I beni comuni come istituzione giuridica
In questo saggio l’autore affronta il tema dei beni comuni nella prospettiva dell’ecodiritto e cioè di un sistema di regole ispirato alla protezione della natura e prodotto dalle comunità impegnate nell’attività di cura dei commons. Il testo è tratto da Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni di U. Mattei e F. Capra, di recente edito per i tipi di Aboca (San Sepolcro, 2017).
1. I beni comuni e il loro governo relazionale
Non esiste una definizione giuridica riconosciuta dei beni comuni. Tuttavia, vi è un consenso di massima tra studiosi per non considerarli né privati né pubblici né merce né oggetto o parte dello spazio, materiale o immateriale, che un proprietario, pubblico o privato, può immettere sul mercato per ricavarne il cosiddetto valore di scambio. I beni comuni sono riconosciuti in quanto tali da una comunità che si impegna a gestirli e ne ha cura non solo nel proprio interesse, ma anche in quello delle generazioni future. Essi sono, infatti, per citare il noto studioso di diritto delle proprietà Stefano Rodotà, l’opposto della proprietà privata. Inoltre, nella filosofia giuridica oggi emergente, che è riflessa nelle esperienze di co-housing e nei vecchi assetti di villaggio, la cosiddetta proprietà privata rappresenta in effetti soltanto un’eccezione ai beni comuni ed è garantita a seconda dei bisogni variabili. Per esempio, quando i figli crescono e vanno via di casa, una famiglia si trova ad avere magari una camera da letto di troppo, mentre se dovesse ospitare gli anziani genitori, sarà necessario spazio in più. In questi casi, se la proprietà presa dai beni comuni (ad esempio da un monastero ristrutturato o dagli edifici di un progetto di co-housing) viene temporaneamente privatizzata e posta sotto le cure e il controllo di una persona, il risultato non è l’accumulo.
Quando gli spazi non risultano più necessari per l’uso privato, debbono essere restituiti ai beni comuni, per essere gestiti e usati dalla comunità. I beni comuni, pertanto, non sono nemici della proprietà individuale, ma soltanto degli eccessi legati al suo accumulo. Allo stesso modo non sono ostili al Governo, ma si prefiggono soltanto di limitare le concentrazioni eccessive di potere, attraverso decisioni dirette assunte dalla comunità, in base al riscontro da parte dei fruitori. In effetti, quest’ultimo aspetto è importante, ma le istituzioni politiche elette generalmente sono troppo lontane da dove le loro decisioni avranno un impatto, mentre i singoli rappresentanti politici sono troppo impegnati per decidere adeguatamente tutto. Un bene comune può essere qualsiasi cosa che la comunità riconosca tale da soddisfare un bisogno reale, fondamentale, al di fuori dello scambio di mercato. Oltre allo spazio fisico pubblico, nella nozione possono anche rientrare organizzazioni istituzionali quali le cooperative o le comunità, i trust gestiti nell’interesse delle generazioni future, le economie di villaggio, i dispositivi per la condivisione dell’acqua e molte altre strutture organizzative sia antiche sia contemporanee. L’utilità del bene comune è creata dall’accesso condiviso da parte della comunità oltre che dal processo decisionale diffuso a tutti i livelli.
Le istituzioni comunitarie, attraverso un controllo diretto e reciproco e un’azione di accompagnamento e sostegno, tendono a contrapporsi al profitto, alla disuguaglianza e al difetto di lungimiranza. Le istituzioni dei beni comuni funzionano attraverso il conferimento di potere giuridico diretto ai loro membri – nella ricerca condivisa di un significato o una funzione generativi – e rispondono a bisogni umani concreti di partecipazione, sicurezza e socialità. Lavorando dal basso, esse hanno il potenziale di fare proprio il cuore del sistema giuridico, rappresentando una rete capace di agire secondo logiche di cooperazione e di partenariato. Dato che gli appartenenti alla comunità sperimentano modelli di divisione del lavoro diversi dallo sfruttamento, il loro tempo si libera per attività di proselitismo, organizzazione e connessione che permettono alla rete di crescere e acquisire sempre più importanza.
Nella sfera pubblica, un determinato spazio fisico può essere o non essere definito bene comune e ciò dipende dal suo uso o dalla sua capacità di assolvere ai bisogni fondamentali di una comunità, presente e futura che sia. Per esempio, anche se una stazione ferroviaria dismessa può essere privatizzata e trasformata in centro commerciale, essa può anche essere riconosciuta quale bene comune e tutelata come tale, perché permette di offrire un ricovero ai senza tetto, un palcoscenico per artisti di strada o una sede per l’associazionismo politico.
