The dark side of the moon.
Internet, ricerca scientifica e la sfida degli open commons
La dimensione globale di internet presenta uno scenario particolarmente favorevole per una riconsiderazione del rapporto tra beni e persone, che si ponga come alternativo al modello proprietario classico, attraverso la valorizzazione del profilo relazionale in luogo di quello individuale. Il presente scritto intende analizzare la teoria dei beni comuni con riferimento al sapere prodotto in ambito accademico e diffuso online in formato digitale. In particolare, si vuole riflettere sulla sua configurazione in termini di open access commons, quale presupposto per una valorizzazione di processi di produzione e diffusione della conoscenza maggiormente inclusivi e democratici
1. La circolazione della conoscenza attraverso le nuove tecnologie
Nel giro di qualche decina di anni, internet ha rivoluzionato il nostro modo di rapportarci con la realtà e di interagire con gli altri. Se originariamente si trattava principalmente di un sistema evoluto di comunicazione e di circolazione di informazioni, in tempi più recenti si è trasformato in un fondamentale strumento di socializzazione, ma anche di produzione, diffusione e conservazione della conoscenza, nell’ambito del quale l’utente abbandona la veste di mero fruitore, per assumere un ruolo progressivamente più attivo[1].
La possibilità di scambiare idee, opinioni, informazioni diviene sempre più importante ai fini delle relazioni intersoggettive e della stessa costruzione dell’identità personale[2], mentre il fatto di poter fruire delle risorse distribuite in rete si pone come presupposto per la partecipazione in società in condizioni di uguaglianza e libertà.
In tale scenario, non è solo la rete di per sé a venire in rilievo, ma sono soprattutto le risorse che in essa circolano ad aver acquisito importanza strategica: le nuove tecnologie hanno contribuito significativamente al passaggio da una “società industriale” ad una “società della conoscenza”.
Certamente, l’accesso alle informazioni era una questione rilevante già prima dell’avvento di internet, tuttavia, il modo in cui esse vengono ora prodotte, conservate e diffuse pone diversi interrogativi e determina il sovrapporsi di nuovi interessi, spesso contrastanti.
Man mano che la conoscenza ha acquisito maggior rilievo dal punto di vista sociale, politico ed economico, sono aumentate le tensioni per esercitare un controllo sulla stessa e la fervida adesione alle logiche del mercato, quale meccanismo in grado di contemperare costi e benefici del singolo e della collettività[3], ha fatto sì che la proprietà intellettuale si imponesse come modello egemonico, identificativo del rapporto tra beni e persone.
Così, le stesse tecnologie che consentono la più ampia fruizione del sapere sono state ripensate dalle imprese commerciali e utilizzate al fine di circoscrivere l’accesso a risorse precedentemente nella disponibilità comune[4].
Dal punto di vista giuridico, il web si presenta come il più ampio spazio pubblico e al tempo stesso come il luogo in cui trovano espressione una molteplicità di diritti individuali, con la conseguente necessità di una costante opera di bilanciamento tra istanze di esclusione, accesso, gestione e appropriazione[5]. Occorre inoltre considerare come la dimensione globale della rete, la difficoltà di esercitare un controllo effettivo sulla e nella stessa e la dematerializzazione dei contenuti che vi circolano abbiano contribuito a determinare una profonda disarticolazione di due concetti fondamentali della tradizione giuridica occidentale, quello di sovranità e quello di proprietà. Si tratta di due capisaldi della modernità, in ragione dei quali, sin dal Code civil francese, gli ordinamenti giuridici europei sono stati organizzati secondo il binomio pubblico-privato[6]: «Au citoyen appartient la propriété, et au souverain l’empire»[7].
Proprio in ragione di tali aspetti, la rete si presenta come uno degli scenari più stimolanti per una lettura del rapporto tra il “mondo delle persone” e il “mondo dei beni” secondo la logica dei beni comuni[8].
In questa analisi, l’attenzione si concentrerà su una specifica risorsa, il sapere prodotto nell’ambito della ricerca scientifica e diffuso online in formato digitale, il quale non solo assume rilevanza strategica rispetto alla distribuzione di potere tra gli attori sociali, ma risulta particolarmente interessante anche in considerazione del delicato atteggiarsi del binomio pubblico-privato.
