e, contemporaneamente, si pone il problema di come attivare una tutela giuridica, individuale e/o collettiva, affinché il bene stesso non sia oggetto di lesioni e/o turbative - nella sua gestione, come nel suo godimento - da parte di un altro soggetto non titolato.

Si tratta, a ben vedere, dello schema giuridico classico che discende da secoli di utilizzo della categoria individualista-proprietaria nella legislazione privatistica e pubblicistica occidentale, uno schema mentale da cui difficilmente il giurista contemporaneo riesce ad affrancarsi[4]. Anche per questo motivo, è importante leggere con attenzione il saggio di Yan Thomas sul valore delle cose nell’esperienza giuridica romana: il nostro autore, infatti, ci ricorda come nell’antica Roma, «Il carattere patrimoniale e commerciale delle “res” non è mai stato formulato esplicitamente se non in modo negativo»[5].

Una volta qualificate le cose a partire da quello che esse non sono, infatti, si tratta di concepire l’idea stessa di una costituzione – ma io direi, meglio, di una “costruzione” – di tipo procedurale più che sostanziale dei beni giuridici, una costruzione che parta dall’assunto teorico che il giurista, da sempre, si serve di tecniche e strumenti per forgiare le categorie astratte con cui poi interpreta la propria realtà sociale[6], categorie che spesso sono delle vere e proprie finzioni[7].

Ancor prima, quindi, di domandarsi a chi appartengano le cose, bisogna chiedersi quante species di beni conosce un ordinamento giuridico: si trattava, nell’antica Roma, di una sorta di “finzione tassonomica” da cui obbligatoriamente doveva partire l’indagine del giurista, il quale distingueva tra cose che afferivano al diritto divino, cose che attenevano al diritto umano e – a loro volta, rispettivamente – al sacro, al religioso e al santo, da un lato, al pubblico e al privato, dall’altro.

Ed è proprio questo, a mio avviso, lo snodo teorico che differenzia l’esperienza giuridica romana da quella codicistica moderna (e contemporanea), ossia che le cinque species di res che i giuristi di lingua latina riconoscevano – a ciascuna delle quali corrispondeva uno statuto giuridico ontologicamente ben definito –, si ponevano tutte su un piano di “opposizione univoca” tra loro, non riconducibile alla dicotomia beni patrimoniali/beni extrapatrimoniali – o per lo meno non in prima battuta – e che obbligava «... a classificare il pubblico insieme con il privato, la città con gli individui, la divisione tra divino e umano, cosa che permette[va] di classificare [...] il pubblico con il sacro»[8].

Da questo snodo teorico è possibile desumere un tratto, per così dire, quasi antropologico che caratterizzava l’esperienza giuridica romana rispetto alla nostra: si trattava, in breve, di una particolare impostazione giuridica il cui obiettivo era quello di formulare una definizione dogmatica del diritto di proprietà meno curiosa di conoscere chi fosse il soggetto titolare di un determinato bene, ma più interessata ad inquadrare correttamente lo status giuridico delle cose[9]. Siamo di fronte, allora, ad un diritto che desumeva la possibilità della tutela giuridica di una “res” a partire dalla natura e dalle caratteristiche intrinseche del bene stesso, piuttosto che dal soggetto – pubblico, sacro o privato che fosse – che ne avrebbe dovuto tutelare le sue caratteristiche, oltre che goderne della disponibilità ovvero dei frutti.

La conclusione a cui giunge Yan Thomas è molto importante, non soltanto perché ci invita a guardare il diritto romano con occhi nuovi, ma perché ci consente di guardare anche alle categorie contemporanee che utilizziamo quotidianamente con maggiore consapevolezza – se si vuole relativizzandone la presunta pretesa di generalità ed astrattezza astorica –, consentendo così al giurista di aprire uno squarcio sul loro effettivo statuto epistemico[10].

Thomas, infatti, ci insegna che, nell’esperienza giuridica romana, «Ogni ricerca inscritta in una prospettiva ontologica, a partire dalla questione “che cos’è una cosa?”, bloccherebbe la possibilità di accedere alle cose del diritto o piuttosto al concetto di “cosa” che le coglie astrattamente»[11].

