Le cose che abbiamo in comune.
Una riflessione su beni comuni ed economia collaborativa
Il saggio si propone di indagare le analogie e le differenze che esistono tra la categoria dei beni comuni e quella dei beni oggetto della condivisione. Quest’ultima sta emergendo anche nel discorso giuridico, in parallelo alla grande diffusione dell’economia collaborativa, e presenta molti elementi che consentirebbero di associarla all’idea dei commons. Lo studio, che si sviluppa a partire dall’analisi delle caratteristiche delle cose e quindi dallo statuto dei beni, ricostruisce il contesto giuridico in cui le categorie in esame si sono sviluppate per capire come esse possono contribuire da una parte a fondare una teoria dei beni finalmente libera dal soggetto e, dall’altra, a disegnare nuove forme di appartenenza.
1. Per un inquadramento del problema
Lo studio delle cose e delle loro diverse caratteristiche consente di recuperare uno sguardo d’insieme sull’idea di appartenenza, categoria generale che comprende il diritto di proprietà, uno tra i diversi modi di possedere[1]. Come già avevano intuito Filippo Vassalli[2], Enrico Finzi[3] e Salvatore Pugliatti[4], la declinazione al singolare dell’istituto proprietario si rivela insufficiente, ragion per cui occorre recuperarne la pluralità delle manifestazioni a partire dalla descrizione delle cose. In questo senso, la nozione di bene non soltanto designa gli oggetti della proprietà e del possesso, ma è anche rappresentativa di una scelta politica molto importante che si sostanzia nel distinguere le cose che appartengono a qualcuno da quelle che non possono appartenere a nessuno e che quindi sono in comunione tra tutti[5]. Per questo, sarebbe opportuno definire l’estensione dell’istituto partendo dai beni che possono essere oggetto di proprietà.
Non stupisce, pertanto, che una nuova riflessione sulla legittimità delle regole proprietarie sia stata alimentata proprio dall’emersione dei beni comuni, intesi come le cose – di titolarità pubblica o privata – che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo delle persone, da tutelare anche in favore delle generazioni future[6]. I beni comuni hanno consentito il superamento di una concezione classica in base alla quale i beni «non possono aspirare a un ruolo maggiore di quello che il piedistallo ha per una statua» e sono «realtà senza qualità»[7]. La nozione, inoltre, non ha soltanto avuto la capacità di sostanziare la rottura degli argini che separavano pubblico e privato, ma ha connesso lo studio dell’appartenenza all’analisi dei bisogni (umani e non umani) e, anche per questo, ha aperto una breccia politica[8].
Come molti concetti dotati di capacità evocativa, i beni comuni sono stati oggetto di contesa, non solo interpretativa, anche in forza della loro attitudine a essere significante vuoto[9] e a generare nuove forme di aggregazione. Da un punto di vista giuridico, la categoria si è certamente slabbrata, portando molti a chiedersi che cosa davvero siano i beni comuni se essi possono comprendere l’acqua, i parchi, la sanità e il diritto alla casa[10]; ciononostante, questo allargamento è stato complessivamente arricchente, nella misura in cui esso ha consentito di riflettere sulla legittimità e sulla qualità della gestione pubblica e della proprietà privata alla luce dei bisogni più urgenti e delle contraddizioni più evidenti, mettendo al centro la dimensione relazionale e condivisa dell’uso delle risorse, da interpretarsi in modo ecologico e qualitativamente responsabile[11], e guidata dal principio dell’accesso.
A quasi dieci anni dalla Commissione Rodotà la nozione di beni comuni deve essere inserita in un contesto politico ed economico in cui la cooperazione sociale ha anche dato gambe alla cd. economia collaborativa[12]. In questo nuovo modello di produzione, un soggetto condivide un bene che gli appartiene con un altro che ha solo un interesse a usarlo temporaneamente e non ad acquistarne la proprietà. Funzionano secondo questa descrizione, le banche del tempo, le locazioni che i privati possono concludere sulla piattaforma di Airbnb e i contratti di trasporto che nascono tra viaggiatori che si incontrano sul sito BlaBlaCar.
Una prima analisi del fenomeno dell’economia collaborativa mette in evidenza alcuni elementi che i beni oggetto di questo nuovo modello economico e i beni comuni sembrano condividere: l’indifferenza rispetto a un titolo proprietario; l’importanza della definizione di regole di gestione che consentano di far convivere usi diversi; l’accesso dei non possidentes; e – da ultimo – la capacità di istituire legami sociali.
