Crescita “inclusiva” e lotta alle disuguaglianze
Le disuguaglianze economiche stanno crescendo all’interno di molti Paesi, mentre si stanno riducendo quelle tra Paesi avanzati e Paesi emergenti.
Nell’area più avanzata l’aumento maggiore si registra negli Stati Uniti; in Europa gli andamenti medi rivelano forti differenze tra i Paesi del Nord, con livelli sostanzialmente stabili, e Paesi del Sud, tra cui l’Italia, che hanno visto al contrario aumentare le disuguaglianze al loro interno. Dietro questo andamento non è rinvenibile alcun trend strutturale, ma grandi ondate cicliche di crescita e successiva riduzione.
Globalizzazione, progresso tecnologico, finanziarizzazione delle economie, inefficacia delle politiche fiscali e del welfare sono tra i principali fattori alla base dell’aumento delle disuguaglianze, che va contrastato mediante politiche di “crescita inclusiva”, orientate a ripristinare il giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici compromesso nella fase del liberismo ideologico e della globalizzazione senza regole.
Un fenomeno articolato e complesso
In uno dei suoi ultimi interventi come presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha definito la lotta alle disuguaglianze economiche come la sfida politica fondamentale della nostra epoca. È proprio così e sono in molti oggi a riconoscerlo. Nelle terapie da applicare, tuttavia, siamo ancora ben lontani da misure e interventi di qualche significato. Occorre far presto, viceversa, prima che certe tendenze perniciose, oggi pericolosamente in atto, arrivino a compromettere ancor più il tessuto e la tenuta sociale su cui si basano i sistemi democratici del nostro Paese come degli altri Paesi più sviluppati.
In questo mio intervento mi occuperò delle disuguaglianze da un punto di vista più strettamente economico. Partendo da un dato di fatto. Le disuguaglianze economiche rappresentano un fenomeno assai articolato e complesso, che non si presta a facili generalizzazioni, a causa di andamenti molto differenziati tra le diverse aree e Paesi.
Va aggiunto che esiste una implicita difficoltà di misurare un tale fenomeno. Sono utilizzabili una molteplicità di indicatori che possono far riferimento al reddito disponibile o a quello pro capite, alla ricchezza o, al contrario, a misure della povertà assoluta o relativa. Anche i dati da utilizzare possono provenire da fonti ufficiali o da indagini campionarie dedicate. Non sorprende, dunque, che non esista affatto univocità di risultati e indicazioni nei tanti studi che sono stati finora effettuati. In questo mio breve intervento utilizzerò dati e evidenze cosiddetti di “consensus” soprattutto con riferimento alle analisi più recenti.
Sono diminuite tra Paesi a livello mondiale
Una tendenza da cui partire è ciò che sta avvenendo a livello mondiale. Mentre le disuguaglianze stanno crescendo, in effetti, all’interno di molti Paesi, quelle tra Paesi – avanzati e emergenti – misurate su scala globale sono significativamente diminuite in questi ultimi due decenni. Lo si deve soprattutto allo spettacolare sviluppo della Cina negli ultimi trent’anni e degli altri Paesi emergenti.
È un fenomeno, quest’ultimo, di cui si parla poco da noi ma che è ovviamente di grande rilevanza per due motivi in particolare: in primo luogo nei Paesi emergenti, in particolare nell’Asia del Pacifico, in controtendenza rispetto a ciò che sta avvenendo nell’area più avanzata si è formato un ceto medio, in forte aumento a partire dall’inizio del nuovo secolo, e che si prevede crescerà ulteriormente, arricchendosi di un altro miliardo di persone da qui al 2030; in secondo luogo questa ascesa del nuovo ceto medio asiatico ha messo in moto una significativa redistribuzione di reddito e ricchezza a livello mondiale, tuttora in corso, che ha influito molto anche sulla crescita delle disuguaglianze nell’area più avanzata. I suoi costi e oneri di aggiustamento – come dirò più avanti – si sono riversati in questi anni soprattutto sul fattore lavoro e sui ceti più poveri e disagiati. Pur con forti differenze da Paese a Paese.