La nozione di “res”, quindi, era concepita come una “qualificazione giuridica” in senso stretto, poiché in quella particolare esperienza storica si chiamavano semplicemente “res” tutte le cose con cui si aveva a che fare o, per meglio dire, restando fedeli al pensiero del nostro autore, tutte le cose venivano intese «... come “affare”, come processo (res) che comporta qualificazione e valutazione della cosa oggetto di controversia (res)»[12].

Seguendo lo stile argomentativo di Yan Thomas – sempre in bilico sul filo del paradosso –, si potrebbe affermare, in estrema sintesi, che «la res è la res», un gioco di parole questo che potrebbe tradursi nel senso che nel diritto romano «la cosa è il processo». Non a caso è sempre Thomas a ricordarci che l’unica cosa che avevano in comune le “res” pubbliche, le “res” sacre, quelle religiose e quelle private, era il fatto di essere prese nel circuito della “res” procedurale, sebbene soltanto le cose private potessero essere apprezzate – diremmo noi oggi – economicamente, in una controversia davanti al giudice[13].

2. L’ossessione del soggetto

Ad avviso di Paolo Napoli, la riflessione di Yan Thomas sulla tipizzazione dell’uso dei beni all’interno dell’esperienza giuridica romana risulta assai feconda per il dibattito attuale sui beni comuni, in quanto l’intuizione che siano storicamente esistite determinate categorie di beni indisponibili e “fuori commercio” – in quanto funzionalmente connesse alle esigenze della città ovvero del culto sacro –, destituisce di interesse la soluzione del problema sulla titolarità di tali beni che, invece, possono essere considerati anche alla luce della loro funzione sociale.

In breve, nell’esperienza giuridica romana, si può affermare che esistessero delle cose “pubbliche” – ma anche “sacre”, «… protette non come oggetti di proprietà pubblica, bensì come zone di uso pubblico e come tali assolutamente indisponibili a titolo particolare: piazze, mercati, teatri, strade, fiumi, condotte d’acqua, ecc. Una volta isolata, questa area d’indisponibilità assoluta non concerne solo i privati cittadini ma anche la città; a prevalere, quindi, non è l’istituzione di diritto pubblico sulla libertà del privato, bensì il procedimento in sé che scaturisce dalla combinazione tra un vincolo istituzionale e un uso di cui beneficia una moltitudine di soggetti»[14].

Ad avviso di Paolo Napoli, quindi, è proprio in questo iato concettuale, in questo spazio che si apre ad una nuova immaginazione classificatoria dei beni giuridici che si dà lo “spazio del «comune»”, quello spazio cioè che «... delimita il raggio dell’azione di ciascuno e il contenuto dell’azione stessa, visto che quest’ultima si può realizzare tanto nell’accesso e nel godimento del bene, quanto in una procedura giudiziaria volta a proteggerne il vincolo di destinazione»[15].

Ma, allora, se è proprio questo lo spazio del “comune” – lo spazio cioè dell’inappropriabilità e della specifica destinazione all’uso sociale di un determinato bene –, dovrà essere proprio all’interno di questo iato concettuale che dovremo posizionarci per provare a coglierne le conseguenze processuali, ossia la possibilità di elaborare un approdo giudiziario per la tutela dei beni comuni.

In questa prospettiva, sarebbe utile provare a ripensare anche i diritti sociali o, più correttamente, l’erogazione dei servizi pubblici da parte dello “Stato persona”, in una prospettiva diversa da quella a cui tradizionalmente siamo stati abituati a concepirli. Al riguardo, allora, può essere strategico recuperare la dottrina istituzionalista francese di fine Ottocento che aveva provato a pensare il diritto non soltanto in una accezione positivista e statualistica, ma soprattutto in chiave funzionalista.

Seguendo la recente ricostruzione teorica di due autorevoli studiosi transalpini[16], è possibile provare a rileggere la teoria del “servizio pubblico” elaborata da Léon Duguit nella seconda metà del XIX secolo, così da riconsiderare questa categoria giuridica non soltanto come una mera obbligazione positiva dello Stato nei confronti dei propri cittadini[17], come tradizionalmente intesa dal costituzionalismo del secondo Novecento, bensì come una funzione necessaria alla generale interdipendenza che caratterizza ogni organizzazione sociale complessa, in una prospettiva – se si vuole – organicistica della società e del rapporto di quest’ultima con il Potere politico[18].