2. Internet, proprietà intellettuale e beni comuni
La configurazione della proprietà individuale come necessario modello di regolazione del rapporto beni-persone, tipica del pensiero giuridico classico[9], ha trovato piena consolidazione nelle prime codificazioni, per divenire poi un elemento cardine dello stesso diritto privato europeo. Ciò emerge chiaramente dalle parole di Cambacérès, secondo il quale «la législation civile règle les rapports individuels et assigne à chacun ses droits, quant à la propriété»[10].
Tale impostazione ha ricevuto ampia legittimazione nel contesto sociale, economico, politico e culturale e, accompagnata dalla retorica della inevitabile inefficienza delle risorse lasciate in comune (the tragedy of the commons[11]), ha determinato l’imporsi della proprietà individuale come modello naturale e neutrale di gestione, trascurando gli effetti che ad essa conseguono sul piano della distribuzione di potere e nella determinazione di precise relazioni gerarchiche tra i soggetti[12].
Nel momento in cui i beni immateriali hanno iniziato ad acquisire rilevanza come potenziale fonte di profitto, ha preso il via quello che Boyle ha definito «The second enclosure movement»[13] e cioè la riproduzione del fenomeno che, a partire dal Quindicesimo secolo, ha visto la progressiva recinzione delle terre un tempo coltivate in comune[14]. Contestualmente, man mano che le tecnologie hanno aperto nuovi scenari e possibilità di sfruttamento delle risorse, si è posta l’esigenza di definire i diritti e i poteri di controllo sulle stesse ed è sembrato ovvio ricorrere al modello della proprietà individuale, attraverso la coniazione del termine «proprietà intellettuale»[15]. Un’analisi critica di tale elaborazione non può non tener conto dei presupposti storici che erano alla base di quell’istituto e delle caratteristiche specifiche dei beni cui fa riferimento, così da mettere in luce il carattere più simbolico che effettivo dell’assimilazione.
Almeno nell’impostazione di civil law, il concetto di proprietà è strettamente correlato a quello di possesso e i suoi elementi identificativi debbono essere individuati da un lato nella disponibilità diretta e immediata della risorsa, in virtù della sua materialità e, dall’altro, nell’esercizio dello jus excludendi alios. È evidente come, con riferimento alle risorse intangibili, il primo dei due elementi non sia configurabile, mentre il secondo presupponga una recinzione che può essere tracciata solo per via giuridica[16].
Quanto all’esigenza di prevenire la tragedia dei beni comuni, invocata tra le principali giustificazioni dell’istituto, occorre considerare come questa poggi le proprie basi su la scarsità, l’esauribilità e la rivalità dei beni materiali, caratteristiche che non assumono invece rilievo determinante con riferimento a quelli intangibili. Quest’ultimi possono essere riprodotti con facilità a costi trascurabili e più soggetti possono beneficiarne contemporaneamente senza che la risorsa si consumi e quindi senza pregiudicare un’analoga prerogativa in capo ai terzi; il riconoscimento di diritti esclusivi non può trovare allora la propria ratio nel rischio di un sovra-sfruttamento: nel caso della conoscenza è semmai il suo scarso utilizzo che ne inibisce le potenzialità, determinando effetti negativi per l’economia e per la società.
Secondo la retorica generale, l’attribuzione di “diritti forti” rappresenterebbe il necessario presupposto per incentivare il lavoro intellettuale, garantire il progresso e un’efficiente gestione delle utilità[17]. È questo il modello adottato dal Wipo Copyright Treaty del 1996[18], cui hanno fatto seguito negli Stati Uniti il Digital Millennium Copyright Act (Dmca)[19] del 1998 e la Direttiva 2001/29/Ce[20], in cui si afferma che «la protezione [del diritto d’autore e dei diritti connessi] contribuisce alla salvaguardia e allo sviluppo della creatività nell'interesse di autori, interpreti o esecutori, produttori e consumatori, nonché della cultura, dell'industria e del pubblico in generale» e la proprietà intellettuale viene riconosciuta come «parte integrante del diritto di proprietà»[21].