Nell’area più avanzata l’aumento maggiore si è avuto negli Stati Uniti
Nell’area più avanzata la disuguaglianza economica è fortemente aumentata soprattutto negli Stati Uniti e a partire dagli anni Novanta. Un aumento confermato misurandola sia prima dell’imposizione fiscale e dei trasferimenti (la cosiddetta “disuguaglianza di mercato”) sia dopo aver calcolato imposte e trasferimenti (“disuguaglianza netta”). L’aumento è proseguito anche negli anni dopo la Grande crisi del 2008-2009. A beneficiarne è stata una esigua minoranza, ovvero un gruppo assai ristretto di percettori di reddito appartenenti alla classe più elevata, quella dell’uno per cento.
Diverse analisi hanno messo in luce come la forte sperequazione dei redditi e della ricchezza americani sia tra i fattori determinanti la Grande crisi, dal momento che ha contribuito a creare una crescente divaricazione fra la crescita della capacità produttiva (offerta), da un lato, e quella dei redditi (domanda), dall’altro. Un divario che è stato coperto per molti anni dal massiccio aumento dell’indebitamento privato e dagli strumenti della finanza creativa, ma che è poi esploso con la crisi finanziaria del 2007-2008. È divenuto così evidente come le crescenti disuguaglianze non siano più solo un problema di equità ma siano poi divenute in questi anni anche un problema di efficienza ovvero di penalizzazione della capacità di crescita di un’economia.
Forti disparità in Europa
Nel caso dell’Europa e, dell’area euro in particolare, gli andamenti medi mostrano tendenze molto meno pronunciate della crescita delle disuguaglianze e rivelano, soprattutto, forti disparità tra Paesi del Nord Europa che hanno sostanzialmente mantenuto livelli stabili e i Paesi del Sud – tra cui figura l’Italia – che hanno visto, al contrario, aumentare significativamente al loro interno le disuguaglianze sotto diverse forme.
In questo caso bisogna guardare alle disuguaglianze misurate dopo aver tenuto conto dell’imposizione fiscale e dei trasferimenti. I sistemi sociali di redistribuzione hanno giocato in effetti un ruolo chiave, portando nei Paesi del Nord alla stabilizzazione delle disuguaglianze in termini di redditi netti, mentre il contrario è avvenuto nei Paesi del Sud Mediterraneo e nel nostro Paese. Se guardiamo all’Italia, ad esempio, i redditi medi delle famiglie italiane hanno subito, a partire dal 2007, una netta flessione e sono ritornati ai livelli di inizio anni Novanta. I giovani in particolare hanno pagato – e stanno pagando – un prezzo elevatissimo.
Va aggiunto che nei Paesi del Nord europeo – soprattutto in quelli scandinavi come la Finlandia e la Danimarca – livelli relativamente bassi di disuguaglianza si sono associati a un tasso relativamente elevato di mobilità sociale. L’opposto è avvenuto nei Paesi del Sud Europa compresa l’Italia, caratterizzati da più elevati livelli di disuguaglianza dei redditi unitamente a più bassi tassi di mobilità intergenerazionale (sociale).
Nessuna tendenza strutturale ma cicli prolungati
Un fenomeno complesso come la crescita delle disuguaglianze economiche e sociali ha naturalmente molteplici cause. Va comunque fatta una premessa importante: non è rinvenibile nessun trend strutturale dietro gli andamenti più o meno recenti delle disuguaglianze. È quanto aveva sostenuto, viceversa, per molto tempo e con successo l’economista Simon Kuznets. Il vincitore del premio Nobel ipotizzava che un portato inevitabile dello sviluppo fosse inizialmente la crescita della disuguaglianza all’interno di un Paese, mentre il raggiungimento di fasi più avanzate dello sviluppo avrebbe coinciso con una permanente riduzione dello stesso fenomeno. Un’ipotesi autorevole ma seccamente smentita dalle evidenze oggi disponibili. Più che disegnare una curva la dinamica della disuguaglianza nei vari Paesi sembra seguire grandi ondate cicliche, per cui tende prima a salire per poi discendere e poi salire ancora in un moto apparentemente senza fine. Tutto ciò lascia intuire il ruolo assai importante nel disegnare questi andamenti svolto dalle politiche economiche e dagli interventi discrezionali messi in atto dai singoli Paesi.
Globalizzazione, progresso tecnologico e finanziarizzazione tra i fattori determinanti
Tra i molteplici fattori che hanno contribuito all’aumento delle disuguaglianze, tre meritano una menzione particolare anche perché hanno influenzato in modo fondamentale la fase che l’economia mondiale sta attraversando.