Ad emergere, dal recupero di questa tradizione giuridica poco considerata nel dibattito odierno mainstream, sarà un paradigma pubblico-regolativo funzionale ad una maggiore coesione economico-sociale delle comunità territoriali, un paradigma che non è certo improntato sulle tradizionali dicotomie “libertà/solidarietà”, “pubblico/privato”, ma che, invece, risulta «... implementato attraverso i valori contenuti nel principio di uguaglianza sostanziale e della giustizia sociale, con l’adozione di specifiche politiche di perequazione in settori dall’alto impatto economico-sociale», attraverso cioè un intervento pubblico in deroga alla regola della concorrenza e all’approccio economicistico “costi/benefici”[19].

In questa prospettiva, l’azione dei Pubblici poteri risulta molto più attenta alle esigenze della società nel suo complesso, andando al di là del binomio “sovranità/proprietà” che ha caratterizzato l’intera esperienza giuridica della prima modernità borghese, approdando così ad un recupero della dimensione sociale anche del diritto di proprietà, pubblico o privato che sia, per far emergere gli interessi collettivi e diffusi ad esso sottesi, oltre che alla funzione di garanzia dei diritti fondamentali riferibile ad una specifica comunità umana[20].

Ed è proprio a partire da questa funzionalizzazione nel godimento dei beni e dall’emersione di un tertium genus di interessi di natura collettiva e/o diffusa, che si può provare a costruire un approccio istituzionale e giudiziario ai beni comuni, al fine di ricomprendere anche la loro garanzia nelle maglie del processo[21]. Si tratta, a ben vedere, di inquadrare questo tertium genus in quello spazio proprio del comune di cui si diceva in precedenza, in quello spazio cioè in cui l’uso di un bene e la sua funzione giuridica sono pensati insieme a partire dalle sue caratteristiche intrinseche oggettive, andando al di là dell’imputazione individualistico-proprietaria, da un lato, ma anche spingendosi oltre quella di derivazione pubblicistico-collettiva, per recuperare così una valenza più genuinamente sociale ed inter-individuale del “terribile” diritto.

Come la “finzione tassonomica” di Thomas ci sollecita a superare la concezione individualistico-proprietaria propria del diritto privato codicistico, allo stesso modo il recupero delle teorie istituzionaliste francesi in materia di “servizio pubblico”, ci spinge a concepire i diritti sociali in una prospettiva funzionale alla tutela delle esigenze concrete di specifiche comunità di cittadini, andando oltre una visione collettiva e verticale, tipica del costituzionalismo moderno e contemporaneo, per approdare ad una concezione inter-individuale, orizzontale e “diffusa”, dell’erogazione e della tutela dei diritti sociali.

3. Quello che (ancora) non c’è: la legittimazione processuale ad agire a tutela dei beni comuni

Come ho avuto modo di evidenziare in precedenza, uno dei problemi teorici presupposti alla definizione giuridica dei beni comuni consiste nel fatto che, in generale, come è stato puntualmente evidenziato in dottrina, «… la ricezione di nuovi diritti ed interessi incontra il primo ostacolo nelle categorie fondamentali della dogmatica giuridica, in cui si è educato il giurista continentale: basti pensare alla stessa nozione di diritto soggettivo, costruita per situazioni connesse allo scambio economico»[22].

Se questo è vero per quanto concerne la qualificazione giuridica dei beni comuni sotto il profilo sostanziale, lo stesso ragionamento deve essere fatto anche per l’azionabilità in sede processuale della tutela di questa particolare tipologia di beni. Anche il diritto processuale, infatti, come il diritto sostanziale, è permeato da una dicotomia consolidatasi nel corso della modernità giuridica, ossia quella “diritto soggettivo/interesse legittimo” che, a dire il vero, più che permeare l’intero assetto processuale europeo, può essere considerata una peculiarità specifica dell’ordinamento italiano e transalpino, visto che l’interesse legittimo, in quanto tale, non è una categoria dogmatica individuabile in tutti i sistemi di civil law[23].

Come che sia, resta il dato di fatto che il nostro ordinamento processuale appare in tutto e per tutto plasmato sull’idea di diritto soggettivo, per quanto concerne il processo civile, e sulla dialettica “Stato-individuo”, invece, per quanto concerne la tutela degli interessi legittimi. Ciò ha determinato, anche nel più recente passato, un cortocircuito teorico (oltre che pratico), se solo si pensa all’emersione e al riconoscimento, in sede giurisprudenziale, dei cd. “interessi collettivi” e “diffusi”.