È indifferente che il titolo di proprietà sia in ultima analisi pubblico o privato, di un’azienda o di un comune; l’importante è che lo spazio promuova un’attività collettiva generativa e non sia gestito in base a un modello di esclusione, estrattivo, interessato solo ai profitti e alla rendita. Vietando l’estrazione di profitto, un’istituzione comunitaria libera una quantità significativa di risorse, da destinare a un uso sociale o ambientale (un tipico esempio sarebbero i pacchetti retributivi dei Ceo[1]). Di conseguenza, la gestione di una stazione ferroviaria come bene comune può rivelarsi altamente sostenibile, in quanto la componente commerciale dell’attività può ampiamente sostenere quella non commerciale. Per esempio, in un community land trust l’affitto di spazi costosi può finanziare l’alloggio per persone a basso reddito.
Oggi, il grave depauperamento delle nostre risorse naturali e culturali comuni rende imperativa la correzione dello squilibrio di potere tra settore privato, pubblico e dei beni comuni. L’armonizzazione delle leggi dell’uomo con i principi dell’ecologia richiede, come minimo, lo sviluppo di un settore dei beni comuni e delle istituzioni a esso associate, solido e tutelato legalmente. Occorre partire dalla base del pensiero ecologico e critico, coltivare la diversità, la resilienza e le reti sociali che permettano di cambiare il mondo dal basso.
2. I beni comuni tra Medioevo e modernità
La modernità ha delegittimato la maggior parte delle istituzioni vitali e prospere dei beni comuni, le cui radici, nell’esperienza occidentale, risalgono agli inizi del Medioevo. Non soltanto la foresta e il villaggio nelle campagne, ma anche le gilde degli artigiani nelle città – in cui pittori, scultori, artigiani e notai apprendevano il mestiere dopo lunghi e spesso duri anni di apprendistato – erano istituzioni al contempo giuridiche, politiche ed economiche, in contesti storici in cui, come nei villaggi rurali odierni del Sud del mondo, gli individui si legavano gli uni con gli altri in una relazione permanente di reciprocità e obblighi collettivi nei confronti della comunità. Mentre l’Umanesimo, forse a giusto titolo, contestò, nel nome dell’autodeterminazione dell’individuo, gli aspetti oppressivi insiti nel vecchio ordine della comunità, il capitalismo si può dire che gettò il bambino con l’acqua sporca portando la società attuale a uno stato caratterizzato dalla “folla solitaria”[2].
Non ha alcun senso la nostalgia di un ordine finito da tempo né ci aiuta negare il progresso apportato dal capitalismo in molti campi tra cui per esempio la medicina. Mentre molte persone oggi, soprattutto in Occidente, avvertono l’assenza di una comunità, nessuno sente la mancanza del tipo di vita agricola di sussistenza dei tempi pre-moderni. Oggi si sviluppano a qualsiasi latitudine forti legami tra componenti di comunità che contestano l’ordine giuridico costituito, rischiano l’arresto e altre sanzioni a causa di lunghe lotte collettive per proteggere un territorio dalla fratturazione idraulica o dall’estrazione oppure un edificio pubblico dalla svendita. Tali relazioni hanno la potenzialità di portare alla trasformazione, necessaria nel XXI secolo, da homo economicus a homo ecologicus. La rottura brutale con la coscienza medievale, da noi descritta sopra, ha impedito lo sviluppo graduale di un ordinamento giuridico basato sui beni comuni, in cui la teoria giuridica avrebbe potuto purificare la comunità dai suoi aspetti non desiderabili. Nel XIX secolo, Ferdinand Tönnies propose una nozione giuridica di Gemeinschaft (comunità) contrapposta a Gesellschaft (società) che è rimasta però insufficientemente teorizzata[3]. Tuttavia, la durezza originaria di nozioni quali “sovranità” o anche “proprietà” è stata smussata da aggiustamenti legislativi riflesso di tensioni sociali. Per esempio, svariate dottrine sulla separazione dei poteri hanno limitato l’autorità sovrana, distribuendola tra varie istituzioni politiche e non vi è alcun motivo per non credere che un analogo processo possa verificarsi con la comunità. Le persone, per scelta o necessità, partecipano alla cura di beni che riconoscono essere comuni. In tal modo, esse investono in un’attività definita dal premio Nobel Elinor Ostrom «communing», traducibile con «fare comune».