Vale la pena di soffermarsi su queste qualificazioni, al fine di verificare quali siano i presupposti per considerare un bene condivisibile e le analogie tra due categorie che, certamente, manifestano l’urgenza di insistere sulla creazione di una teoria dei beni che assolva il compito di compensare l’eccessivo protagonismo del soggetto nella teoria proprietaria.
2. I beni oggetto dell’economia collaborativa
Non vi è dubbio che l’economia collaborativa sia emersa come nuovo modello di produzione, distribuzione e consumo negli anni della crisi economica, sintetizzando tensioni di natura diversa[13]. Da una parte, vi è stata l’invenzione di nuove prassi di circolazione di beni e fornitura di servizi, capaci di mettere a valore beni di proprietà e di creare nuove forme di reddito. Automobili poco utilizzate e appartamenti vuoti o semi-vuoti sono diventati risorse da immettere in un mercato di secondo livello che, a differenza di quello basato sullo scambio di beni usati, può funzionare senza il trasferimento della proprietà, grazie all’uso condiviso.
Queste pratiche hanno potuto beneficiare delle potenzialità della rete, in cui un piccolo business privato riesce ad assumere ambizione globale con un solo click, aumentando il pubblico di riferimento e il bacino dei potenziali utenti. L’intermediazione di piattaforme digitali ha segnalato una nuova trasformazione del mercato – ed ecco un'altra tensione –, in cui sono emersi attori capaci di estrarre valore dal contatto (sociale benché virtuale, almeno in una prima fase del rapporto) tra i soggetti intenzionati a condividere.
Il panorama dell’economia collaborativa è dunque dominato da figure di natura diversa, le imprese delle piattaforme digitali e i peers – i privati disposti a condividere, che agiscono mossi da motivi diversi: tanto basta a segnalare la presenza di un coté soggettivo piuttosto ingombrante in questa nuova articolazione di scambi e transazioni, che è idonea ad aprire una breccia nello studio del contratto e nella teoria della circolazione dei beni.
A fronte di questa prospettiva soggettiva, della trasformazione economica e della ricerca di soluzioni private per rispondere alla crisi, vi è una dimensione oggettiva che rende possibile l’economia collaborativa. Infatti, se è vero che la condivisione deve essere voluta e governata dai privati che la realizzano, è altresì necessario che la risorsa su cui essa insiste possa sopportare usi diversi, anche simultanei. Per esplorare la dimensione oggettiva, ancora una volta, bisogna partire dalle caratteristiche delle cose, perché non sarebbe sufficiente evocare la dimensione dell’accordo tra le parti volto a distribuire poteri proprietari o una comunione delle risorse. Si riparte, insomma, dallo statuto dei beni.
Seguendo questa linea di ragionamento, è possibile sostenere che il presupposto essenziale per lo sviluppo dell’economia collaborativa sia, nella sua qualificazione oggettiva, l’esistenza di numerosi beni di uso quotidiano, largamente diffusi tra i cittadini consumatori. Si tratta di un assunto facilmente comprensibile ed è sufficiente evocare il fenomeno del consumo di massa o l’immagine imponente della scaffalatura dei supermercati. Le vetrine dei negozi che affacciano sulla strada, con le merci esposte al pubblico, e l’invenzione del carrello per la spesa rappresentano probabilmente i simboli più evocativi del desiderio e della democratizzazione del consumo[14].
L’accumulo di beni è reso possibile anche dall’accessibilità (a volte assoluta, altre relativa) del loro prezzo e, pertanto, il loro acquisto può essere deciso anche a fronte di un uso limitato e di uno sfruttamento contenuto delle loro funzionalità, considerato che i beni producono utilità (e cioè: soddisfano bisogni umani) non secondo un flusso continuo, ma secondo blocchi distribuiti nel tempo[15]. L’esempio che consente di spiegare al meglio questa affermazione è quello dell’acquisto di un trapano per lo svolgimento di lavori domestici: l’utensile è usato in pochissime occasioni e poi messo via, per restare inutilizzato per periodi anche molto lunghi. Non è un caso che le prime pratiche di condivisione dei beni abbiano assunto la forma delle c.d. tool libraries, biblioteche di attrezzi, organizzate di solito a livello di quartiere, in cui è possibile prendere in prestito utensili che si userebbero soltanto una volta.