Un simile riconoscimento, infatti, non trova alcun fondamento costituzionale esplicito nell’art. 24 Cost., anche se in dottrina si è lungamente discusso sulla “riscoperta” di una implicita complessità strutturale del nostro sistema giuridico con riferimento alle situazioni soggettive meritevoli di tutela, in ragione di una «dimensione collettiva [...] pesantemente sacrificata dal progetto individualista» borghese, che si trova a fondamento della modernità giuridica[24].

Al riguardo, mi sembra interessante evidenziare come, con il prepotente emergere della necessità di tutelare una serie di interessi aventi natura intrinsecamente collettiva in sede processuale[25], la dottrina più attenta abbia parlato dell’emersione di interessi collettivi e diffusi come una sorta di tertium genus rispetto alle tradizionali situazioni giuridiche azionabili in giudizio che, proprio per la loro strutturazione teoretica individualistico-soggettiva, non erano in grado di assorbire le specifiche istanze processuali azionate da quelle formazioni sociali che pretendevano di essere legittimate ad agire in giudizio a tutela di determinati beni[26].

Non è un caso allora – e il parallelismo tra l’emersione di questi nuovi interessi e la categoria dei beni comuni risulta, a me pare, del tutto evidente –, se si è parlato al riguardo di nuovi interessi di natura adespota (quali sono più specificamente gli interessi diffusi) che appartengono a tutti ma, allo stesso tempo, a nessuno in particolare[27].

Certo, in quegli anni i due termini – “collettivo” e “diffuso” – venivano impiegati nel dibattito scientifico come se fossero sinonimi, mentre oggi gli interessi diffusi hanno ormai assunto una loro autonomia teoretica, in quanto interessi che, pur differenziandosi dal generale ed indifferenziato interesse pubblico, sono da intendersi come «... adespoti, privi di un titolare individuato ma tuttavia meritevoli di protezione e di attenzione; protezione assicurata dalle associazioni o dai comitati portatori di tali esigenze»[28].

Anche per questa particolare categoria di interessi azionabili in giudizio, inoltre, così come oggi avviene per i beni comuni, la dottrina del tempo ebbe modo di parlare di una «nebulosa dai contorni vaghi e oscillanti»[29], in quanto l’azionabilità processuale di tali interessi sarebbe stata indeterminatamente imputabile «... alla formazione sociale che agisce per il tramite dei soggetti portatori degli interessi diffusi e, che è lo stesso, questi soggetti operano (per conto) dell’intera formazione sociale»[30].

Ma ciò che distingue gli interessi collettivi da quelli diffusi, più specificamente, dal punto di vista oggettivo, consiste proprio nel fatto che mentre nel caso degli interessi collettivi «... il gruppo attraverso il quale l’interesse si esprime, presenta una ben precisa struttura organizzativa (ad es. un sindacato, un’associazione, ecc.) e quindi dell’interesse sono titolari tutti coloro che fanno parte di quel determinato gruppo [...], nel caso degli interessi diffusi, al contrario, il gruppo non presenta affatto una struttura organizzativa e dunque gli individui che si rifanno a detti interessi non rivestono la qualità di associati o comunque un particolare “status”»[31].

Non si può dimenticare, inoltre, che mentre un interesse collettivo tende ad avere come oggetto beni divisibili fra tutti i propri potenziali fruitori, l’interesse diffuso appare correlato, invece, alla fruizione di beni per loro natura “indivisibili” e, proprio per questo motivo, insuscettibili di appropriazione in via esclusiva da parte di un singolo, persona fisica o giuridica che sia, in questo modo avvicinandosi la categoria dell’interesse diffuso a quella più “generica” dell’interesse generale.

Il richiamo alla strutturazione teoretica degli interessi diffusi da parte della dottrina, a mio avviso, inoltre, torna utile anche per individuare quella categoria di interessi già riconosciuti dall’ordinamento positivo, oltre che dalla giurisprudenza, e che più facilmente consentirebbero di agire in giudizio a tutela dei beni comuni: in questa prospettiva, pertanto, un simile interesse ad agire troverebbe un proprio fondamento nella lettura in combinato disposto degli artt. 2, 3 (primo, ma soprattutto secondo comma), 24 e 43 della Costituzione.