Proprio come per i beni comuni, non c’è una definizione univoca per il commoning che rimane un’attività non scindibile dai primi, a meno di non utilizzare l’idea cartesiana di separazione del soggetto dall’oggetto. In questa sede ci limitiamo a presentare alcuni aspetti fondamentali del “fare comune” tendenzialmente presenti in vario grado ogni volta che si manifesti un’esperienza di questo genere. Principio organizzativo essenziale e onnipresente è l’aspetto che mette assieme cura, dovere, reciprocità e partecipazione. Si tratta di trascorrere molto tempo insieme per prendersi cura, con grande attenzione e pazienza, di una realtà riconosciuta come bene comune. In tale processo gli individui, accomunati da un obiettivo collettivo, istituzionalizzano la loro volontà generale di mantenimento di ordine e stabilità nel perseguimento dei loro fini. Da un punto di vista ecologico, le istituzioni di comunità sono altamente virtuose, poiché evitano sprechi nei consumi e nello sfruttamento. Fatto importantissimo, il commoning non si prende soltanto cura dei beni comuni esistenti; ne genera anche di nuovi e sociali perché, nel fare insieme, le persone si scambiano idee e creano nuove opportunità; ciò dà vita al sapere collettivo necessario per risolvere i problemi sistemici odierni.
3. Rigenerare i beni comuni
Gli spazi comuni fisici e virtuali sono stati annientati dalla logica individualistica e dalle istituzioni legali del capitale; responsabili di questa situazione sono le istituzioni della proprietà estrattiva. Al fine di evitare tali disastri sociali e ambientali, i beni comuni invocano un riconoscimento e una tutela da parte del diritto ecologico; per questo motivo, il sostegno destinato alla rigenerazione di istituzioni con condivisione del potere, devastate dal capitalismo, e la mitigazione delle conseguenze letali di centinaia di anni di violazioni dei principi dell’ecologia – le vere “leggi della natura” – necessiteranno di un cambiamento globale e radicale delle leggi umane estrattive. Come è possibile, però, portare a termine un compito di così ampia portata? Potremmo iniziare studiando come gli scienziati affrontano il problema dei laghi e dei bacini marini colpiti dall’eutrofizzazione (una crescita vegetale eccessiva stimolata da elevate concentrazioni di sostanze nutrienti). Un esempio molto noto è la crescita disordinata di alghe che si nutrono di fosfati e nitrati, scarti dell’agricoltura chimica intensiva. Questo può perturbare l’equilibrio ecologico di un corpo idrico (per esempio un lago) distorcendo la resilienza naturale dell’ecosistema in maniera tale da impossibilitarne la rigenerazione. Una soluzione consiste nell’identificare l’elemento di corruzione il suo ruolo nell’innescare una catena di risultati ecologici negativi. Gli ecologisti procedono poi a isolare alcune parti del lago dall’elemento corruttore, lasciando ai processi naturali il tempo di ripararsi. Una volta che una piccola area è ritornata in salute, diviene possibile estendere progressivamente la superficie delle reti sane, finché alla fine tutto il lago non è risanato. Grazie a questa procedura ecologica incrementale, che può essere prescritta per legge, si possono ottenere eccellenti risultati. Concepire una cura ecologica simile equivale a considerare le istituzioni giuridiche estrattive della modernità – la sovranità statale e la proprietà privata – come “fioriture algali” delle leggi dell’uomo o come persici del Nilo nel lago Vittoria. L’eco-alfabetizzazione diffusa tra i giuristi e il pubblico in generale ci permette di identificare il problema e i suoi effetti, mentre la progettazione eco-compatibile, basata sulla ricchezza di esperienze passate e presenti, darà forma ai rimedi da noi proposti, i quali dovranno essere sperimentati in una prassi diffusa e in politica. Un bacino idrico non si rigenera di colpo; analogamente il diritto ecologico procederà per stadi, rigenerando il sistema mondiale per via incrementale, tentando una varietà di soluzioni istituzionali formulate dalla base e alleandosi con il settore pubblico o privato, a seconda delle necessità.
