Introduzione.
Di che cosa parliamo quando parliamo di beni comuni?
Non può sfuggire all’interesse di una Rivista come Questione Giustizia un tema controverso e stimolante (fino alla più urticante polemica) come quello dei “beni comuni”. Tema difficile a partire dalla definizione del suo oggetto, dall’individuazione dei contenuti a cui associarlo, sino alla costruzione di una condivisibile prospettiva di tutela. Ma noi abbiamo l’ambizione, e forse la spericolatezza, di metterlo qui al centro della nostra discussione, facendo sedere intorno al nostro tavolo virtuale alcune delle voci dottrinarie tra le tante che ne hanno più di recente fatto oggetto di studio, e di proposta, provando a sfuggire alla logica di schieramento (pro-contro) per aprire invece uno spazio di analisi, e di utile discussione.
Ci spinge innanzitutto un bisogno di chiarezza: l’uso inflazionato dell’espressione “bene comune” (associato via via a entità e concetti diversi tra loro ed a diverso regime giuridico), dopo l’imprevisto successo del referendum contro la privatizzazione del servizio idrico nel 2011 è diventato quasi il vessillo sotto cui collocare non solo beni materiali, ma intere sfere di attività umane in cerca di riscossa dalla crisi. La categoria dei “beni comuni” si applica allora nella discussione pubblica non solo a tutti quei beni (l’acqua, l’aria, il patrimonio naturale e quello culturale) rispetto ai quali la coscienza comune si ribella a che in forza del diritto proprietario possa essere esercitato un diritto ad excludendum; ma viene utilizzata anche come il programma per il rilancio di settori interi dell’attività umana. Diventano allora slogan di questo rilancio, il lavoro, come bene comune e, da ultimo, anche la giustizia.
Si tratta però di avere chiaro il concetto di fondo. Nel 2011, dalle pagine di questa Rivista[1], Stefano Rodotà rilanciava la sfida a guardare ai beni comuni come ad una questione nodale per il futuro della democrazia, partendo dal presupposto che quello della definizione del loro elenco è sì un tema delicato, dal momento che una loro inflazione non può che valere come fattore di indebolimento e di banalizzazione, ma che il nucleo costituente comune non può non essere individuato nello stretto anzi inscindibile legame con l’esercizio dei diritti fondamentali ed il libero sviluppo della persona.
Affermazione senz’altro impegnativa: ma essa non può certo essere attribuita ad un eccesso di retorico entusiasmo incapace di misurarsi con le difficoltà di inquadramento. Proprio Stefano Rodotà ha presieduto nel 2007 quella «Commissione sui beni pubblici» istituita presso il ministero della Giustizia a cui si deve lo schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, con cui da un lato si metteva mano alla riforma dell’art. 810 cc includendovi espressamente i beni immateriali, dall’altro si introduceva la distinzione tra beni privati, comuni e pubblici.
Le abituali pastoie della politica hanno inibito sin qui la realizzazione del disegno riformatore: col quale, ci pare, comunque devono innanzitutto fare i conti i critici più severi e scettici sulla effettiva concretezza della proposta, e sulla seria praticabilità della sua traduzione in istituti, categorie, rimedi.
Quel tentativo finora rimasto inutilizzato (ma entrato anche, seppure fugacemente, nel raggio di attenzione della giurisprudenza italiana, vd. Cass. sezioni unite, 14 febbraio 2011, n. 3665) innanzitutto dimostra che una definizione positiva dei beni comuni è praticabile; che ad essa sono riconducibili tratti qualificanti, ove li si intenda come quei beni che, non importa se di appartenenza pubblica o privata, acquisiscono la loro caratterizzazione per il vincolo di destinazione che li contrassegna, essendo funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali della persona. Il bene comune può essere definito tale in quanto vi è una comunità di riferimento: anzi, la sua presenza e l’esigenza di una sua gestione collettiva danno vita ad un legame sociale che in una certa misura costituisce quella comunità.