La condivisione, in altre parole, è resa possibile dalle capacità in eccesso di un bene non usato che, soddisfacendo soltanto per brevi periodi i bisogni del suo proprietario può essere messo a disposizione di altri, a cui quel bene serve e può quindi essere utile. Così, quando si viaggia da soli in auto, è possibile condividere i posti vuoti con altri passeggeri che intendano percorrere lo stesso tragitto; allo stesso modo, si può mettere a disposizione di terzi il parcheggio privato che rimane inutilizzato quando si è via per diverse ore durante la giornata o per un periodo di vacanza, così come si può condividere una stanza vuota del proprio appartamento.
Nella descrizione dei beni oggetto della condivisione emerge un elemento inusuale, ossia la loro capacità, con cui si indica che un bene è idoneo a esaudire pretese di natura diversa. La paternità di questo concetto appartiene a Yochai Benkler[16], mentre la sua inusualità è dovuta al fatto che la teoria giuridica dei beni ricorre normalmente al concetto di utilità per descrivere le cose oggetto di diritto[17].
3. Utilità, capacità, appartenenza. Nuovi spunti per la teoria dei beni
Vale la pena di soffermarsi su questo profilo perché, prima di segnare il punto di divergenza che separa beni comuni e beni oggetto di condivisione, è opportuno mettere in evidenza un elemento che è emerso dallo studio dei secondi ed è certamente valido non soltanto per aggiornare la definizione di beni comuni, ma anche per contribuire proficuamente a una riflessione generale sul concetto di bene. Quest’ultimo, infatti, è fortemente legato all’idea di utilità, la quale sta a indicare quel fattore che aziona la macchina della qualificazione giuridica e della tutela; si è già detto sopra, seppur frettolosamente, che l’utilità richiama la soddisfazione di un bisogno umano: essa, pertanto si collega a una variante umana, a una prospettiva soggettiva indicata dalla percezione del bisogno.
La riflessione porta nuovamente l’interprete a verificare le proprie ipotesi alla luce della trasformazione dei consumi e dei messaggi pubblicitari: per questa via, i bisogni possono essere essenziali oppure effimeri, legati alla soddisfazione di meri piaceri e non di necessità fondamentali, indotti dal mercato. In altre parole, lungi dal voler assumere un atteggiamento catoniano, la questione rilevante è che la definizione di utilità è sempre rimessa alla valutazione del soggetto e così essa rimette in gioco nel campo dell’appartenenza proprio quell’elemento che si tentava di espungere per rafforzare una dimensione oggettiva dell’istituto, ossia il soggetto con le sue valutazioni, razionali o capricciose.
In questo senso, la nozione di capacità, rifacendosi direttamente alle caratteristiche delle cose, riesce a rappresentare in maniera originale le istanze di una teoria dei beni che intenda occupare uno spazio autonomo e influenzare la liberazione del paradigma della proprietà privata dal dominio del soggetto e dell’esercizio delle sue libertà. I beni, in altre parole, possono obbligare il modello dominicale a confrontarsi con la concretezza della realtà, con le sue variabili e con le scelte in materia di governo delle relazioni economiche che poi conformano le situazioni dominicali[18]: per questa ragione, l’ambizione deve anche essere semantica, il superamento dei paradigmi deve investire persino le definizioni utilizzate.
La sequenza ‘capacità – utilità – forme dell’appartenenza’ esprime le potenzialità dei beni in maniera più chiara per tutti gli attori del sistema: al proprietario, prima di tutto, il quale nella pratica interpreta il diritto di proprietà in chiave inclusiva, dosando il suo diritto di escludere[19]; all’utilizzatore, che potrà avere comportamenti economici ed ecologici più razionali; allo studioso di queste dinamiche, che ricorrerà all’utilità che si incardina sulle risorse prodotte dalle cose sapendo che ciò è reso possibile da una relazione tutta oggettiva, perché autorizzata dalla capacità in eccesso delle cose.