Per esempio, in alcune circostanze, potrebbe rivelarsi consigliabile cercare di trasformare un bene comune, quale una splendida spiaggia, in un trust senza scopo di lucro. Questo è una istituzione della proprietà privata in grado di garantire l’espropriazione per pubblica utilità che potrebbe servire da tutela contro la privatizzazione a opera di un Governo corrotto. In altri casi, come le aziende per la gestione dell’acqua di Parigi o di Napoli esemplificati più avanti, potrebbe essere utile la trasformazione in una struttura di proprietà pubblica, per evitare il facile trasferimento di capitale sociale a investitori privati. Peraltro, nell’adottare questa impostazione, non dobbiamo preoccuparci troppo dei limiti del diritto internazionale, il quale di per sé ha una impostazione estrattiva che necessita una progressiva rigenerazione e conversione. Infatti, sebbene pensiamo globalmente, agiamo poi localmente e qui può essere esercitata la resistenza fisica e culturale. Non occorre neppure che affrontiamo singolarmente tutti i vincoli del processo politico nazionale che apparentemente rendono impossibile una determinata soluzione. Dobbiamo, invece, ciascuno di noi, industriarci per fare nascere, in una popolazione ecologicamente e giuridicamente alfabetizzata, la comune consapevolezza sia delle leggi della natura sia della natura della legge.
Proprio una tale popolazione in lotta per la creazione delle proprie istituzioni comuni e la loro protezione dallo spirito predatorio dei settori pubblico e privato rappresenta l’ingrediente fondamentale di una ripresa che si basa sui beni comuni. La rigenerazione dei beni comuni, la contestazione dell’accumulo capitalistico, la riformulazione del diritto partendo dal basso infine un mutamento radicale del nostro comune intendere richiedono una solida teoria unita all’impegno politico quotidiano diffuso degli individui, i quali debbono rivendicare un ruolo attivo in grado di generare effettiva capacità relazionale. Le migliori pratiche giuridiche, contemporanee o storiche, ovunque abbiano avuto luogo, se attuate con successo e capaci di rendere concreti valori della condivisione del potere, della giustizia sociale e della sostenibilità ecologica, andrebbero discusse, comprese, adattate alle varie circostanze e infine applicate in modo tale da permettere che le voci, gli interessi e le soluzioni giuridiche adottate dalle comunità possano nuovamente prevalere.
Vale la pena ribadire che, per quanto sia complessa la varietà dell’esperienza umana, ovunque il principio organizzativo fondamentale del “fare comune” è quello della cura, del dovere, della reciprocità e della partecipazione.
4. L’esempio della fondazione «Teatro Valle bene comune»
Anche una raffinata istituzione artistica può essere gestita come bene comune. A Roma, lo splendido e antico Teatro Valle, gioiello dell’architettura degli inizi del XVIII secolo, fu occupato da un gruppo di artisti e lavoratori dello spettacolo per protesta contro un progetto di privatizzazione. Una volta dichiarato bene comune nel giugno 2011, il teatro ha offerto centinaia di ore di spettacoli culturali, politici e artistici, con criteri improntati al riconoscimento del bisogno fondamentale di fare cultura al di fuori di qualsiasi quadro legislativo statale. Gli artisti, a volte di elevato calibro nazionale e internazionale, si sono esibiti gratuitamente e gli occupanti hanno mantenuto il teatro aperto, funzionante e pulito. Nonostante forti controversie sulla sua illegalità formale, il «Teatro Valle bene comune» ha funzionato per più di tre anni in maniera trasparente, consensuale e partecipativa.
In seguito al successo ottenuto, gli occupanti si sono organizzati in un modello di legalità alternativa, dando vita a una «fondazione bene comune», dotata di un fondo di 250.000 euro in contanti e opere d’arte, raccolto durante i primi due anni di occupazione. La fondazione bene comune è una fondazione senza scopo di lucro costituita nell’interesse della cultura e delle generazioni future. È formata da circa seimila membri, da un’assemblea permanente denominata «la comune» e da un comitato direttivo a rotazione. Le votazioni non avvengono a maggioranza, ma in base al consenso e ci si prende tutto il tempo necessario per raggiungerlo. La partecipazione richiede che nessuno venga escluso dalle decisioni importanti e a ogni occupante è lasciata ampia libertà per esprimere la propria personalità. La fondazione è così divenuta il luogo di agevolazione della sperimentazione più avanzata di alternative all’attuale divario tra pubblico e privato nel diritto di proprietà. L’esperienza si è dimostrata fortemente generativa nel campo delle arti e della cultura e ne ha ispirate di analoghe in teatri e spazi occupati di altre città italiane che ora sono connesse in una rete organizzata di sostegno alla lotta per la cultura come bene comune. Essa ha anche suscitato l’attenzione internazionale: a Bruxelles, nel 2013, la Fondazione culturale europea ha insignito il Teatro Valle del prestigioso Premio princesse Margriet. Come con la sua controparte ecologica, questo rimedio contro la “fioritura algale” delle leggi dell’uomo continua a diffondersi.