Intanto, non opera certo da limite, ma piuttosto da lente unificante, la premessa, comune a tutti gli studiosi, anche i più critici, secondo cui la discussione sui beni comuni ha ripreso slancio e vigore man mano che si diffondeva la consapevolezza della necessità di una reazione alla espansione indiscriminata della legge del mercato, e dell’accumulazione[2]. I bisogni materiali della persona e quelli più latamente socio – culturali conducono all’individuazione di una serie di beni (l’aria, l’acqua, lo spazio pubblico, ma anche internet, la ricerca ed i suoi prodotti) che necessariamente, in nome dello stesso destino dell’umanità, non possono essere lasciati al governo della logica mercantile. La prospettiva (non così lontana) di una loro progressiva inattingibilità, da parte soprattutto dei ceti più deboli, mette anche la comunità dei giuristi di fronte alla necessità di un coraggioso resettaggio. L’istituto della proprietà come lo ha regolato la legge, e come lo hanno interpretato i giudici, da un lato non basta a vincere la prepotenza accumulatrice del mercato e le abnormi concentrazioni di potere, con la simmetrica esclusione di ormai vasti strati di popolazione dalla fruizione di certi beni essenziali; dall’altro non comprende in sé il diritto di accesso ad altre tipologie di beni, parimenti essenziali, di cui essere proprietari in ultima analisi non serve.
«La proprietà non ha bisogno di essere confinata, come ha fatto la teoria liberale, nel diritto di escludere gli altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni, ma può ugualmente consistere in un diritto individuale a non essere escluso ad opera di altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni»[3]: la stessa Costituzione, d’altronde, se con l’art. 42 scolpisce la dicotomia tra proprietà pubblica e privata, all’art. 43 prevede che si possano affidare «a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale». Nell’intuizione dei Padri costituenti si vede indicato il fine, piuttosto che costruito il mezzo: ma questo non diminuisce l’impegno, anzi lo rafforza, nell’affrontare la sfida di una modernità che se per un certo verso ha aperto orizzonti sconosciuti, quali quelli del diritto all’accesso alla conoscenza in rete, dall’altro ha mostrato una tendenza regressiva verso un potere escludente e illimitato della proprietà, anche per quel che riguarda beni essenziali volti a soddisfare bisogni primari della persona.
La dialettica, come si è detto in esordio, è incandescente, e di ciò si trova segno evidente nel primo degli articoli che compongono questo Obiettivo, affidato all’Autore di un fortunato pamphlet[4] che certo non ha contribuito a raffreddare gli animi e che anche per la nostra Rivista si è impegnato nello sforzo di smontare una ad una, dopo averle brillantemente ricostruite, le diverse visuali che si sono affacciate sul campo sterminato e dai limiti ancora indefiniti della tematica. Lasciamo alla capacità critica del lettore la valutazione di un argomentare così serrato che non può non colpire per la sua intransigenza e la sua intenzione oppositiva (senza esimerci dal ricordare però che il benaltrismo resta pur sempre uno dei pericoli incombenti sulla costruzione di iniziative di riforma pur di fronte a condizioni di estrema necessità come quella che si presenta nella presente fase storica).
Certo, la proposta parte da un piano culturale e politico, prima che giuridico, e la sua successiva traduzione in contenuti spendibili nell’ambito di una proposta concretamente riformista – ne siamo tutti avvertiti – è altra cosa, molto più problematica e ardua della declamazione, su cui siamo tutti d’accordo, della necessità di un nuovo ordinamento del rapporto tra la persona e le cose.
Certo, il fatto che la prospettiva possa spaziare tra le origini medievali dell’esperienza dei beni comuni, e una modernità che reclama ed impone un impegno collettivo per la «costruzione di un nuovo ordine ecogiuridico»[5] genera, soprattutto nel giurista pratico costretto nelle strette maglie della interpretazione della norma positiva, una sorta di vertigine da strapiombo, da cui però è in grado di riprendersi appena viene messo a confronto con le esperienze in cui si è sostanziata, in tempi vicini a noi, l’affermazione di questo bisogno: sono esempi noti alle cronache (l’occupazione del Teatro Valle, i moduli di gestione dell’acqua pubblica in città importanti come Napoli o Parigi, di cui parla Ugo Mattei nel suo articolo), di diversa connotazione ed ancor più, comportanti diverse implicazioni, che rendono evidente come, a partire da quel bisogno, un cambiamento è possibile.