4. Statuto dei beni e cooperazione sociale: dalle cose alle forme di organizzazione
Al tema dei beni comuni non è stata dedicata una particolare attenzione da parte della ricerca socio-politica italiana[20]: manca, in altre parole, una riflessione analitica volta a inquadrare, da una parte, le ragioni della diffusione di un “messaggio benicomunista” nelle pratiche politiche[21] e, dall’altra, i motivi alla base di una forma di civismo, diretto alla difesa e alla cura di determinate risorse, che ha utilizzato la cornice dei beni comuni. Mancano quindi degli elementi per completare una valutazione antropologica, sostenuta da indagini empiriche, delle ragioni del successo dei beni comuni. Queste lacune lasciano il giurista disarmato di fronte a proposte interpretative che mettono l’accento sull’emersione di una sorta di civiltà dell’empatia, in cui l’individuo acquista una nuova consapevolezza rispetto al suo stare nella società, riscoprendo i meccanismi di solidarietà e di condivisione. Egli diventa homo empaticus, un soggetto capace di apprezzare il valore profondo dell’aiuto reciproco e di «riconoscere la natura temporanea della nostra esistenza, celebrando incessantemente la lotta per vivere e prosperare in questo mondo imperfetto»[22]. Questa lettura è oggi spesso ripresa dagli studiosi della sharing economy, i quali mettono in evidenza le virtù della cooperazione e della condivisione, rilanciate dalla presa di coscienza di un individuo le cui certezze del produci-consuma-crepa si sono infrante sullo scoglio della crisi economica del 2008[23]. Essa tuttavia, almeno ad avviso di chi scrive, non risulta particolarmente convincente, componendo «un affresco forse troppo ambizioso e non privo di accenti utopici»[24].
La cooperazione sociale e i meccanismi della solidarietà[25] chiedono senza dubbio al giurista un’analisi che, abbandonati gli schemi dell’individualismo possessivo, sappia ri-costruire, interpretandoli, paradigmi capaci di spiegare pratiche di scambio che possono stare fuori dal mercato e dalle logiche dell’accumulazione della ricchezza. Tra questi, soprattutto quelli del diritto civile – proprietà, contratto e responsabilità civile in primis –
sono interessati da smottamenti consistenti a dieci anni dalla crisi economica[26].
Ciononostante, nelle pratiche dell’economia collaborativa la dimensione del valore di scambio continua a essere protagonista a ogni livello delle interazioni sociali: tra i pari, che cercano forme minime o integrative di reddito; per le piattaforme, che a partire dalle capacità inespresse di beni privati e dai legami sociali hanno costruito nuovi mercati e nuove forme di business. Da questa visuale, inizia a emergere la differenza tra i beni che possono essere condivisi e i beni comuni, all’insegna di un’analisi che non sacrifica sull’altare della ricerca ontologica elementi del contesto politico, sociale ed economico, tutti essenziali per interpretare il sistema in cui viviamo.
E allora, accettando la complessità, è la stessa separazione tra soggetto-oggetto, valore d’uso-valore di scambio che rende i beni comuni una categoria diversa dai beni della condivisione.
In effetti, i beni comuni possono essere descritti attraverso una immagina circolare: una comunità può individuare un bene che consente la soddisfazione di suoi bisogni e decidere di prendersene cura; d’altra parte, è il lavoro collettivo sul bene comune e per il bene comune – e quindi: la stessa cooperazione sociale – a creare la comunità, cementando legami sociali. Secondo alcuni autori, questa capacità di generare e rinsaldare i gruppi sociali è genericamente propria degli shareable goods, non necessariamente tutti tangibili (si pensi alla forza delle tradizioni e della cultura popolare)[27] ma, per quel che ci riguarda, il ragionamento non può essere esteso ai beni oggetto dell’economia collaborativa quando questi sono l’oggetto di rapporti privati mediati da una piattaforma digitale. Il motivo, già emerso tra le righe, è – da un punto di vista teorico – la preponderanza del valore di scambio, mentre non ci sono evidenze empiriche che dopo il primo contatto mediato dalla piattaforma, i pari disposti a condividere beni e servizi instaurino dei legami sociali non orientati al solo scambio.
Da questo punto di vista i beni comuni sono più pericolosi dei beni oggetto della condivisione perché hanno bisogno di processi collettivi: essi sventolano la bandiera del gruppo, e quindi l’insegna simbolica di tutti i problemi connessi alla sua organizzazione: l’ingresso e l’abbandono della comunità; i processi decisionali; i meccanismi di controllo, insomma tutti quei punti interrogativi che nel 1967 portarono Harold Demsetz a ritenere la communal ownership irrimediabilmente condannata al fallimento che, poi, sarebbe coinciso con l’assegnazione delle risorse in proprietà privata[28].