Dopo il Teatro Valle, lo sforzo costitutivo di creazione di un sistema giuridico dei beni comuni, legittimato da lotte reali dal basso, si è concretizzato in diverse forme e, tra queste, anche la strategia giudiziale di difesa dei beni comuni si è rivelata preziosa. L’aspetto più saliente di questi sforzi non consiste soltanto nella vittoria in tribunale, cosa che potrebbe costituire qualche caso giuridico favorevole, ma piuttosto nell’alfabetizzazione giuridica diffusa tra i protagonisti delle lotte per i beni comuni, che porta a comprendere appieno la natura del diritto in un’autentica democrazia, nonché la possibilità di trasformarlo resistendo alle violazioni commesse contro le più fondamentali leggi della natura.
Partendo da queste esperienze e dalle molte altre documentate nella letteratura internazionale, si è in grado di delineare un possibile ordine giuridico ecologico, attuabile se le varie pratiche di comunione dovessero collegarsi tra di loro, guadagnando così forza e visibilità. Tale esercizio di immaginazione, con solidi fondamenti in alcune pratiche reali, potrebbe divenire una preziosissima impostazione teorica capace di permettere alle comunità sociali di affrontare i problemi legali legati alla creazione dell’ordine giuridico ecologico, nonché essere fonte di ispirazione per altri alla ricerca di un cambiamento sostanziale.
Nonostante movimenti quali quello del Teatro Valle, i beni comuni difettano di un adeguato riconoscimento giuridico negli ordinamenti occidentali, a causa dello squilibrio strutturale a favore degli interessi privati rispetto al bene pubblico. Oggi la struttura giuridica preferita dal capitale sono le società per azioni, macchine costruite per l’accumulo perpetuo, mentre non è ancora stata sviluppata una forma giuridica idonea per i beni comuni, anche se strutture quali fondazioni e trust potrebbero funzionare per difendere tali interessi e a volte, infatti, funzionano.
Un riconoscimento giuridico che consenta ai beni comuni di godere della stessa tutela della proprietà privata e della stessa legittimità della sovranità statale rappresenta la condizione preliminare per lo sviluppo di un ordine eco-giuridico; coloro che lottano per i beni comuni – i comunardi nella terminologia del Teatro Valle – debbono essere preparati a organizzarsi in veste giuridica. A tal proposito, la Fondazione Teatro Valle offre un esempio interessantissimo da studiare.
5. L’emergere dell’eco-diritto dalle comunità auto-organizzate
Un regime giuridico in grado di tenere sotto controllo il nostro sistema di sfruttamento ormai impazzito deve nascere dall’azione di comunità che si auto-organizzano, come gli occupanti del Teatro Valle che si sono basati sull’eco-alfabetizzazione, l’eco-progettazione e una coscienza giuridica volta alla protezione dei beni comuni. Non deve essere un operato soltanto locale, ma connesso a livello mondiale. In questo momento è impossibile concepire l’applicazione di un sistema mondiale, dal basso ed ecocompatibile. Infatti, tentare di usare il diritto internazionale “dall’alto verso il basso” per tutelare i beni comuni equivale a mettere una volpe a difesa di un pollaio, visto che pubblico e privato hanno entrambi sovente dimostrato di poter nuocerei ai beni comuni.
Un ordine eco-giuridico riconoscerebbe l’interconnessione fondamentale dei problemi del nostro mondo e ci permetterebbe di trovare soluzioni adeguate e complementari le quali, anziché distinguere diritto, politica ed economia a livello locale, statale o anche internazionale, rispecchierebbero l’interdipendenza dei problemi affrontati. Le soluzioni sistemiche di solito risolvono parecchi problemi contemporaneamente. Per esempio, trasformare la nostra agricoltura industriale, chimica, su larga scala, ad alto uso energetico in coltivazioni biologiche, orientate verso le comunità e sostenibili ridurrebbe drasticamente la nostra dipendenza energetica; oggi usiamo (negli Stati Uniti) un quinto dei nostri combustibili fossili per coltivare e trasformare il cibo. Un cambiamento di questa portata avrebbe un immenso effetto positivo sulla salute pubblica, poiché molte malattie croniche sono legate al nostro regime alimentare, e contribuirebbe in maniera significativa alla lotta contro il cambiamento climatico perché un terreno organico è ricco di carbonio e dunque esso assorbe CO2 dall’atmosfera per rinchiuderla nella materia biologica.