Innanzi tutto la globalizzazione e la conseguente nuova concorrenza dei Paesi dell’Asia Pacifico, prima di tutto la Cina. Essa ha favorito fenomeni di frammentazione della produzione e la formazione di catene globali del lavoro (Gvc), con la delocalizzazione nei Paesi emergenti – da parte dei Paesi più avanzati – dei comparti e delle fasi produttive a più alta intensità di lavoro. Tutto ciò ha avuto tra le sue conseguenze la creazione di un eccesso di forza lavoro a più bassa specializzazione negli Stati Uniti e in Europa, penalizzando il lavoro poco qualificato in termini di salario e occupazione.
In secondo luogo le caratteristiche dell’innovazione e del progresso tecnologico con la diffusione di quello che si può definire a tutti gli effetti un nuovo paradigma tecnologico e produttivo. Il potenziale di innovazione dei modi di produzione è fortemente aumentato nell’area più avanzata e ha avviato una stagione di automazione quasi integrale della produzione manifatturiera, con fondamentali ripercussioni sul mercato del lavoro. La diffusione della robotizzazione e delle tecnologie digitali ha portato in effetti a una forte sostituzione del lavoro nelle mansioni più di routine.
In terzo luogo la forte finanziarizzazione delle economie che ha portato a partire dagli anni ’80 e fino all’inizio della Grande crisi a mercati finanziari sempre più aperti e interdipendenti a livello mondiale e caratterizzati da forte mobilità dei capitali finanziari. L’affermarsi di una finanza globale – dopo che per decenni nel dopoguerra i mercati finanziari erano rimasti chiusi e protetti – è stato un pilastro portante dello sviluppo prima e del consolidamento poi dell’economia globale. Allo stesso tempo la crescente finanziarizzazione e rilevanza dei processi di innovazione finanziaria ha contribuito in molti Paesi a accentuare la concentrazione del reddito prodotto in poche mani.
Il ruolo chiave delle politiche fiscali
In ultimo, ma non certo da ultimo, vanno menzionate le politiche fiscali e di welfare messe in atto dai vari Paesi. Esse hanno avuto un ruolo determinante nel mitigare o meno gli effetti sulle disuguaglianze derivanti dagli altri fattori prima menzionati. Sono queste politiche ad aver determinato in larga misura gli andamenti diversificati delle disuguaglianze, tra Europa e Stati Uniti da un lato e all’interno dell’Europa dall’altra.
Nei Paesi dove la disuguaglianza è più aumentata sono state innanzi tutto le politiche fiscali ad aver offerto un contributo determinante, spostando progressivamente l’onere fiscale sui redditi medi e il lavoro, con forte riduzione della progressività. Lo conferma il fatto che la quota delle imposte sul reddito – un tipo di imposizione in prevalenza progressiva – ha costantemente perso d’importanza sul totale delle entrate fiscali, mentre sono aumentate fortemente le quote provenienti dai contributi sociali, dall'Iva, e da altre imposizioni sulle transazioni. Ciò è successo in Italia e in altri Paesi. Ed è in qualche modo paradossale che in tutti questi anni in cui si è sempre esaltata la centralità del lavoro l'imposizione fiscale sui salari sia aumentata nel tempo e sia diminuita quella sui capitali e sulla ricchezza.
Forti differenziazioni nelle politiche di welfare
Altre politiche importanti ai fini delle disuguaglianze sono state quelle – come già detto – del welfare e dell’accesso a una serie di beni pubblici come sanità e istruzione praticate nei vari Paesi. Dopo la crisi i costi dello Stato sociale sono aumentati un po' ovunque. I livelli di spesa sono triplicati rispetto agli anni Sessanta, anche se con intensità diverse da Paese a Paese. Nella media dei paesi Ocse l’incidenza sul Pil della spesa pubblica sociale è salita così al 21,9 Pil negli ultimi anni, con incidenze molto più alte in Europa, in particolare in Francia (oltre il 31 per cento), leggermente meno in Italia (28,9 per cento).