Nei beni oggetto della condivisione, invece, la comunità è quella globale della rete e, all’interno di questa, c’è la community degli utenti; questi, tuttavia, non si auto-governano nello spazio virtuale ma restano sottoposti – utilizzando il linguaggio di Elinor Ostrom[29] – a una autorità di comando e controllo che è la piattaforma digitale. Le regole dei rapporti online, il controllo delle relazioni e, in molti casi, anche la risoluzione dei conflitti sono disciplinate dai termini e dalle condizioni del servizio, un contratto predisposto dalla piattaforma che, nella maggior parte dei casi, arriva a disciplinare persino i rapporti interprivati offline.
La qualità delle regole che la cooperazione sociale produce è, pertanto, molto diversa: nei beni comuni, la comunità di riferimento istituisce forme di governance, meccanismi in cui la regolazione del proprio corpo sociale non può essere scissa da quella che, più da vicino, riguarda l’oggetto. La frattura tra il soggetto e l’oggetto, ancora una volta, ancora su un altro piano, è ricomposta. L’economia collaborativa pone all’interprete altre sfide, non meno interessanti: negli accordi riconducibili a questo modello, i privati stanno cambiando i tipi contrattuali, colorando di nuove sfumature i loro elementi essenziali e accessori e, in definitiva, fondando nuove logiche dello scambio.
Beni comuni ed economia collaborativa, insomma, sollecitano riflessioni diverse, per aprire nuovi itinerari di studio nella teoria della proprietà e in quella del contratto. Questa distinzione non porta con sé nessun giudizio di valore, ma si limita a prendere atto di processi che, sempre più, diventano importanti. Se, infatti, i mercati abilitati dalle piattaforme digitali continuano a crescere e a moltiplicare il numero degli utenti, lo schema circolare proprio dei beni comuni e le forme di governance dei commoners sono oggi all’ordine del giorno delle numerose amministrazioni italiane che hanno adottato il c.d. regolamento dei beni comuni[30]. Nuove comunità, nuove forme di auto-governo, altri modi di produzione: il Medioevo, insomma, è molto lontano.
5. Per concludere o, forse, per inaugurare una nuova fase
Nel discorso sui beni comuni e sui beni oggetto della condivisione, è facile notare come il diritto di proprietà perda centralità, riducendosi quasi a una sorta di semplice involucro formale che contiene regole di governo delle capacità che gli stessi beni producono. Emerge nell’ambito della teoria dei beni e del diritto privato la categoria dell’accesso, la quale si oppone all’esclusione dominicale[31].
Questa prerogativa gode di una straordinaria centralità, e l’interpretazione non ha mancato di trasformarla da mezzo per realizzare il rapporto tra cosa e individuo (escludo per avere e quindi godere e disporre del bene) a fine dell’istituto (ho per escludere). L’esclusione finisce così per incarnare l’essenza stessa del dominium e per diventare l’unico criterio che imposta le relazioni tra proprietario e non proprietario, impedendo a priori la possibilità di introdurre dei dispositivi di redistribuzione interprivata e autorizzando dunque la formazione di disuguaglianze. La condivisione raccoglie proprio questa sfida e ha l’ambizione di istituire una proprietà generativa[32], fondata sull’accesso. Beni la cui scarsità era prima aumentata dall’esclusione idiosincratica, possono diventare l’oggetto di situazioni di appartenenza in forza del loro valore d’uso invece che del loro valore di scambio. L’accesso, pertanto, determina una valorizzazione sociale ed ecologica delle risorse e rompe la catena del valore determinata dalle relazioni capitalistiche. Esso non significa soltanto poter entrare in un luogo o sperimentare altre forme dell’appartenenza (a titolo di proprietà o di possesso o di detenzione), ma vuole anche dire coordinare interessi diversi, magari confliggenti, o inventare forme di gestione di beni diversi e nuove regole per gruppi e comunità.
Del resto, il diritto dei beni «rappresenta l’insieme delle tecniche mediante le quali le utilità delle cose vengono ripartite tra le persone, insieme che racchiude, ma non coincide con i tradizionali diritti reali, perché comprende anche le tecniche di organizzazione dei gruppi ai quali viene ascritta una situazione di appartenenza sui beni, tecniche le quali, appunto, servono a programmare la distribuzione delle utilità dei beni tra i soggetti partecipanti alla struttura organizzata sia essa una società lucrativa o una società mutualistica, una associazione non profit o altro ancora»[33]. In questa cornice teorica, allora, i beni comuni chiedono l’individuazione di nuove forme di gestione, mentre i beni oggetto di condivisione chiedono strumenti per coordinare gli interessi privati, convergenti o contrapposti, da cui possono essere investiti.