Disponiamo del sapere, delle tecnologie e degli strumenti finanziari per costruire un futuro sostenibile; ciò che manca, oggi, è la capacità di trasformare la visione sistemica in leggi umane radicalmente nuove che consentano di creare il sistema di incentivi adeguato per procedere in una direzione sicura. Molto probabilmente esse emergeranno da comunità auto-organizzate, create gradualmente e integralmente dal basso. Questo processo finirà per cambiare le regole di fondo del sistema sociale attuale in modo tale che il diritto, anche senza battaglie per introdurre alcune eccezioni alla logica estrattiva, favorisca di regola i beni comuni, proprio come oggi invece si mostra favorevole alla proprietà privata.
6. Il diritto stesso come bene comune
Per rendere il diritto parte della soluzione ai nostri problemi, dobbiamo immaginare un’impostazione basata sull’eco-progettazione. Abbiamo bisogno di un approccio su piccola scala e dal basso verso l’alto, la cui efficacia risieda nell’uso diffuso e nella conformità ai bisogni delle comunità in senso lato. È opportuno iniziare a considerare il diritto stesso un bene comune che richiede l’esercizio dell’attività legale in stretta simbiosi con la comunità alfine di lottare contro l’ordine giuridico estrattivo. A tal proposito, per essere generativa, la pratica giuridica comunitaria deve comportare attività di mutua formazione dei giuristi e degli appartenenti alla comunità, per arrivare, attraverso il reciproco aiuto, a una concezione eco-giuridica. Ciò implica la diretta partecipazione dei membri della comunità alla preparazione dei materiali per l’azione giudiziaria e la sensibilizzazione dei professionisti del diritto a diventare “comunardi” del diritto; una combinazione di questo tipo offre servizi giuridici economicamente accessibili e un elevato valore aggiunto. Cioè avvenuto nella lotta «No Tav» in Val di Susa, pietra miliare delle battaglie italiane a difesa dei beni comuni, con reciproca soddisfazione della comunità e dei giuristi.
L’attuazione di questa impostazione giuridica si fonda innanzitutto sulla comprensione del fatto che, nella vita reale del diritto, la legittimità non discende unicamente da un processo politico, ma che la fonte principale del diritto è invece il laboratorio costituito dall’esperienza della vita reale. Gli usi e i valori condivisi di una comunità, funzionali ai fini di una determinata attività sociale, nel tempo vengono istituzionalizzati sotto forma di consuetudini o pratiche vincolanti. A volte note come norme sociali, tali regole godono di un grado di legittimità molto più antico della nascita dello Stato moderno. Infatti, il diritto consuetudinario è stato la base dello sviluppo del diritto commerciale dall’antichità e dal Medioevo fino ai nostri tempi. Tradizionalmente i mercanti si dedicavano al commercio su scala molto più ampia delle frontiere giurisdizionali dell’autorità politica. I commercianti di Cartagine vendevano i loro prodotti in vari porti del Mediterraneo ed erano in concorrenza con i Romani, mentre mercanti arabi navigavano fino al Mare del Nord e navi olandesi, portoghesi e veneziane raggiungevano mercati remoti. Nelle trattative regnava grande informalità e spesso una stretta di mano era sufficiente per saldare un accordo, dato che le ripetute transazioni si basavano sulla reputazione[4].
Con il tempo, dalle strette di mano emerse un complesso sistema di diritto mercantile basato sulla consuetudine, che stabilì norme di buona condotta e generò progressivamente un diritto consuetudinario transnazionale più complesso, noto come lex mercatoria. L’intervento dall’alto da parte degli Stati centralizzati, sempre più forti, su queste leggi e pratiche commerciali rispettate autonomamente era sempre molto limitato. Ancora oggi, le decisioni di un sistema di arbitrato privato vengono riconosciute e fatte applicare dalla maggior parte degli ordinamenti giuridici senza alcuna contestazione[5]. Sicuramente, quest’ordine giuridico spontaneo è legittimo e rispettato dagli attori economici anche in assenza dello Stato che lo rende esecutivo. In altri termini, la legittimità scaturisce dal decentramento, dalla maniera consensuale in cui individui e gruppi si relazionano gli uni con gli altri. Fatto interessante, il diritto commerciale emerse come sistema separato e legittimo perché i mercanti erano giuridicamente alfabetizzati sulle loro pratiche, per cui erano in grado di comprendere e far rispettare automaticamente e molto bene le loro regole attraverso le gilde. Per esempio, il termine bancarotta deriva dalla consuetudine di rompere il banco sul quale il mercante insolvente vendeva la propria merce sul mercato, per segnalarne il fallimento. Analogamente, la partecipazione diretta della comunità si rivela di importanza cruciale per l’eco-diritto e si potrebbe ottenere mediante strumenti istituzionali relativamente semplici quali le giurie popolari, per controllare le decisioni in materia di investimenti, la sorveglianza dei costi sociali e ambientali di produzione o la difesa della causa delle generazioni future e del pianeta nel suo insieme. L’eco-diritto è proprio questo, un ordine giuridico capace di considerare le leggi dell’uomo parte di nuove leggi in nome della natura e di interessi non umani.