Del resto, come è stato opportunamente evidenziato, una tutela effettiva degli interessi diffusi appare ancora, nel nostro ordinamento processuale, un ossimoro, poiché resta il dato di fatto che atti della pubblica amministrazione o comportamenti dei privati assunti in violazione di interessi ragguardevoli per la comunità, «... possano andare esenti dal controllo giurisdizionale, per il sol fatto di non potersi individuare un soggetto legittimato a far valere, in loro difesa, una posizione di vantaggio personale e differenziata»[32].

Ed è a partire da questo rilievo, dalla necessità cioè di trovare nuovi strumenti giuridici a fronte di situazioni nuove e non tassonomicamente ancora individuate dal nostro ordinamento giuridico (ma comunque meritevoli di tutela), che si potrebbero leggere in combinato disposto tra di loro i parametri costituzionali citati, per provare a riconoscere una nuova tipologia di azione processuale a tutela dei beni comuni.

L’idea di tutela, del resto, da sempre si pone al crocevia tra fatto e norma, tra realtà ed ordinamento giuridico: in qualche modo essa è una categoria che si pone «... aldilà del diritto e aldiquà del processo; essa sempre ri-media e perciò, indeterminando diritto soggettivo e actio, addita quello spazio sempre eccepito in cui un soggetto (singolare comune) può avere luogo»[33].

Si tratta, ancora una volta, quindi, di partire dal dato costituzionale per leggere in combinato disposto tra di loro parametri positivi già esistenti, utilizzando l’immaginazione che, come ci insegna la nostra tradizione giurisprudenziale, è forse la qualità migliore del giurista, il quale è sempre stato capace, da un lato, di presentire le novità che nascono a livello sociale e, dall’altro, di piegare in funzione di queste nuove esigenze sociali, strumenti giuridici che già sono presenti nel proprio ordinamento positivo[34].

[1] Il saggio, originariamente pubblicato negli Annales. Historie, Sciences sociales, n. 6, novembre-décembre 2002, pp. 1431-1462, è stato tradotto in italiano da Michele Spanò, con un saggio introduttivo di Giorgio Agamben. Nel corso delle prossime pagine farò riferimento alla versione italiana del testo, ossia Y. Thomas, Il valore delle cose, Quodlibet, Macerata, 2015.

[2] Per una ricostruzione del dibattito dottrinale italiano in materia di beni comuni e sui lavori della Commissione Rodotà, si vedano, rispettivamente, E. Vitale, Distinguendo. Un’applicazione alla dottrina dei beni comuni, in Diritto e Società, 2016, pp. 399 ss. e I. Ciolli, Sulla natura giuridica dei beni comuni, ivi, pp. 460-465. Si rinvia anche all’approfondito dossier in M. R. Marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombre corte, Verona, 2012, pp. 161-168.

[3] Il termine collettivo viene qui utilizzato, per il momento, in maniera a-tecnica. Interrogativi simili a quelli esposti nel testo, mi sembra siano sottesi, seppur in una prospettiva teorica differente, con particolare riferimento al diritto all’immagine, all’interessante lavoro di G. Resta, Chi è proprietario delle piramidi? L’immagine dei beni tra «property» e «commons», in Politica del diritto, 2009, pp. 567 ss.

[4] Sulla radicalizzazione dell’individualismo proprietario che ha permeato di sé tutta la riflessione giuridica moderna e contemporanea, si rinvia a P. Barcellona, L’individualismo proprietario, Giappichelli, Torino, 1987, pp. 40 ss.; sempre dello stesso autore, si veda anche Id., Diritto privato e società moderna, Napoli, Jovene, 1996. Osserva R. Messinetti, Nuovi diritti della persona e beni comuni, in N. Genga, M. Prospero, G. Teodoro (a cura di), I beni comuni tra costituzionalismo e ideologia, Giappichelli, Torino, 2014, p. 88, nota 3, come «... nel sistema del diritto privato, la nozione di bene in senso giuridico non appare tributaria delle qualificazioni economicistiche, ma è costruita sul modello del diritto di proprietà attraverso il riferimento all’idea dell’oggetto del diritto». Non è un caso, allora, se la proposta di legge della Commissione Rodotà ponesse come punto di partenza della riforma del codice civile proprio la riscrittura dell’art. 810, con l’obiettivo esplicito di riformulare i criteri di qualificazione dei beni giuridici prevista dal Codice in privati, pubblici e comuni.

