Magistratura democratica

La (impossibile) giustificazione delle disuguaglianze

di Nadia Urbinati

L’argomento più accattivante usato per giustificare le disuguaglianze è quello del merito. Ciascuno – si dice – prevale nella competizione economica e sociale grazie ai propri meriti (trascurando però che col succedersi delle generazioni taluni accumulano sugli altri, per successione, un vantaggio ingiustificato destinato per di più ad aumentare nel corso della gara) secondo una regola naturale su cui la legge degli uomini non deve incidere.

Nella relazione tra economia e legge, la teoria della disuguaglianza meritata implica che nessun bene è sottratto al mercato, neppure la salute, l’educazione, l’arte. Invece la società può reggersi soltanto sul cemento invisibile della solidarietà, della consapevolezza che alcuni beni seguono il bisogno, altri l’intelligenza o l’amore, non la possibilità economica o il reddito.

«Da tempo immemorabile ci si ripete ipocriticamente, gli uomini sono eguali;
e da tempo immemorabile l’ineguaglianza più avvilente
e più mostruosa pesa insolentemente sul genere umano»

(Manifesto degli uguali, 1797)

 

È un fenomeno interessante e singolare che in epoche, come la nostra, nelle quali la disuguaglianza socio-economica cresce la larga opinione, condivisa anche da coloro che subiscono questo fenomeno, sia propensa ad abbracciare l’idea che ciascuno meriti la propria condizione, ad accettare come ragionevole il fatto che le persone siano reponsabili dei loro insuccessi sociali, che, insomma il loro stato non sia che l’esito o della loro incapacità o della sorte, della “sfortuna”. Nelle fasi di espansione della democrazia, come quella del secondo dopo-guerra, l’uguaglianza e il suo opposto sono, al contrario, concepite come costruzioni sociali, condizioni che i cittadini associati in democrazia determinano sia con la scrittura delle norme costituzionali sia con la regolamentazione delle relazioni tra le classi e, soprattutto, di quelle che presiedono alla determinazione dei salari e alla formazione dei profitti. L’idea che i cittadini abbiamo quando associati in democrazia il potere di incidere sulla loro condizione sociale sembra affievolirsi proprio quando più ce ne sarebbe bisogno, per fermare l’avanzata di quella che denominerò «ideologia della naturalità» delle relazioni economiche e in parte sociali.  In questa relazione vorrei soffermarmi brevemente su alcuni degli argomenti classici e mai tramontati usati per giustificare la disuguaglianza e concludere infine con una breve nota sulla relazione tra economia e forza della legge in riferimento a un libro del giurista americano Guido Calabresi[1].

1. A partire da Occupy Wall Street

Quando la statistica del 99% diventò il nome del movimento Occupy Wall Street, nell’ottobre del 2011, le analisi economiche stavano già da alcuni anni mostrando l’aumento della disuguaglianza economica: tra il 2002 e il 2007, per l’1% della popolazione americana la ricchezza era cresciuta del 61,8% mentre per il 99% era aumentata solo del 6,8%; e poi, negli anni della crisi, tra il 2009 e il 2011 il recupero per l’1% era stato del 31,4% mentre per il 99% era stato dello 0,4%. Al dicembre 2015, in Italia 4 milioni di italiani conoscono la fame, 1.470.000 famiglie vivono in condizioni di assoluta povertà. A fronte di questa forbice di straordinaria entità, la risposta ufficiale delle banche (per esempio, nella primavera del 2010, la Federal Reserve Bank di Saint Louis) è stata categorica: «Income Inequality: It’s Not So Bad». La disuguaglianza di reddito non è così preoccupante. Del resto, per molti economisti essa non è un male e, può, al contrario, essere uno stimolo a migliorare in coloro che si percepiscono come non ben posizionati nella scala sociale o avvertono il giudizio degli altri sul loro stato di difficoltà come uno sprone a reagire.