7. Il commoning e il nuovo ordine eco-giuridico
Abbiamo ribadito in queste pagine che, proprio come la comunità ecologica costituisce l’elemento portante della natura, i beni comuni debbono divenire il principio organizzatore del nuovo ordine ecogiuridico. Il commoning, definito come partecipazione, in qualità di comunità, alla cura del bene pubblico, genera il sapere collettivo necessario per risolvere i problemi sistemici odierni, risultato non ottenibile con strutture gerarchiche basate sulla concentrazione del potere e l’esclusione. Si pensi, per esempio, a Wikipedia: nessun’altra enciclopedia consentirebbe di raccogliere intelligenza e conoscenza collettive di tale entità, in quanto, indipendentemente dall’acutezza e cultura di un singolo, la somma di molti si rivela più sagace e sapiente del singolo.
Purtroppo, l’attuale struttura di potere dominante rende estremamente difficile il riconoscimento della ricchezza dei beni comuni: lascia semplicemente basiti la capacità mostrata dal capitalismo di normalizzare il dissenso e di ritornare al consueto modo miope di fare affari. Per questo motivo diviene così cruciale la visione critica derivante dall’autentica condivisione di conoscenza ed esperienza anche al di fuori dei mezzi di comunicazione dominanti. La comunità è proprio il luogo in cui riconoscere la situazione appena descritta e organizzare la trasmissione del sapere e delle strutture alternative per la gestione dei beni comuni.
Alcuni, specialmente negli Stati Uniti, temono questa comunità e il comunitarismo, perché li percepiscono come una minaccia alla loro libertà o addirittura come un pericolo di un comunismo oppressivo di Stato. Tuttavia, il fatto di incentrare l’eco-diritto sui beni comuni, al fine di armonizzarlo con la natura e la comunità, non richiede un ritorno al chiuso comunitarismo medievale né all’autocrazia comunista. Ironicamente, queste paure non vengono mai espresse nei confronti del capitalismo delle multinazionali che si nasconde dietro il feticismo della libera scelta individuale[6].
Il rafforzamento dei vincoli comunitari si rivela invece essenziale per sviluppare un’organizzazione politica in grado di ripristinare la qualità delle relazioni umane, una rete di finalità collettive, in cui condivisione inclusione prevalgano su individualismo e gretto profitto. È vero che i membri di una comunità si controllano gli uni con gli altri, limitando lo sfruttamento e l’estrazione. La comunità, però, è anche l’unica condizione in cui gli individui si abilitano reciprocamente, condividono sapere e comprensione ed elaborano strategie di resistenza contro le prevaricazioni delle istituzioni capitalistiche, siano esse i Governi o le multinazionali. Le comunità ecologiche, modello dell’eco-diritto, non sono mai chiuse. Analogamente, le comunità sociali, nelle loro varie forme, si rafforzano reciprocamente connettendosi in reti con altre comunità che ne condividono le finalità vitali generali.
La comunità può essere generosa, ospitale e aperta, ma anche egoista, chiusa e razzista e ciò vale anche per gli individui in carne e ossa; le multinazionali, invece, sono concepite per essere soltanto egoiste e miopi. Le istituzioni dell’ecodiritto debbono sincerarsi che, proprio come l’individuo, la comunità sviluppi il primo gruppo di caratteristiche citate in precedenza e non il secondo. La comunità operativa al cuore dell’eco-diritto non scinde il sociale dal naturale, perché comprende la separazione ideologica tra natura e cultura, come pure tra diritto, politica ed economia. Similmente, il nuovo ordine eco-giuridico deve permettere un nuovo emergere della rappresentanza collettiva, rivendicando per il diritto un ruolo di strumento collettivo di trasformazione politica.