Le due categorie di beni, pertanto, evocano un legame intenso tra proprietà e contratto, tra caratteristiche delle cose e forme dell’organizzazione dei gruppi: si tratta di relazioni pericolose per un diritto di esclusione eretto a dogma, e di legami sufficienti per poter disegnare nuove soluzioni di appartenenza.
[1] P. Grossi, Un altro modo di possedere: l’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, Milano, 1977. Gambaro descrive quattro diverse forme dell’appartenenza: riserva; appartenenze collettive; beni pubblici a uso collettivo (v. A. Gambaro, La proprietà. Beni, proprietà, comunione, in Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Giuffrè, Milano, 1990, pp. 14-21).
[2] Vd. la Relazione di Filippo Vassalli al primo convegno del Comitato giuridico italo-germanico (Roma, 21-25 giugno 1938), riportata da A. Somma in I giuristi e l’asse culturale Roma-Berlino, Frankfurt am Main, 2005.
[3]E. Finzi, Le moderne trasformazioni del diritto di proprietà, in Archivio giuridico, LXXXIX, 1923, pp. 52 ss.
[4] S. Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Giuffrè, Milano, 1964.
[5] A. Gambaro, La proprietà, cit., pp. 5 ss.
[6] S. Rodotà, Beni comuni e categorie giuridiche. Una rivisitazione necessaria, in Questione Giustizia, ed. cartacea, F. Angeli editore, Milano, N. 5/2011, pp. 237-247; U. Mattei, Beni Comuni. Un Manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2011; M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, Ombre corte, Verona, 2012; si consenta il rinvio anche a Quarta A., Spanò M. (a cura di), Beni comuni 2.0. Contro-egemonia e nuove istituzioni, Mimesis, Milano-Udine, 2016. Si v. anche L. Nivarra, Quattro usi di “beni comuni” per una buona discussione, in Rivista Critica del Diritto Privato, pp. 43-64, 2016.
[7] P. Grossi, I beni: itinerari fra moderno e pos-moderno, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 4, 2012, pp. 1059 ss.
[8] U. Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino, 2015.
[9] Il lessico è quello di Ernesto Laclau; vd. V. Rosito, M. Spanò, I soggetti e i poteri. Introduzione alla filosofia sociale contemporanea, Carocci, Roma 2013, pp. 149 ss.
[10] La Commissione Rodotà aveva fornito, nella sua proposta di schema di legge delega per la riforma della parte dedicata ai beni pubblici nel codice civile (artt. 822-830), un elenco di natura non tassativa di beni comuni; si trattava perlopiù di beni facenti parte del patrimonio naturale e culturale (ne fanno parte i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi; le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate. I limiti della delega ministeriale ricevuta dalla Commissione hanno, senza dubbio, influito sulle scelte definitorie che, comunque, dovevano essere idonee a modificare utilmente il codice civile. Si può dunque comprendere lo spaesamento che il giurista deve affrontare maneggiando una nozione che si è anche caricata di un significato politico, sebbene ogni nozione giuridica sia, in definitiva, caratterizzata da un forte carica ideologica.
[11] U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, cit., p. 83.
[12] Questa espressione ha il merito di «raccogliere e caratterizzare più declinazioni empiriche del fenomeno in questione», senza però esprimere quei «significati specifici (e spesso valoriali)» veicolati dalla formula sharing economy che, in ogni caso, è sovente utilizzata come un sinonimo di economia collaborativa. Sono numerose le espressioni coniate per indicare questo nuovo modello economico: ciascuna di queste si concentra su un aspetto diverso: peer economy, collaborative economy, collaborative consumption etc. Su questo profilo si v. G. Spedicato, Peer, Social e Common-Based Production di opere dell’ingegno in ambito digitale: le avventure dello ius excludendi tra nuovi modelli di produzione economica e (nuovi?) interessi emergenti, Cyberspazio e Diritto, 2010, pp. 75-110.