Eppure, proprio il richiamo ad uno dei campioni dell’individualismo proprietario, John Locke, permette di analizzare in chiave critica tale assunto. Se è vero che attraverso il lavoro il soggetto imprime sul bene le sue energie, trasformandolo in qualcosa di altro rispetto a come si presenta in natura e rendendolo suscettibile di appropriazione, nell’ambito della conoscenza non è possibile capire dove il contributo dell’uno finisca e quello dell’altro inizi. Ormai accantonato, se mai sia esistito, il mito dell’autore romantico[22] e quindi l’idea della creazione solitaria e individuale del sapere, occorre considerare come questo sia il frutto di un lavoro collettivo, di un processo consequenziale di input e output. In tale contesto, un sistema proprietario troppo stringente e l’eccessiva proliferazione di meccanismi escludenti possono determinare un sottoutilizzo delle risorse, un incremento dei costi per la produzione di nuove informazioni e causare così la cd. «tragedy of anti-commons»[23].
Tali considerazioni invitano allora a interrogarsi in merito alla configurabilità e idoneità di un modello di gestione distinto dalla proprietà classica.
Una delle analisi che ha contribuito maggiormente ad intaccare il predominio di quel sistema è stata sviluppata da Elinor Ostrom con riferimento alle Common Property Resources. Attraverso studi empirici, la premio Nobel dell’economia ha dimostrato che i membri di un gruppo possono gestire in modo efficiente una risorsa, senza il necessario intervento pubblico o il ricorso alla proprietà privata. Presupposto di tale teoria, almeno nelle sue prime elaborazioni, è un contesto ristretto, nell’ambito del quale riconoscere ad una comunità ben definita una serie di diritti, tra cui quello di escludere l’accesso e l’utilizzo di terzi[24].
Vi è in ciò il superamento dell’approccio individualistico tipico del modello classico di proprietà, ma continua ad esservi il riferimento a beni suscettibili di uso rivale e rispetto ai quali mantiene una funzione centrale lo jus excludendi alios, seppur ad esserne titolare sia un gruppo e non un singolo.
La conoscenza e in particolare la sua diffusione in uno scenario globale come quello offerto da internet, in cui non esistono confini, né una comunità ben definita, invitano a ripensare anche questo modello. Fondamentali in tal senso, sono state le elaborazioni di Rose in reazione ai “network goods”[25] e quelle di Frishmann in termini di “infrastructure”[26]. Partendo dalla configurazione giuridica delle strade o dei fiumi, per arrivare a internet e all’informazione, tali autori hanno posto le basi per riconoscere la sostenibilità sociale ed economica degli open commons: beni rispetto ai quali le esternalità positive derivanti dal libero accesso superano i costi necessari per garantirlo[27].
Con riferimento alla conoscenza, è proprio nel bilanciamento tra l’esigenza di incentivare il progresso e la fruizione della scienza da un lato e la remunerazione del lavoro cognitivo dall’altro che si colloca il difficile equilibrio tra open access e diritto d’autore.
Si tratta di una soluzione che non può essere individuata una volta per tutte, ma che richiede una certa flessibilità e la capacità di adattarsi all’evolversi delle tecnologie e alla specificità del contesto di riferimento.
3. La ricerca scientifica e la sfida dell’open access
Un esempio particolarmente rilevante di open commons è rappresentato dalle pubblicazioni accademiche distribuite online in open access.
La diffusione della conoscenza attraverso le nuove tecnologie rende oggi ancor più rilevante la questione che poneva Boyle qualche anno fa e cioè se la proprietà intellettuale assolva ancora il compito di «promoting the ideal of progress, a transparent marketplace, easy and cheap access to information, decentralized and iconoclastic cultural production self-correcting innovation policy», o se invece «the system that was supposed to harness the genius of both the market and democracy sometimes subverts both»[28].
I diritti di privativa non ostacolano di per sé le interazioni, si può anzi affermare che, se ben definiti, possano incentivare la cooperazione e il lavoro intellettuale[29]. Il problema è la loro proliferazione incontrollata e la tendenza a generalizzare tale modello, senza tener conto degli specifici contesti di riferimento.