Anche se tutti hanno speso di più, molto diversa è stata l’efficacia degli incrementi di spesa. In generale i Paesi del Sud Europa, e tra di essi l’Italia, pur adottando un modello sociale di assistenza universale – servizi pubblici garantiti a tutti – sono riusciti poco e male a contrastare l’aumento delle disuguaglianze. In Italia ad esempio la voce pensioni e sanità copre più dei due terzi dell’intera spesa pubblica sociale, mentre del tutto inadeguate sono le risorse pubbliche destinate ai poveri, ai disabili, alle politiche per la casa e alle famiglie.
I rischi crescenti delle tendenze in atto
Il fatto è che molte delle scelte fatte sono state presentate e giustificate in questi anni sul piano teorico e pratico come necessità imposte dalle superiori esigenze delle forze di mercato. Si è a lungo sostenuto che tassare il lavoro più del capitale – e la relativa disuguaglianza che ne conseguiva – fosse funzionale al sostegno della crescita. Anche perché avrebbero generato maggiori incentivi sia per il binomio risparmi-investimenti che per quello innovazione-imprenditorialità. Innalzare la dinamica di crescita sarebbe poi andato a vantaggio di tutti, anche dei lavoratori e delle classi più povere, attraverso i cosiddetti fenomeni di percolazione (trickle-down growth or economics).
Non è andata affatto così, come sappiamo. Abbiamo avuto in realtà una crescita più bassa e soprattutto sempre più “esclusiva”, perché a beneficio di pochi. Questa crescita più modesta e esclusiva è andata così di pari passo con una serie di fenomeni negativi per la maggioranza delle popolazioni, producendo oltre che maggiori disuguaglianze dei redditi una più bassa mobilità sociale, meno assistenza sanitaria, più elevata disoccupazione strutturale e una educazione più scadente per le famiglie più povere.
Che fare?
In realtà le tendenze negative in atto sul piano delle crescenti disuguaglianze e disagi sociali non sono affatto – come si è prima affermato – il portato inevitabile delle grandi trasformazioni in corso. Si possono in realtà contrastare e modificare mettendo in campo delle nuove e buone politiche. Come ricordava spesso uno dei padri della moderna economia di mercato l’economista americano e premio Nobel Paul Samuelson scomparso qualche anno fa, il mercato di per sé non ha né cuore né cervello e ha dunque bisogno di guida e di misure di compensazione, che solo l’intervento della mano pubblica è in grado di assicurare. Per questo Samuelson asseriva che un efficiente funzionamento dell’economia si basa su un giusto equilibrio tra azione del mercato e dello Stato. Contrapposizioni nette tra le due sfere o la predominanza di un termine rispetto all’altro sono sempre situazioni rischiose, e ancor più fonte di instabilità e problemi seri. Una piena conferma è venuta da ciò che è avvenuto nei tre decenni a cavallo tra la fine e l’inizio del nuovo secolo e fino alla Grande crisi globale. Il giusto equilibrio è stato rotto e sistematicamente alterato a vantaggio del ruolo del mercato coll’affermazione dominante del paradigma neo-liberista. Le sue ipotesi portanti sono state mercati e attori perfettamente efficienti e razionali, in grado di garantire sempre all’economia equilibri ottimali e di piena occupazione. La Grande crisi si è incaricata di demolire alla radice tali ipotesi. È necessario ora cercare di ristabilire quell’equilibrio a partire dal contrasto alle crescenti disuguaglianze.
Politiche e interventi da poter attuare
Si devono mettere in campo strumenti e misure d’intervento che siano in grado di migliorare l’uguaglianza delle opportunità oltreché colmare le disuguaglianze nelle condizioni di partenza, realizzando allo stesso tempo una combinazione virtuosa tra una efficace effettiva redistribuzione e un adeguato dinamismo dei mercati.
Per ragioni di tempo mi limiterò solo a elencare una serie di misure, un insieme di interventi che sarebbe importante mettere in atto, nella generalità di molti Paesi e in particolare da noi.
In primo luogo va combattuta la disoccupazione che resta a livelli molto elevati in molti Paesi europei. La disoccupazione ha un impatto estremamente negativo sulle condizioni di vita di una larga parte della società. Determina effetti negativi, come sappiamo, anche sulle potenzialità di crescita a medio e lungo termine dell’economia. L’elevata disoccupazione giovanile è un dato particolarmente allarmante. Un prolungato periodo di disoccupazione dopo la fine degli studi, quando un giovane lavoratore dovrebbe acquisire le sue prime esperienze formative, può arrivare a segnarne negativamente la futura carriera di lavoro. Di qui la necessità di rinnovate e efficaci politiche macroeconomiche e del lavoro nazionali e europee che siano in grado di creare adeguate opportunità di lavoro a differenza di quanto si è verificato nel recente passato.