Dal Settecento almeno e con intenti più scientifici dei moralisti francesi del Seicento, alcuni filosofi, a cominciare da David Hume, Bernard Mandeville e Adam Smith, iniziarono a studiare le emozioni come energie funzionali alle scelte individuali; l’invidia occupava un posto d’onore nei loro scritti, come l’emozione che attivando la comparazione con chi sta meglio si rivelava utile ai fini del perfezionamento e del benessere. Mandeville adattò al comportamento economico il modello di ragionamento che Machiavelli aveva applicato alla politica: l’avarizia e l’invidia, due vizi al cospetto delle virtù cristiane e classiche, nella Favola delle api sono presentate come condizioni necessarie per la prosperità economica. Entrambe presumono che tutti gli individui (uguaglianza) si percepiscano come disuguali negli esiti delle loro fatiche e giudicabili in ragione delle scelte (libertà) che fanno e inoltre che siano sensibili al giudizio dell’opinione sociale (egoisti ma non solipsisti o dissociati). Dalla Favola delle api si apprende che se una società possedesse tutte le virtù cristiane e fosse perfettamente contenta e onesta, essa cadrebbe nell’apatia e nella stagnazione; non sarebbe, infine, una società. La divisione del lavoro, la competizione e la responsabilità individuale sono tre fattori che presumono differenze e che esaltano la disuguaglianza economica; esse funzionano come cemento sociale perché fattori oggettivi e imparziali di distribuzione di costi e benefici – sono a loro modo egualitari, non dipendendo da alcuna supposta disuguaglianza sociale o di ceto nè da alcuna specifica volontà politica.

L’uguaglianza di condizione funziona a tutti gli effetti come motore della disuguaglianza, essendo relativa alle passioni e alle emozioni che tutti gli esseri umani possono provare e che hanno, anzi, bisogno di provare. Ne hanno bisogno per risolvere le imperfezioni e i limiti che ciascuno individualmente ha e che si aggiungono alla scarsità delle risorse naturali, la quale ultima è essa stessa una condizione inevitabile anche perchè gli esseri umani non sono dotati di guide infallibili all’azione utile per sé e per la specie e modellate in base all’habitat naturale. Le emozioni e le passioni funziono come un radar, nel senso che ci mettono nella condizione di captare in anticipo quei segni che alla nostra intelligenza analitica sfuggono e che servono a farci approntare strategie funzionali di comportamento – a farci programmare.

Come ha sostenuto Amartya Sen, anche chi teorizza la disuguaglianza di outcome deve presumere una qualche uguaglianza. Quel che è arduo è sostenere ragionevolmente l’uguaglianza o la disuguaglianza in assoluto, poiché gli individui sono, singolarmente presi, specifici e unici. Pertanto la loro uguaglianza si riferisce a caratteristiche che appartengono alla specie umana e alle generiche potenzialità individuali che, tuttavia, ciascuno sviluppa in maniera sua propria. La libertà individuale e l’espressione dell’individualità (flourishing) sono gli obiettivi rispetto ai quali viene teorizzata l’uguaglianza. La massima di Karl Marx, «Da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», rientra in questa concezione dell’uguaglianza come categoria di relazione e non assoluta, per cui noi siamo diversi l’uno dall’altro e tuttavia uguali come parte della specie e in relazione ai bisogni di vita. Questi sono, al contempo, naturali e artificiali, soggetti pertanto a interpretazione, contestualizzazione, manipolazione – oggetto cioè di conflitto.

Questa relativa disuguaglianza è implicita nella dichiarazione del diritto di suffragio, a partire dalla Rivoluzione francese. Il diritto politico di voto – distribuito in maniera identica tra tutti e con peso uguale – ci fa cittadini uguali nel potere di partecipare e di contare (e di essere contati) in tutte le decisioni che pertengono la generalità. Detto altrimenti: poiché siamo diversi come persone singole, e presumibilmente anche disuguali nelle condizioni economiche, il principio dell’autogoverno stabilisce che tutti noi siamo uguali nel potere politico primario, come decisori ultimi.