Certo, il giurista spesso si trova ad inseguire, ed è abituato a sentirsi in ritardo rispetto ai nuovi bisogni che spingono le evoluzioni sociali. La crisi recente e drammatica del Welfare ha portato alla ribalta la condizione dei molti che davvero non possiedono nulla, a fronte dei pochi, anzi pochissimi, che sono padroni di patrimoni di dimensioni degne di un bilancio statale. Di fronte alla obsoleta contrapposizione tra privato e pubblico, che non riesce a contrastare la spirale evolutiva, la novità davvero significativa riguarda nuove forme di solidarietà tra privati, nuovi modelli di gestione, che si impongono anche a fronte della crisi della rappresentanza e dei corpi intermedi, una nuova “etica della responsabilità” che non abbia solo più il significato di “rispondere per qualcosa”, ma anche sempre più il senso di “rispondere a qualcuno”[6]. È sbagliato che il giurista si interroghi su quale veste dare a tutto questo?
Entriamo dunque nel vivo. Denunciamo i nostri limiti, e dichiariamo, anche noi i nostri bisogni. Che hanno per oggetto innanzitutto un’analisi realistica che riguardi «la molteplicità dei contesti all’interno dei quali si collocano i diversi beni», l’individuazione delle specificità delle diverse tipologie di realtà, su cui fondare il tentativo di coglierne i caratteri comuni per mettere le premesse per la (futura) costruzione di una categoria unitaria.
L’analisi necessariamente diverge, a seconda dell’oggetto di attenzione: rispetto al paesaggio ed al patrimonio artistico, per Tomaso Montanari, al deficit di programma politico capace di associazione con il concetto di cittadinanza, che lavori sul piano dell’integrazione, della civilizzazione e dell'educazione, suppliscono oggi le iniziative diffuse sul territorio che operano per tutelare, conoscere e rendere socialmente produttive le porzioni di paesaggio e patrimonio ad essi prossimo. Forme di aggregazione che rappresentano una “riappropriazione dal basso” e che puntano al superamento di una condizione puramente utilitaristica, che viceversa è quella che anima anche l’attore pubblico a cui spetta la gestione, e la tutela.
Risultano chiari i termini entro cui si dibatte la questione nello scritto di Alessandra Quarta, che nell’esaminare il fenomeno contemporaneo della sharing economy evidenzia il tratto comune nella sollecitazione a percorrere nuovi itinerari di studio nella teoria della proprietà ed in quella del contratto. Se i beni comuni chiedono l’individuazione di nuove forme di gestione, mentre i beni oggetto di condivisione chiedono strumenti per coordinare gli interessi privati, convergenti o contrapposti, da cui possono essere investiti, entrambi comunque evocano «un legame intenso tra proprietà e contratto, tra caratteristiche delle cose e forme dell’organizzazione dei gruppi»: insomma, entrambi disegnano relazioni che finiscono per corrodere il dogma del diritto di esclusione, ed a prospettare nuove forme di appartenenza.
Lo scritto di Maria Rosaria Marella ci offre invece la visuale relativa allo spazio urbano come bene comune, estranea alla prospettiva, limitata e fuorviante, della riqualificazione di spazi pubblici da parte dell’iniziativa privata, che spesso genera solo nuovi fenomeni di esclusione: la proposta è invece quella di coltivare, e di dare tutela, ad azioni che si propongano la restituzione alla collettività di risorse urbane sottratte all’accesso pubblico, e siano in grado di generare commons urbani aperti alla moltitudine delle singolarità a prescindere da legami di carattere proprietario o associativo. La pratica delle occupazioni urbane e delle gestioni in comune risponde a queste esigenze, e sollecita la loro preservazione in termini informali, se non addirittura la ricerca di una adeguata veste giuridica, sempre ove determinati caratteri siano integrati. Senza tacere l’interesse specifico che riveste l’attivazione di “cliniche legali”, esperienza descritta nell’articolo e che parte proprio dalla constatazione delle difficoltà che incontrano normalmente i singoli e le comunità nell’avvicinarsi alla giustizia per rivendicare i loro diritti di accesso ed uso in relazione ai beni comuni.