Il processo decisionale partecipativo, politico ed economico rappresenta un aspetto cruciale dell’esigenza di incentrare il sistema giuridico non sulla persona individuale, fisica o giuridica, ma sul “tutto”: comunità, reti, dimensioni qualitative delle relazioni, con accesso diretto e gestione responsabile del sapere, del diritto e delle risorse. Un buon esempio di un modello di democrazia economica di questo tipo, in cui sono stato coinvolto, è stata la trasformazione dell’azienda che controlla il sistema di forniture idriche di Napoli in un nuovo ente istituzionale ad hoc, Acqua Bene Comune.
Obiettivo del cambiamento era di rendere il servizio idrico di Napoli di proprietà e gestione delle persone e dei lavoratori, nell’interesse di tutta la comunità e delle generazioni future. L’esperimento è stato l’esito di una lunga lotta per proteggere l’acqua pubblica dalla privatizzazione in Italia, lotta che ha comportato anche un referendum nazionale in cui 27 milioni di italiani hanno votato a favore dell’acqua come bene comune. Un’istituzione di simile ispirazione è nata a Parigi come reazione alle pratiche assurde derivanti da un patto tra due multinazionali, Veolia e Suez, che avevano spaccato in due il mercato idrico della città, uno per la rive gauche (riva sinistra) e l’altro per la rive droite (riva destra) della Senna.
Il sindaco di Parigi, dopo aver fatto campagna per l’acqua come bene comune, una volta eletto non solo ha reso nuovamente pubblico il sistema di fornitura idrica, ma ha anche creato un sistema avanzato di gestione della neonata Eau de Paris, basato sulla partecipazione dei soggetti interessati. In sintesi, entrambe le istituzioni partono dal presupposto che il sistema di gestione delle risorse idriche non dovrebbe avere fini di lucro, ma essere un servizio per la comunità e garanzia per le generazioni future. Eau de Paris e Acqua Bene Comune Napoli condividono un obiettivo ecologico e sociale vivente, sancito nei loro statuti, al quale sono vincolati i consigli di amministrazione, cui è proibito ogni operato finalizzato al profitto, mentre è garantita la partecipazione pubblica.
Nella logica aziendale tradizionale, il successo di un’attività è misurato quantitativamente in base al tasso di profitto sul mercato. Nel mondo dei beni comuni, invece, il principio di valutazione non può essere il medesimo perché in questo caso, coerentemente con l’eco-diritto, il criterio del successo è qualitativo ed è dato dalla partecipazione dei soggetti interessati al governo dell’attività, non dal mercato. La condivisione di responsabilità collettiva conferisce la legittima facoltà di controllo collettivo sia sull’attività economica pubblica sia su quella privata. Il controllo in questo senso è qualitativo e si basa su uno sforzo generale, intransigente e pragmatico, da parte di lavoratori, consumatori, ambientalisti e dei pochi membri del Consiglio comunale, al fine di comprendere e guidare la gestione in coerenza con gli statuti. La forma aziendale tradizionale, pubblica o privata che sia, strutturata al fine di vendere il massimo possibile di acqua perché, se quest’ultima è uguale a qualsiasi altra merce venduta in regime di monopolio, i profitti cresceranno con l’aumentare della quantità di prodotto venduto. Invece, se l’acqua è trattata come bene comune, l’obiettivo principale è risparmiarne il massimo possibile, investendo nell’eco-alfabetizzazione della comunità e limitando tutti gli sprechi.
Il mercato non è attrezzato per monitorare il raggiungimento di questo obiettivo aziendale ecologico di risparmio idrico e dunque di riduzione della quantità venduta. Il percorso da compiere per elaborare le strutture giuridiche adeguate per la gestione di acqua, trasporti, smaltimento dei rifiuti e altre attività pubbliche come beni comuni è ancora lungo, ma gli esempi di Napoli e Parigi suggeriscono che tali tentativi, seppur difficili, non sono impossibili.
[1] Chief executive officer.
[2] D. Riesman, The Lonely Crowd, Yale University Press, New Haven CT, 2001 (ed. riveduta e ridotta); trad. it. La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 1973.
[3] F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft. Abhandlung des Communismus und des Socialismus als empirischer Culturformen, Fues, Leipzig, 1887; trad. it. Comunità e società, Ed. di Comunità, Milano 1973.
[4] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari, 2006.
[5] I. Dezalay, B. Garth, Dealing in Virtue: International Commercial Arbitration and the Construction of a Transnational Legal Order, University of Chicago Press, Chicago, 1998.
[6] E. Grande, “I Do It for Myself!”: The Dark Side of Women’s Rights, in A. De Lauri, ed., Humanitarianism Inc., I.B. Tauris, London, 2015.