La democrazia, nella quale questo principio esprime al massimo la sua forza inclusiva ed egualitaria, mette in essere un potere – quello politico o del governo della collettività – che nulla ha a che fare con la natura e che è libero di stabilire le condizioni di legittimità; che può rendere uguali gli ineguali, appunto. L’uguaglianza politica così stabilita dice in sostanza questo: abbiamo bisogno di farci eguali per diritto o per legge proprio perché non siamo eguali sotto tanti aspetti, per esempio nelle possibilità economiche e sociali, ma anche nelle qualità individuali e specificità naturali – giovani, vecchi, uomini, donne, alti e bassi, ecc. Ci facciamo eguali in potere politico perché vogliamo che le nostre diversità non siano e non diventino una ragione di dominio di alcuni su altri – l’uguaglianza per legge come condizione di libertà dal dominio, tenuto conto che siamo diversi. Pertanto, l’individuo descritto dalla favola di Mandeville come quello prefigurato dal Sermone della montagna dei Vangeli potrebbe convivere nella cornice approntata dall’uguaglianza di cittadinanza, una dimensione comune a partire dalla quale gli individui possono competere per convincere gli altri della bontà del loro rispettivo modello di vita.

È questa idea di uguaglianza politica che viene periodicamente messa in questione.

2. L’uguaglianza democratica

La storia di questa inimicizia verso l’uguaglianza politica è antica quanto la democrazia. Il poeta Solone parlava di uguaglianza di potere politico tra gli ateniesi (certamente quella che doveva consentire loro di non essere schiavizzati per ragioni di debolezza economica o di debiti), e alcuni decenni dopo l’ateniese Platone teorizzava la disuguaglianza naturale e politica.

Come allora, in altri momenti storici, le teorie della disuguaglianza si sono fatte i muscoli nel tentativo di contrastare la rivendicazione di uguaglianza politica. Nell’antichità furono, appunto, i dialoghi di Platone i grandi testi della critica dell’uguaglianza di potere politico; negli anni a ridosso della Rivoluzione francese, furono i teorici del pensiero tradizionalista o reazionario, da Edmund Burke, a Donoso Cortés, a Joseph de Maistre; nella seconda metà dell’Ottocento, quando cominciò la lotta per il suffragio, furono i testi tra gli altri di Thomas Carlyle, di Alessandro Manzoni e di Friedrich Nietzsche a tessere l’inno della disuguaglianza; in tempi a noi vicini, con la democrazia costituzionale ormai accettata pressoché universalmente, l’argomento della disuguaglianza è stato usato da Friedrich von Hayek, Milton Friedman e Robert Nozick per contestare alla radice le politiche delle pari opportunità e la conseguente tassazione progressiva che ispirano (in sostanza, i programmi pubblici di giustizia sociale) opponendovi uno Stato guardiano dei diritti individuali e di proprietà.

Cominciamo dagli antichi: Platone fa dire a Callicle nel Gorgia che la legge degli uomini rovescia la legge naturale e ordina di non sopraffare l’altro; punisce non chi è sopraffatto (i perdenti e i deboli), come fa la natura, ma al contrario chi prevale. Aggiunge Callicle, offrendoci un monito che non dovrebbe essere mai dimenticato, che l’uguaglianza per persistere nel tempo ha bisogno di essere inculcata generazione dopo generazione poiché, diversamente, la disuguaglianza tornerà a prendere il sopravvento, ad essere ammirata più dell’uguaglianza, e infine a vincere sempre nella lotta per il potere. Dall’antichità questa lotta tra uguaglianza e disuguaglianza, anzi aristocratica superiorità, ritorna periodicamente. Può cambiare la strategia retorica.

Oggi si parla di merito più che di superiorità. La ragione di questo slittamento sta nel fatto che in una società la quale (come la nostra) ha comunque abbracciato l’uguaglianza civile e politica, la disuguaglianza in meglio (il merito) deve essere meritata, ovvero riconosciuta da tutti. Se non altro, Callicle e Nietzsche non avevano remore a sostenere apertamente che i migliori non hanno alcun merito se non l’essere naturalmente superiori, senza dover attendere alcun riconoscimento sociale – il superiore è tale perché è capace di vivere senza il riconoscimento di chi sta in basso. Il suo è il coraggio dell’eroe. Il merito riconosciuto dalla società è invece un bluff, il segno distintivo dell’ipocrisia del governo dell’opinione. Ecco perché la democrazia per gli inegualitari è il peggiore governo: torniamo al Gorgia: «Essi, i più deboli, credo bene che si accontentano dell’uguaglianza!». Sono vili e non vogliono rischiare la lotta – vogliono il paracadute della legge uguale per tutti.