Infine, ci sembra particolarmente significativo che nell’orizzonte delimitato da questo Obiettivo, vi sia spazio per la trattazione, nel saggio di Elisa Contu, sulla scorta di quella trasformazione epocale che ha conosciuto il passaggio dalla “società industriale” alla “società della conoscenza”, del fenomeno di internet, le cui caratteristiche ben si sposano ad affrontare la «lettura del rapporto tra il “mondo delle persone” e il “mondo dei beni” secondo la logica dei beni comuni». E sembra soprattutto significativo, per una Rivista come la nostra, che il focus dell’analisi sia centrato proprio sul sapere prodotto nell’ambito della ricerca scientifica e diffuso online in formato digitale, a cui l’Autrice attribuisce una «rilevanza strategica rispetto alla distribuzione di potere tra gli attori sociali».
Proprio per la specifica attenzione che Questione Giustizia sente di dare al tema della ricaduta, e della traduzione, giudiziaria, dei temi sostanziali, soprattutto di quelli meno tradizionali, il quadro si completa con gli scritti di Antonello Ciervo e di Rocco Albanese.
Il primo esamina la possibilità di elaborare un approdo giudiziario per la tutela dei beni comuni, attraverso l’utilizzo e lo sviluppo della categoria degli interessi diffusi, «come una sorta di tertium genus» rispetto alle tradizionali situazioni giuridiche azionabili in giudizio, di natura adespota, «che appartengono a tutti, ma allo stesso tempo, a nessuno in particolare».
Il secondo si fa carico innanzitutto di dare conto della sensibilità che la giurisprudenza in passato ha mostrato verso le situazioni collettive di appartenenza, secondo un’attenzione “carsica ma costante”, che culmina nella cd giurisprudenza di San Valentino, con cui le sezioni unite della Cassazione accolsero nel 2011 la nozione di “beni comuni” nel diritto vivente italiano; segue poi l’attento esame dei rimedi possessori spesso usati a tutela dei diritti di uso pubblico, il cui richiamo è suggerito dal fatto che l’azione contro lo spoglio possa essere data contro chi avesse la pretesa di instaurare sul bene un potere esclusivo, così togliendo a chiunque altro la possibilità di usarne.
Il quadro che ne esce fornisce indubbiamente una serie di nozioni, di riferimenti, e soprattutto, di elaborazioni, di estremo interesse, anche per la necessità di mettere a confronto temi e voci così diversi ed originali. Lo scopo della Rivista è, ancora una volta, quello di sollecitare l’attenzione critica del lettore e, possibilmente, di dare modo ad ulteriori interventi di arricchire la discussione.
[1] S. Rodotà, Beni comuni e categoria giuridiche, una rivisitazione necessaria, in questa Rivista, n. 5/2011, edizioni Franco Angeli, Milano, pp. 237 ss.
[2] Parla di una «necessità di sottrarre taluni beni alle logiche di mercato che hanno condotto allo sfruttamento indiscriminato e alla devastazione delle risorse naturali», E. Pezzella, in Valori costituzionali e nuova tassonomia dei beni: dal bene pubblico al bene comune, nota a Cass., sezioni unite, n. 3665 del 14 febbraio 2011, in Foro It., 2012, I, pp. 564 ss.
[3] S. Rodotà, in Il terribile diritto, Il Mulino, Bologna 2013, p. 16.
[4] E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Laterza, Roma-Bari, 2013
[5] U. Mattei, I beni comuni come istituzione giuridica, in questo numero della Rivista
[6] E. Pellecchia, cit., p. 576.