[5] Così Y. Thomas, Il valore delle cose, op. cit., p. 22.

[6] Ivi, pp. 24-25.

[7] Sul ruolo delle finzioni nell’esperienza giuridica romana e medievale, si veda sempre Y. Thomas, Fictio legis. La finzione romana e i suoi limiti medievali, trad. it. a cura di M. Spanò, Quodlibet, Macerata, 2016, passim; è tornata su questi temi, da ultimo, anche E. Olivito, Le finzioni giuridiche nel diritto costituzionale, Jovene, Napoli, 2013, in particolare pp. 34 ss. Specificamente sul punto, si veda M. Barcellona, La metafora dei “beni comuni”: l’Impero, lo Stato e la democrazia nel tempo del capitalismo cognitivo, in Democrazia e diritto, 2016, pp. 7 ss.

[8] Così Y. Thomas, Il valore delle cose, op. cit., p. 27.

[9] Tuttavia, per una diversa impostazione teorica della questione, sempre in una prospettiva storico-giuridica, si rinvia al celebre lavoro di R. Orestano, Diritti soggettivi e diritti senza soggetto: linee di una vicenda concettuale, in Jus, 1960, pp. 161 ss.

[10] Su questo punto si considerino anche le osservazioni di E. Betti, Storia e dogmatica del diritto, in Id., Diritto, Metodo, Ermeneutica. Scritti scelti, Giuffrè, Milano, 1991, p. 585, dove il grande giurista camerte rifletteva sul ruolo delle categorie dogmatiche, spesso utilizzate dai giuristi contemporanei senza alcuna prospettiva diacronica. In questo senso, per Betti, le categorie dogmatiche sono da intendersi come delle funzioni logiche della nostra mentalità giuridica, acquisite ed educate con la tradizione e con l’esperienza e, quindi, storicamente contingenti, scientificamente controvertibili, ma non per questo meno necessarie per comprendere il diritto presente (e passato).

[11] Così Y. Thomas, Il valore delle cose, op. cit., p. 57.

[12] Ivi, p. 58.

[13] Ivi, p. 82.

[14] Così, diffusamente, P. Napoli, Indisponibilità, servizio pubblico, uso. Concetti orientativi su comune e beni comuni, in Politica & Società, 2013, p. 418.

[15] Ibidem.

[16] Cfr. P. Dardot, C. Laval, Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo, con una prefazione di S. Rodotà, trad. it. a cura di A. Ciervo, L. Coccoli e F. Zappino, Deriveapprodi, Roma, 2015, in particolare pp. 405 ss. Per uno sviluppo della prospettiva neo-istituzionalista dei beni comuni, si rinvia al saggio di M. Fioravanti, E. I. Mineo, L. Nivarra, Dai beni comuni al comune. Diritto, Stato e storia, in Storia del pensiero politico, 2016, pp. 89 ss.

[17] Cfr. L. Duguit, L’État, le Droit objectif et la Loi positive, Dalloz, Paris, 2003 pp. 2 ss.

[18] Si veda, al riguardo, sempre L. Duguit, Manuel de Droit constitutionnel. Théorie général de l’État, IV ed., Paris, E. de Boccard, 1923, p. 73, dove il servizio pubblico viene definito come «... ogni attività il cui adempimento deve essere regolato, assicurato e controllato dai governanti, poiché tale adempimento è indispensabile alla realizzazione e allo sviluppo dell’interdipendenza sociale, la quale, per sua natura, non può essere assicurata completamente se non con l’intervento di chi governa».

[19] Così A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 114.

[20] Cfr. L. Duguit, Les transformations du Droit public, 1950 [1912], Paris, A. Colin, pp. 52 ss.; sulla stessa scia A. Lucarelli, op. ult. cit., pp. 28 ss.

[21] Sul punto, per approfondimenti, si veda V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, in Politica del diritto, Cedam, Padova, 2014, in particolare pp. 16 ss.

[22] Così A. Giuliani, Giustizia ed ordine economico, Giuffrè, Milano, 1997, p. 174.