Nell’ambito della ricerca accademica internet può rappresentare uno strumento di grande apertura e condivisione, così come lo scenario entro cui porre in essere meccanismi di enclosure della conoscenza. L’open access cerca di valorizzare il primo aspetto, enfatizzando le caratteristiche che rendono possibile il superamento delle barriere che, a livello giuridico, economico e tecnologico, ostacolano la fruizione delle risorse[30]. Al di là delle sue diverse declinazioni, l’open access può essere definito come quel sistema in virtù del quale un’opera in formato digitale è resa liberamente accessibile online, gratuitamente e senza bisogno di autorizzazioni per un numero indeterminato di soggetti, con il limite del riconoscimento della paternità dell’opera e del diritto dell’autore di mantenere un controllo sulla stessa[31].
Se i recenti sviluppi della proprietà intellettuale hanno determinato un progressivo spostamento dell’asse degli interessi a scapito della collettività, il nuovo approccio sembrerebbe pregiudicare l’autore, vanificando la possibilità di ottenere una congrua remunerazione per il lavoro svolto.
Tale conclusione non tiene conto delle peculiarità della risorsa cui si intende fare riferimento e cioè che la letteratura scientifica diffusa sul web è una produzione intellettuale esente da royalty e che, in quanto digitalizzata, è anche non rivale[32].
Occorre allora considerare le specificità del mondo accademico e delle dinamiche dell’editoria scientifica. A differenza di altri settori in cui opera il copyright (musicale, cinematografico o anche della manualistica scientifica), generalmente l’autore cede gratuitamente e in via esclusiva i propri diritti economici agli editori, con la sola condizione che siano tutelati i suoi diritti morali.
Come evidenziato da Suber, si tratta di un fenomeno strettamente collegato alla libertà scientifica dei ricercatori[33]: questi possono prestare minore attenzione ai diritti patrimoniali perché, grazie al sostegno economico loro garantito dai centri di appartenenza, dovrebbero essere sottratti alle leggi di mercato[34].
L’open access potrebbe allora rappresentare la soluzione idonea a garantire il più elevato soddisfacimento delle prerogative dei soggetti coinvolti: non solo l’interesse generale ad avere un accesso diffuso alla conoscenza, ma anche quello degli autori ad acquisire visibilità e incrementare la propria reputazione. Eppure, l’idea della recinzione o del riconoscimento di diritti individuali come presupposto di efficienza costituiscono ancora un topos ricorrente e l’editoria accademica continua ad incrementare i profitti e innalzare le barriere d’accesso.
A parte le reticenze dello stesso mondo accademico, in ragione di quelli che Suber definisce “stalli tragici”[35], uno dei fattori che permette agli editori di conservare tale posizione oligopolistica è rappresentato dall’attuale sistema di valutazione delle pubblicazioni scientifiche e delle carriere accademiche. Tra i principali parametri di analisi vi è il “prestigio” delle sedi editoriali in cui vengono pubblicate le opere, con la conseguenza che la decisione relativa a come, quando e dove diffondere i risultati delle ricerche diviene sempre meno una prerogativa dell’autore.
Questo meccanismo, legato alla classificazione delle riviste, si presta a produrre effetti egemonici sulla conoscenza, poiché il desiderio-necessità di veder accettato il proprio paper da una rivista cd. di “classe A” può indurre i ricercatori ad adeguarsi a determinati standard e preferire argomenti e approcci maggiormente “condivisi”. Così, se il fatto di non dipendere economicamente dai guadagni derivanti dalla vendita degli articoli dovrebbe consentire di scegliere il proprio campo d’indagine e, eventualmente, anche argomenti di “nicchia”, senza i condizionamenti delle aspettative del pubblico, gli attuali sistemi di valutazione finiscono con il riprodurre logiche estranee al mondo accademico, incidendo non solo sull’accesso ai risultati scientifici, ma sulla stessa libertà ed eterogeneità della ricerca.
D’altro canto, la diminuzione dei fondi pubblici, il costante incremento dei prezzi dei periodici scientifici e il comporsi di interessi economici e sociali che insistono sulla creazione e diffusione del sapere[36] sono idonei a generare effetti pregiudizievoli anche in termini di human divide: a livello locale, le biblioteche pubbliche assumono una posizione sempre più marginale e solo quelle con maggiori finanziamenti sono in grado di garantire ai “propri utenti” un ampio bacino di risorse; a livello globale si accentua il divario, in termini di accesso e di visibilità, nei confronti degli scienziati dei Paesi in via di sviluppo[37]. La disponibilità online dei prodotti scientifici permetterebbe non solo una maggiore fruibilità degli stessi, al di là delle barriere spaziali, ma anche di superare modelli di diffusione della conoscenza che, attraverso i principali canali di comunicazione, tendono a consolidare determinate egemonie culturali.