In secondo luogo è necessario rinnovare e rilanciare le politiche sociali e di welfare. Come già detto esistono oggi marcate differenze nella efficienza dei sistemi di welfare nazionali. Le politiche di welfare di molti Paesi non sono state in grado di assicurare un adeguato contrasto e riduzione delle disuguaglianze economiche. La riforma dei sistemi e delle politiche di welfare in direzione di una loro maggiore efficienza si presenta come una priorità importante da soddisfare, a partire dal nostro Paese e dagli altri del Sud Europa.
In terzo luogo servono misure e interventi dirette a ripristinare un soddisfacente grado di mobilità sociale. Essa si è fortemente deteriorata in associazione alla crescita delle disuguaglianze, in particolare in molti Paesi del Sud Europa. Si sono così fortemente ridotte le opportunità per i figli delle famiglie più povere e svantaggiate. Di qui la necessità di misure e politiche educative per l’infanzia e per l’avvio al lavoro che possano svolgere un ruolo chiave nel ripristinare una soddisfacente mobilità sociale.
In ultimo – ma non certamente perché meno importante – serve una maggiore progressività nelle politiche fiscali, con l'applicazione di una maggiore progressività dell'imposta sui redditi, che oggi grava troppo sui redditi più bassi, il ripristino o l'aumento delle imposte sull'eredità e sugli immobili eccedenti una certa soglia. È ormai ampiamente dimostrato nella letteratura più recente – vedi anche i contributi del Fondo monetario internazionale - la piena compatibilità tra questo tipo di scelte in campo fiscale e una crescita economica sostenuta. Le politiche redistributive utilizzabili per ridurre le disuguaglianze sono in grado di generare effetti positivi anche sulla dinamica di crescita di un Paese, grazie a tutta una serie di favorevoli impatti di natura indiretta. Allo stesso tempo andrebbero formulate politiche fiscali in grado sia di ridurre i costi di aggiustamento alle trasformazioni in atto dei giovani e delle famiglie sia che di meno penalizzino le spese per l’istruzione e gli investimenti.
Serve una crescita inclusiva
Queste e altre misure vanno in direzione di quella che viene oggi chiamata una “crescita inclusiva” a differenza della esclusione e delle disuguaglianze generate dallo sviluppo negli ultimi due decenni. Il carattere inclusivo della crescita sta nella creazione di opportunità per tutti i segmenti della popolazione di un Paese, così da realizzare una loro equa distribuzione. Essa va nella direzione di riaffermare quel delicato giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici che è alla base dell’efficiente funzionamento di un’economia di mercato orientata alla crescita.
Un equilibrio che negli ultimi decenni – come si è detto – la fase del liberismo ideologico e della globalizzazione senza regole ha spezzato, generando disuguaglianze e crescenti instabilità, oltre a una eccessiva concentrazione del potere economico e finanziario nelle mani di una ristretta élite.
Sono misure e interventi che devono interessare prima di tutto le politiche nazionali. Mentre a livello europeo è importante che si crei un contesto in grado di favorire e incentivare le scelte in tale direzione dei singoli Paesi. C’è subito da aggiungere che siamo oggi purtroppo ben lontani da tutto questo. Ed è tuttora difficile scorgere segnali incoraggianti. Si corre il rischio, viceversa, che il costo di servizi e beni pubblici fondamentali, come infrastrutture, sanità, scuola venga sempre più addossato sulle spalle di redditi e ceti medi falcidiati in misura crescente dai costi di una crisi di cui non siamo ancora riusciti a intravedere una vera via di uscita.
Un forte cambiamento è necessario. Ma occorre far presto, prima che certe tendenze negative, pericolosamente in atto, si consolidino e arrivino a minare la tenuta sociale su cui si basano le nostre democrazie, offrendo ai populismi e nazionalismi in ascesa un po’ ovunque in Europa un fertile terreno per una loro ulteriore diffusione e affermazione.