Pensare che uguaglianza e individualità o libertà potessero stare insieme è apparso, almeno fino a tutto il XIX secolo, un’incongruenza radicale in quanto la distinzione, l’eccellenza e la preminenza individuale sono qualità che l’ordine «secondo la legge civile» cancella e umilia. L’uguaglianza dice che non c’è superiore e inferiore ma solo diversità di espressione di una comune natura. I suoi critici dicono che in questo modo, i caratteri visibili e peculiari, quelli più eccentrici o originali, lasciano il posto a un’astrazione reputata comune in tutti – l’umanità – dalla quale vengono fatti derivare i giudizi sul bene e il male, il giusto e l’ingiusto.

Nella nostra società di mercato, a raccogliere il testimone della giustificazione della disuguaglianza è stato l’individualismo economico, il pensiero neo-liberale che si è coniugato e si coniuga ancora oggi (anzi soprattutto oggi) al darwinismo sociale, che si appella agli uguali diritti naturali che vengono prima della società politica e dettano i limiti al Governo. Per i liberisti contemporanei l’uguaglianza è nelle regole della competizione, nelle opportunità offerte dal mercato, e nei diritti fondamentali di libertà che riconoscono a ciascuno la padronanza delle proprie energie fisiche e mentali e quindi delle cose che guadagna, possiede e scambia. Ma, uguali nei diritti di possedere e scegliere, finiamo fatalmente per essere disuguali nei risultati. In questo caso, la regola uguale della competizione libera serve a giustificare un esito che è disuguale, un esito che sarà più facilmente accettato da tutti se vissuto come il frutto di una lotta combattuta direttamente da ciascuno.

La competizione come la conquista del West, la società come prateria: potenzialmente tutti possono partecipare alla corsa e farcela. Il fatto taciuto o non trattato con la stessa acribìa da questi teorici della gara individualistica per il benessere è che appena la corsa comincia alcuni sono già avvantaggiati, e il loro vantaggio non si annulla con la competizione ma si accumula e rende quella che era all’origine una posizione di partenza uguale una condizione di privilegio e di monopolio. Ma così non è, secondo questa filosofia, che presta attenzione all’inizio della corsa, anzi al suo inizio ipotetico; ma se la regola della libera competizione non si cura mai del risultato, succede che con il passare del tempo (alla seconda o terza generazione), quelle regole uguali non si applicano più a tutti ugualmente ma ad alcuni meglio o peggio che ad altri; e ciò non scandalizza più.

Tra quelli passati in rassegna, questo è forse l’argomento più accattivante nella nostra età liberale, perché viene condiviso anche dagli svantaggiati: esso convince i perdenti che si meritano la disuguaglianza, perché essa è frutto del loro minore o meno qualificato impegno, delle loro scarse conoscenze, infine delle loro scelte. Per l’individualismo economico, quando e se la competizione è lasciata libera (ovvero se il Governo non interviene con programmi di giustizia sociale o con regolamentazioni del lavoro), gli esiti non possono che essere disuguali e questa disuguaglianza è vista e sentita e teorizzata come giusta. Dunque: un amministratore delegato merita quel che guadagna come un precario merita il voucher. Non solo, ma la selezione dei vincitori della gara della competizione desta ammirazione, non odio di classe; desta invito all’emulazione: tutti vorremmo essere come Steve Jobs, il modello della Sinistra liberista, un modello che rispecchia al meglio il mutamento di prospettiva e di cultura morale egemonica: il messaggio del «fare fortuna», del «rimboccati le maniche, lavora sodo e credici, e vedrai che creerai il tuo futuro».

3. Quel che meritiamo

Seguiamo la logica di questa disuguaglianza meritata: poiché il rischio di perdere tutto resta sempre possibile, le disuguaglianze dovrebbero tendere col tempo a bilanciarsi fino a creare armonia sociale e giustizia, che è distribuzione dei meriti (di quel che si ottiene) attraverso il mercato; distribuzione giusta, perché non imposta per legge (per esempio con le politiche redistributive) ma sorta spontaneamente dalla gara economica: di qui la critica radicale di Robert Nozick a tutte le teorie distributive, poiché concepite secondo uno schema («da ciascuno … a ciascuno») che lega ciascuno agli altri e alla società in una catena storica nella quale scompare o diventa irrilevante la libertà del singolo, il suo specifico impegno e merito. Contro questi schemi sociali, solo la distribuzione di costi e benefici attraverso il mercato risulta essere giusta perché riconosce, senza intervenire a correggere in corso d’opera, che noi siamo responsabili di quel che abbiamo scelto.