Non è un caso allora che anche a livello di politiche europee, le strategie di open access siano legate all’esigenza di rendere più trasparenti gli accordi conclusi con gli editori e all’obiettivo di favorire meccanismi di valutazione delle carriere accademiche che incentivino “una cultura di condivisione”[38]. Al tempo stesso, si mira a valorizzare la dimensione comunitaria dell’accademia e a riconoscere un ruolo attivo agli stessi ricercatori, ad esempio attraverso il potenziamento degli archivi istituzionali[39].
Tali approcci non vanno necessariamente visti in contrapposizione alla proprietà, quanto piuttosto come una riconsiderazione della stessa in relazione a finalità differenti da quelle classiche. La scelta di rendere la propria opera disponibile in open access non implica una rinuncia al diritto d’autore, così come quest’ultimo non ha come presupposto un comportamento egoistico. L’autore continua ad essere titolare dell’opera, ma esercita le proprie facoltà in modo compatibile con un’ampia fruizione della risorsa[40]. La tradizione giuridica ha dato prova dell’esistenza di diversi tipi di proprietà[41] e sebbene si sia affermato come predominante un modello escludente, non vi è motivo per non ammettere la configurabilità di una proprietà inclusiva. In tal senso, un ruolo fondamentale può essere assunto proprio dai beni comuni i quali, ponendosi “oltre il pubblico e il privato”[42], offrono le basi per una rimodulazione del rapporto tra titolarità e accesso[43].
4. I beni comuni come approccio contro-egemonico alla produzione e diffusione della conoscenza
Alla luce di quanto detto, ci si potrebbe interrogare in merito all’apporto degli open commons nell’ambito della produzione scientifica e, in particolare, in relazione alla loro capacità di porsi come presupposto per un approccio contro-egemonico alla diffusione della conoscenza; in contrapposizione a quelle dinamiche che, attraverso la configurazione della proprietà intellettuale come sistema neutrale di gestione delle risorse immateriali e il consolidamento degli attuali meccanismi di valutazione, hanno determinato un progressivo accentramento di potere nelle mani di pochi soggetti.
Sebbene la qualificazione di una risorsa come open commons non abbia di per sé una specifica connotazione valoriale[44], non possono trascurarsi le differenze rispetto al modello proprietario individuale, legate in primo luogo al fatto di fornire «symmetric use privileges to an open general class of users»[45] .
Garantendo la partecipazione di un più ampio numero di soggetti, la logica dei beni comuni risulta idonea a favorire lo sviluppo di processi economici e di elaborazione della conoscenza maggiormente inclusivi e democratici. Ciò assume un rilievo particolarmente significativo in ragione del ruolo strategico rivestito dalla scienza e dalla ricerca sia a livello sociale, che politico ed economico: «freedom of action in the commons provides room for experimentation not only in productive, material, and intellectual innovation, but in social relations and political action»[46]. Un accesso libero alla conoscenza consentirebbe non solo di mettere in discussione i centri egemonici di controllo del sapere, ma si porrebbe altresì come presupposto per una partecipazione consapevole e democratica nella società, per l’affermazione di una cittadinanza globale[47].
Una conferma della loro importanza è data dal fatto che le nuove forme di open access sono emerse dal basso, in contesti in cui si erano già consolidati modelli proprietari e nell’ambito delle economie e dei settori economici più avanzati. Come sottolinea Benkler, il passaggio «from asymmetric exclusive rights to symmetric use privileges underwrote a decentralization of innovation, creativity, production and exchange, and thereby permitted greater experimentation and diversity»[48].
In uno scenario caratterizzato da rapida crescita e trasformazione, l’innovazione è strettamente legata alla libertà di agire, sperimentare, esplorare e ciò diviene ancor più rilevante con riferimento alla ricerca scientifica[49], in ragione del processo di input-output e del cd. “shoulders of giants effect”[50].