[13] Si permetta il rinvio a A. Quarta, Privati della cooperazione. Beni comuni e sharing economy in A. Quarta, M. Spanò (a cura di), Beni comuni 2.0. Contro-egemonia e nuove istituzioni, Mimesis, Milano-Udine, 2016, p. 87.
[14] R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari, 2009.
[15] G. Smorto, Verso la disciplina giuridica della sharing economy, in Mercato concorrenza e regole, 2015, p. 250.
[16] Y. Benkler, Sharing Nicely: On Shareable Goods and the Emergence of Sharing as a Modality of Economic Production, in The Yale Law Journal, 2004-2005, pp. 306-310.
[17] Ho sviluppato questo ragionamento in Utilità, capacità, bisogni. Sulla fenomenologia dei beni in Antonio Gambaro in U. Mattei, A. Candian, B. Pozzo, A. Monti, C. Marchetti (a cura di), Un giurista di successo. Studi in onore di Antonio Gambaro, Milano, 2017, pp. 791-810(in corso di pubblicazione).
[18] U. Mattei, La proprietà in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Utet, Torino, 20152.
[19] D.B. Kelly, The Right to Include, in Emory Law Journal, 63, 2014, pp. 857-924.
[20] C. Donolo, I beni comuni e l’episteme repubblica, in Politica & Società, n. 3, 2013, p. 382.
[21] U. Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino, 2015.
[22] J. Rifkin, La società a costo marginale zero, tr. it., Mondadori, Milano 2014, pp. 422-428.
[23] Se è vero che la condivisione rappresenta una modalità dello scambio diversa dal mercato, va però detto che essa continua a trovare nella proprietà la sua struttura fondante; peraltro, il culto delle merci e il ruolo che esse ricoprono nell’immaginario consumeristico contemporaneo sopravvivono allo scambio cooperativo, dal momento che la preferenza nei confronti di quest’ultimo è soprattutto dettata da motivazioni economiche prima che politiche, etiche o ambientali. Su questi temi, v. A. Quarta, Privati della cooperazione in A. Quarta, M. Spanò (a cura di), Beni comuni 2.0. Contro-egemonia e nuove istituzioni, cit., pp. 85-99; Y. Benkler, Sharing Nicely: On Shareable Goods and the Emergence of Sharing as a Modality of Economic Production, cit., pp. 273-358; S. Moeller, K. Wittkowski, (2010),The Burdens of Ownership: Reasons for Preferring Renting, in Managing Service Quality: An International Journal, 20, 2010, pp. 176-191; F. Capeci, Sharing economy italiana: chi, cosa, quanto… quando e dove?, TNS Report, Milano 2015.
[24] E. Pulcini, Benicomuni: un concetto “in progress”, in Politica & Società, n. 3, 2013, p. 354.
[25] S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari, 2014.
[26] Vedi U. Mattei, Il diritto della crisi. Primi appunti, in A. Quarta, M. Spanò (a cura di), Rispondere alla crisi. Comune, cooperazione sociale e diritto, Ombre corte, Verona, 2017, pp. 145 ss.
[27] W.J. Gordon, Intellectual Property, in Oxford Handbook Of Legal Studies 617, p. 644 (Peter Cane & Mark Tushnet eds., 2003).
[28] H. Demsetz, Toward a Theory of Property Right, in The American Economic Review, 57, 2, 1967, pp. 354 ss.
[29] E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006.
[30] C. Angiolini, Possibilità e limiti dei recenti regolamenti comunali in materia di beni comuni, in A. Quarta, M. Spanò (a cura di), Beni comuni 2.0, cit., pp. 147-157.
[31] Si consenta il rinvio a A. Quarta, Non-proprietà. Teoria e prassi dell’accesso ai beni, ESI, Napoli, 2016.
[32]U. Mattei, La proprietà generativa in Fra individuo e collettività. La proprietà nel secolo XXI, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 95-103; per un approfondimento di questo tema e del processo che ha lasciato prevalere la proprietà estrattiva e a marginalizzare quella generativa v. F. Capra, U. Mattei, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Aboca, 2017.
[33] A. Gambaro, I beni in Trattato di diritto civile e commerciale / già diretto da Antonio Cicu, Francesco Messineo; continuato da Luigi Mengoni; [poi] già diretto da Antonio Cicu, Francesco Messineo, Luigi Mengoni; continuato da Piero Schlesinger, Giuffrè, Milano, 2012, p. 2.