[23] Sulle trasformazioni strutturali e contenutistiche dell’interesse legittimo, si vedano, per tutti, F.G. Scoca, Attualità dell’interesse legittimo?, in Diritto processuale amministrativo, 2011, pp. 379 ss. e S. Cassese, Le trasformazioni del diritto amministrativo dal XIX al XXI secolo,in Id., Lo spazio giuridico globale, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 151 ss. Cassese, in particolare, individua nella supremazia della pubblica amministrazione, nella sussistenza di un régime administratif, concettualmente separato dal diritto privato e nell’istituzione di un regime giurisdizionale speciale – quale è quello, per l’appunto, del giudice amministrativo –, i presupposti teorico-pratici per la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi, in una prospettiva teorico-pratica speculare a quella sottesa alla tutela dei diritti soggettivi. Tali pre-condizioni sono comunque state messe in crisi, a livello continentale, dal processo di integrazione europea, come rilevato, sin dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, da E. Klein, L’influenza del diritto comunitario sul diritto amministrativo degli Stati membri, in Rivista italiana di Diritto pubblico comunitario, 1993, pp. 683 ss.

[24] Così P. Grossi, Le mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 43 ss. Sul fatto che l’art. 24 Cost. non contempli altre situazioni giuridiche tutelabili processualmente, oltre i diritti soggettivi e gli interessi legittimi, si veda V. Vigoriti, Interessi collettivi e processo: la legittimazione ad agire, Giuffrè, Milano, 1979.

[25] Il “leading case”, al riguardo, resta la sentenza n. 253 del 9 marzo 1973 del Consiglio di Stato, reperibile in Foro italiano, 1974, III, c. 33 ss., con cui la Suprema Corte amministrativa valutò ammissibile l’azione intentata dall’associazione Italia Nostra a tutela di un “interesse pubblico diffuso”, finalizzato alla salvaguardia del lago di Tovel, attraverso un’interpretazione estensiva dell’art. 26 del Rd. n. 1054/1924, allora vigente. Sulla vicenda storica della distinzione fra interessi collettivi e diffusi da parte delle Sezioni Unite della Corte di cassazione e dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, si veda A. Carratta, Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, in L. Lanfranchi (a cura di), La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 88 ss.

[26] Così M. Cappelletti, Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti alla giustizia civile, in Rivista di Diritto processuale, 1979, pp. 361 ss.

[27] Così ancora M. Cappelletti, Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi: atti del Convegno di studio (Pavia, 11-12 giugno 1974), Padova, Cedam, 1976, pp. 191 ss.

[28] Così, per tutti, G. Alpa, voce Interessi diffusi, in Digesto civile, IX, Utet, Torino, 1993, p. 609.

[29] La definizione nel testo è di R. Pardolesi, Il problema degli interessi collettivi e i problemi dei giuristi, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi, op. ult. cit., p. 241.

[30] Così M. Nigro, Le due facce dell’«interesse diffuso»: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro italiano, 1987, V, c. 7.

[31] In una prospettiva teorica condivisibile, si veda ancora A. Carratta, Profili processuali della tutela degli interessi, op. cit., p. 87.

[32] Così il consigliere di Stato N. Durante, La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, lectio magistralis svolta presso l’Università della Calabria, Cosenza, il 29 aprile 2015, dattiloscritto dell’intervento, reperibile online al seguente link: http://cds.sentenzeitalia.it/uploads/news_attachment/file/673/673/DURANTE_30_4_2015.pdf. Segue questa stessa linea teorica, anche D. Bonetto, Beni comuni, interessi comuni, rimedi individuali, in A. Quarta, M. Spanò (a cura di), Beni comuni 2.0. Contro-egemonia e nuove istituzioni, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 118 ss.

[33] In questo senso, condivisibilmente, M. Spanò, Il comune rimedio. Un’apologia minima della tutela, in A. Quarta, M. Spanò (a cura di), op. ult. cit., p. 143.

[34] Insistono sulla riattivazione di una dimensione immaginifica dello strumentario giuridico-istituzionale in materia di beni comuni, L. Coccoli, Al cuore del possibile. Comune e immaginazione istituzionale nella letteratura utopistica, in A. Quarta, M. Spanò, cit., pp. 23 ss.; G. Micciarelli, Le teorie dei beni comuni al banco di prova del diritto. La soglia di un nuovo immaginario istituzionale, in Politica & Società, 2014, pp. 123 ss.