I beni comuni implicano un cambio di rotta rispetto a un sistema in cui la regolazione dei rapporti, non solo economici ma anche sociali, è demandata alle logiche dell’efficienza economica[51]. Essi consentono un ripensamento del rapporto persone/beni che, attraverso una progressiva dispersione del potere e la valorizzazione di un approccio inclusivo e relazionale[52], sia idoneo a produrre effetti redistributivi su un piano di eguaglianza[53].
[1] Il riferimento non è tanto alle prime versioni di internet che consentivano di effettuare ricerche in rete, ma a scopi prettamente individuali, quanto al cd web 2.0 e web 3.0. Tali accezioni richiamano la nascita dei social network, di sistemi di diffusione di contenuti multimediali e del cloud computing e il conseguente progressivo utilizzo di internet come strumento di socializzazione e di raccolta di dati e informazioni.
[2] G. Marini, Diritto alla privacy, in A. Barba, S. Pagliantini (cur.), Commentario del codice civile, Diretto da E. Gabrielli, Utet, 2013, pp. 250 ss.
[3] A. Pradi, I beni comuni digitali nell’era della proprietà intellettuale, in A. Pradi, A. Rossato (curr.) I beni comuni digitali. Valorizzazione delle informazioni pubbliche in Trentino, Law and Technology Research Group Research Paper, Trento, 2014, p. 13.
[4] C. Hess, E. Ostrom, Ideas, Artifacts and Facilities: Information as a Common-Pool Resource, in Law and Contemporary Problems, 66, 2003, pp. 111 ss.
[5] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 108, 110 ss.
[6] S. Rodotà, Vers les biens communs. Souveraineté et propriété au xxi siècle, in Tracés. Revue de Sciences humaines, 2016, disponibile on line: http://traces.revues.org/6632.
[7] J.É.M. Portalis, Discours, rapports et travaux inédits sur le Code civil, Paris, 1844, p. 215.
[8] U. Mattei, The State, the Market, and some Preliminary Question about the Commons (French and English Version), 2011, disponibile on line: https://works.bepress.com/ugo_mattei/40.
[9] J. Locke, Capitolo V. Della proprietà, in Due trattati sul governo. Secondo Trattato, 1690, pp. 254-273.
[10] J.J.R. Cambacérès, in P.A. Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil, vol. I, Paris, 1836, p. 141.
[11] G. Hardin, The tragedy of the commons, in Science, 1968, pp. 1243-1248.
[12] Sul punto si vedano M.R. Marella, The Commons as a Legal Concept, in Law & Critique, 2016, pp. 1-26; S. Rodotà, op. cit., 2016.
[13] J. Boyle, The Second Enclosure Movement and the Construction of the Public Domain, in Law and Contemporary Problems, 66, 2003, pp. 33.
[14] Il termine “enclosure” è stato introdotto da Karl Polany, che descrive tale fenomeno in The Great Transformation. The Political and Economic Origins of Our Time, Boston, Beacon Press, 1944.
[15] L’idea stessa di proprietà intellettuale è relativamente recente, essendosi delineata intorno al Quindicesimo secolo, quando alcune scoperte tecnologiche, in particolare l’invenzione della stampa ad opera di Gutenberg, hanno determinato la riproducibilità dell’opera in un numero indefinito di copie, con conseguente difficoltà per l’autore di mantenervi un controllo. Sulle origini e l’evoluzione storica della proprietà intellettuale si veda M. Xifaras, Copyleft and the Theory of Property, in Eurozine (precedentemente pubblicato in francese in Multitudes 41, 2010), disponibile online: www.eurozine.com/articles/2010-09-16-xifaras-en.html.
[16] A. Gambaro, Ontologia dei beni e jus excludendi, in Comparazione e diritto civile, disponibile on line: www.comparazionedirittocivile.it/prova/files/rav_gambaro_ontologia.pdf, 2010; M. Xifaras, op. cit.
[17] A. Rossato, Sulla natura dei beni comuni digitali, in A. Pradi, A. Rossato (curr.) op. cit., p. 25.
[18] World Intellectual Property Organization: Copyright Treaty, Dec. 20, 1996, p. 36 I.L.M. 65, WIPO (1997).
[19] Pub. L. No. 105-304, 112 Stat. 2860 (Oct. 28, 1998).
[20] Direttiva 2001/29/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 maggio 2001, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione - Gazzetta ufficiale n. L 167 del 22/06/2001.