Chiedere l’intervento del pubblico è giustificato solo per venire in soccorso dei perdenti con la carità e la filantropia, solo se si predispongono politiche per i poveri ma non politiche distributive volte a impedire la povertà. È giustificato solo se non viola le regole del gioco economico, se non adotta politiche di giustizia redistributiva o delle pari opportunità, perché solo così si onora il principio della responsabilità individuale per cui chi perde, perde a causa delle scelte che ha fatto e non merita nulla dal pubblico (cioè dalle tasse di chi ha prodotto, risparmiato e investito con oculatezza), mentre può al massimo meritare la benevolenza volontaria di privati generosi. Siamo, come si vede, ritornati al punto di partenza, alle posizioni di Callicle: quando la legge civile interviene per correggere la disuguaglianza, viola la giustizia naturale e rovescia lo stato delle cose: quel che è giusto (successo e riuscita) viene calmierato come se fosse ingiusto, e quel che è naturalmente perdente viene sostenuto per vie artificiali e fatto andare avanti, anche se non lo merita.

Dunque, la teoria della disuguaglianza meritata può essere condensata in questa massima: Non «a ciascuno secondo i bisogni», ma «a ciascuno secondo il rango» ovvero distribuzione di potere tra chi è uguale in altre cose ritenute superiori o meritevoli come la ricchezza, la competenza e la conoscenza, il coraggio in guerra o nella gara economica. La politica deve seguire la natura, dunque, la quale non conosce uguali, ma solo vincitori e vinti nella gara della vita, che era militare ieri ed è ora economica. Come si riflette questa filosofia della disuguaglianza meritata nella giurisprudenza?

Vorrei come promesso concludere con una nota sulla relazione tra economia e legge poichè questo è oggi il nodo più interessante nel quale si riversano le ragioni e le giustificazioni che contengono, o all’opposto agevolano, il peso delle disuguaglianze economiche nella determinazione delle opportunitá di vita e carriera e del potere politico. Per esempio quali beni devono avere un prezzo, quali devono essere cioè oggetto di competizione secondo le regole del mercato e senza interferenza da parte della legge? La salute, il lavoro, l’istruzione?

Negli Stati Uniti la scuola di Chicago (Richard Posner) e la scuola di Yale (Guido Calabresi) rappresentano al meglio la tensione tra uguaglianza di principio e disuguaglianza come fatale risultato della libera competizione. Tutti i beni, da quelli associati alla salute (per esempio gli organi per il trapianto o gli ovuli per la fecondazione, o gli uteri per la gestazione) sono per gli uni oggetti di scambio economico, per gli altri no. Posner come Mandeville sostiene che la «ripugnanza» per la vendita degli organi non ha «basi razionali» ma è frutto del pregiudizio di chi pensa ci siano beni metafisici o non umanamente manipolabili o trasformabili, fuori dunque della logica del merito via mercato. Dall’altro lato Calabresi[2] sostiene che ci sono beni che non devono essere messi a mercato, ovvero soggetti alla disuguaglianza economica che il mercato necessariamente produce: per esempio l’educazione, la salute, l’arte. Perchè? Calabresi accetta, a differenza di Thomas Piketty, che ci sia disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza ma pensa, come Solone, che la legge debba alzare una diga affinchè la disuguaglianza economica non tracimi e non conquisti tutti i settori della vita morale, civile e politica. La democrazia politica riposa del resto sulla credenza che ci sono beni (come la libertà e la dignità delle persone) che il denaro non deve comperare perchè essere ricco o povero non deve essere una condizione di partenza accettabile per la distribuzione di beni vitali per la dignità o la libertà. Noi e le nostre società ci sentiamo bene con noi stessi, scrive Calabresi, quando sappiamo che ci sono alcuni beni che seguono il bisogno, altri che seguono l’intelligenza o l’amore, non invece la possibilità economica o il reddito. È questo sentimento di umana solidarietà che tiene insieme come un cemento invisibile le nostre società individualiste e democratiche.

Fino a quando?

[1] G. Calabresi, The Future of Law and Economics, Yale U Press, 2016.

[2] G. Calabresi, cit.