[21] Considerando n. 9 della Direttiva 2001/29/Ce.
[22] M. Rose, Authors and Owners: the Invention of Copyright, Cambridge, Harvard University Press, 1993, pp. 125-128.
[23] M.A. Heller, The tragedy of the anticommons: property in the transition from Marx to markets, in Harvard Law Review, 1998, pp. 621-688. Con specifico riferimento alla diffusione della conoscenza, si veda anche L. Fekete, The Production, Use and Dissemination of Knowledge and Information in the Global Communications Network, in Masaryk University Journal of Law and Technology, 3, 2009, pp. 239-258.
[24] C. Hess, E. Ostrom, op. cit., 2003, pp. 121 ss. Le AA. chiariscono la differenza tra Common Property e Open Access Regimes in relazione alla sussistenza o meno dello jus excludendi alios in capo a un determinato gruppo. Pur non riconoscendo un sistema o l’altro come necessariamente efficiente o inefficiente, ritengono che la sussistenza di tale diritto renda la gestione delle risorse più idonea al conseguimento di un risultato utile.
[25] C. Rose, The Comedy of the Commons. Commerce, Custom, and Inherently Public Property, in The University of Chicago Law Review, 53, 1986, p. 711; Id. Romans, Roads and Romantic Creators: Traditions of Public Property in the Information Age, in Law and Contemporary Problems, 66, 2003, p. 89. L’A. evidenzia un’analogia tra internet e beni quali le strade o i ponti, risorse che secondo il diritto romano potevano essere qualificate come res publicae. Il fattore che incide maggiormente nella loro considerazione come beni pubblici a libero accesso è il “network effect”: le linee di trasporto rendono il commercio sostenibile e in tal modo incrementano il valore di tutte le proprietà ad esse connesse, assicurando un beneficio sociale. Alla base di tale costruzione vi è una sinergia e non un antagonismo con la proprietà privata.
[26] B.M. Frishmann, An Economic Theory of Infrastructure and Commons Management, in Minnesota Law Review, 89, 2005, p. 917; Id. Infrastructure. The Social Value of Shared Resources. Oxford/New York: Oxford University Press, 2012. Il riferimento è a beni essenziali per la produzione di altri beni, per lo più con particolare rilievo pubblico o sociale.
[27] Y. Benkler, Commons and Growth: The Essential Role of Open Commons in Market Economies, in The University of Chicago Law Review, 80, 2013, p. 1499; Id. Open Access and Information Commons, in F. Parisi (cur.), Oxford Handbook of Law and Economics: Private and Commercial Law, 2016.
[28] J. Boyle, The Public Domain. Enclosing the Commons of the Mind, New Haven & Yale University Press, London, 2008, pp. 8-9.
[29] C. Rose, op. cit., 2003, p. 103.
[30] P. Suber, Creare un bene comune attraverso il libero accesso, in C. Hess, E. Ostrom (cur.) La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica. Ed. italiana a cura di P. Ferri, Milano, Mondadori, 2009, pp. 177 ss.; R. Caso, La via legislativa all’Open Access: prospettive comparate, Trento Law and Technology Research Group Research Paper, 2014, p. 5.
[31] P. Suber, op. cit.
[32] L’Open Access è strettamente correlato alla portata globale di internet. Per avere un bene comune Open Access non è sufficiente che il titolare dei diritti acconsenta ad abbattere le barriere che ostacolano il libero accesso, ma è altresì necessario che l’opera sia digitalizzata e distribuita online. P. Suber, op. cit., p. 193.
[33] Il riferimento è a chi, a prescindere dal titolo accademico, svolge ricerca all’interno dell’Università o altro istituto di ricerca.
[34] P. Suber, op. cit., p. 184.
[35] Con “stallo tragico” si intende fare riferimento alla situazione in cui diversi soggetti sono accomunati dall’intento di raggiungere un determinato risultato, ma sono portati ad attendere o rimandare e nessuno vuole agire per primo per paura di veder ricadere su di sé i costi iniziali che lo stesso richiede. P. Suber, op. cit. pp. 196 ss.
[36] Il riferimento non è solo al potere contrattuale nella distribuzione delle licenze, generalmente in forma di bundling, ma anche al ruolo sempre più rilevante di alcuni operatori in merito alla “selezione” della conoscenza, attraverso l’indicizzazione e la catalogazione delle riviste scientifiche. C. Hess, E. Ostrom, op. cit., 2003, pp. 136-137; R. Caso, op. cit., 2014, pp. 3-4.
[37] Il sistema di valutazione dei prodotti accademici ha reso centrale il ruolo di alcuni strumenti di analisi quale il Science Citation Index. Secondo un sondaggio condotto nel 1995 e che nell’arco dei successivi dieci anni non sembra aver subito modifiche sostanziali, meno del 2% delle riviste indicizzate proviene da Paesi in via di sviluppo. W.W. Gibbs, Lost Science in the Third World, in Scentific American, 1995, pp. 92-99, cit. in C. Hess, E. Ostrom, Un Framework per l’analisi dei beni comuni della conoscenza, in C. Hess, E. Ostrom (cur.) op. cit., nota n. 14, p. 63.
[38] Art. 1 Raccomandazione della Commissione del 17 luglio 2012 sull’accesso all’informazione scientifica e sulla sua conservazione (2012/417/Ue).
[39] In dottrina è stata messa in luce la differenza con i social network scientifici. Sebbene entrambi consentano un’ampia diffusione dei risultati della ricerca, quest’ultimi sono organizzazioni for profit e il libero accesso è mediato da enti con un significativo potere economico e commerciale, interessati alla raccolta e all’analisi dei dati gratuitamente offerti dai ricercatori. Essi offrono minori garanzie in termini di trasparenza, conservazione dei dati nel tempo, privacy e gestione dei diritti di proprietà intellettuale e, a differenza dei repository istituzionali, tendono a privilegiare gli individualismi dell’autore in luogo della dimensione collettiva della ricerca. R. Caso, La scienza aperta contro la mercificazione della ricerca?, in Rivista critica del diritto privato, 2016, pp. 243 ss.; L. Svantesson, Open Access – Making Research Available via the EUI Repository, Cadmus, in EUIReview, 2011, pp. 22-24; G. Hall, What does Academia_edu’s Success Mean for Open Access? The Data-Driven Worls of Search Engines and Social Networking, disponibile online: http://blogs.lse.ac.uk/impactofsocialsciences/2015/10/22/does-academia-edu-mean-open-access-is-becoming-irrelevant, 2015; C. Hess, E. Ostrom, op. cit., 2009, pp. 61 ss.
[40] G. Donadio, Open Access, Europa e modelli contrattuali: alcune prospettive sui beni comuni, in Rivista critica del diritto privato, 2013, pp. 116 ss.
[41] S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà. In La proprietà nel nuovo diritto, Milano, Giuffrè, 1954, p. 159.
[42] M.R. Marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, Ombre corte, 2012. Si tratta di un aspetto centrale della proposta di riforma del Codice civile elaborata nel 2007 dalla Commissione Rodotà.
[43] S. Rodotà, op. cit. 2013; A Rossato, op. cit., 33; M.R. Marella, op. cit., 2012 e 2016.
[44] C. Hess, E. Ostrom, Introduzione. Panoramica sui beni comuni della conoscenza, in C. Hess, E. Ostrom, op. cit., 2009, pp. 17 ss. Sottolineano le AA. come alla base della scelta di un modello giuridico vi sia la composizione di una molteplicità di interessi, in relazione ai quali gli esiti delle interazioni tra beni e persone potrebbero essere i più vari.
[45] Y. Benkler, op. cit., 2016.
[46] Y. Benkler, op. cit., 2013, p. 1546.
[47] S. Rodotà, op. cit., 2013, pp. 130 ss.
[48] Y. Benkler, op. cit., 2016.
[49] Y. Benkler, op. cit., 2013 e 2016.
op. cit.[50] Il richiamo è all’aforisma attribuito a Newton e ripreso da Bernard de Chartres: «If I have seen further, it is by standing upon the shoulders of giants» e si riferisce a quanto si è detto circa il carattere inevitabilmente cumulativo della conoscenza e della produzione intellettuale.
[51] A. Pradi, op. cit.
[52] U. Mattei, op. cit.
[53] U. Mattei, op. cit.; M.R. Marella, op. cit., 2016.