Ancora sulla giovane magistratura: lo sguardo del giornalista
Per liberare da pregiudizi la percezione di un ambito socio-professionale tanto “sensibile” alle rappresentazioni esterne quanto inesplorato al suo interno, occorre aprire, con l’aiuto della migliore ricerca sociale, a una pluralità di sguardi capace di restituire – per ciò che forma l’oggetto del presente fascicolo – l’esperienza dei giovani magistrati facendo parlare direttamente i suoi protagonisti. I limiti quantitativi che necessariamente circoscrivono l’indagine non potranno che essere di auspicio a proseguire su questa strada.
1. Premessa/ 2. Il metodo / 3. Le motivazioni / 4. Le scelte / 5. La formazione / 6. Le relazioni / 7. Autogoverno e associazionismo
1. Premessa
Il principale merito del lavoro di ricerca «sulla cultura giuridica dei giovani magistrati» è la ricerca in sé. L’esplorazione di un territorio negletto o conosciuto solo per mappature sommarie, per lo più aneddotiche e fondate su pre-giudizi, incuriosisce. E suscita un apprezzamento non scalfibile dagli inevitabili limiti di una ricerca inedita e parziale. L’uso rigoroso del metodo scientifico della ricerca sociale non deve condurre a conclusioni dogmatiche, ma a individuare tendenze di fondo e spunti di analisi in un ambito caratterizzato da «frantumazione di posizioni»[1].
Soprattutto, questo lavoro dovrebbe incoraggiare non solo il committente, Questione giustizia, e i ricercatori della cattedra di Sociologia del diritto del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, ma anche altri soggetti – istituzionali e non – a replicare l’esperimento.
Con questo spirito, ecco alcune considerazioni di un lettore interessato, esterno all’ambito della ricerca, ma collateralmente sollecitato da essa.
2. Il metodo
Una prima questione da valutare riguarda il campione. Encomiabile il tentativo di coinvolgimento quanto più largo possibile, sotto diversi profili, di una platea frastagliata. Il testo finale dà puntualmente conto del metodo di lavoro. Ma la limitatezza quantitativa e la filiera “omogenea” del reclutamento possono comportare il rischio di effetti distorsivi sui risultati. La provenienza geografica è contenuta e riservata per lo più a sedi giudiziarie importanti e distrettuali. Occorre dunque prudenza, per non incorrere nell’esito grossolano di sovrarappresentare opinioni individuali o quasi, tanto più in presenza di “interviste discorsive”. I ricercatori ne danno onestamente conto, il che risulta tanto più utile pro futuro.
Quanto ai macro-temi che guidano le interviste, essi sono decisamente individuati nell’ambito di una dimensione interna alla categoria, al più allargata a enti esponenziali come la Scuola superiore in ambito formativo e il Consiglio superiore in ambito di governo autonomo. Manca – la notazione è frutto di deformazione professionale di chi scrive – un macro-tema imprescindibile in una nozione moderna della professione: il rapporto con l’utenza del servizio giustizia.
Viceversa, non appare una vera lacuna quella che tale potrebbe impressionisticamente apparire: aver ignorato macro-temi come la percezione del rapporto con altri poteri costituzionali. Non perché di scarso rilievo; piuttosto, perché alla domanda diretta pare preferibile – sia dal punto di vista dell’efficacia della ricerca, sia da quello della ricostruzione del sostrato culturale – una più generale ricostruzione del pensiero dei giovani magistrati.
Oltre all’identificazione dei componenti del campione per decreto di nomina, sarebbe utile l’indicazione anagrafica. La questione dell’età di accesso alla magistratura è tornata centrale nel dibattito politico e ordinamentale. Inoltre, il retroterra anagrafico – momento di scelta degli studi giuridici, periodo di frequentazione dell’università, momento di scelta della professione – è decisivo per valutare le scelte dei futuri giovani magistrati, che hanno radici nel contesto politico e sociale in cui avvengono e da esso sono condizionate.
3. Le motivazioni
Il catalogo dei percorsi che hanno portato i giovani magistrati a indossare la toga è assai diversificato. Difficile trarne categorie generali. Colpisce la persistenza di una significativa trasmissione professionale per via parentale, che in altri ambiti è ormai largamente prosciugata.
I ricercatori rilevano un’ampia sottolineatura, da parte degli intervistati, di una motivazione legata “all’indipendenza e alla terzietà della magistratura”, anche in contrapposizione con il diverso statuto epistemologico della professione forense. Ma, in un certo senso controintuitivamente, solo un quarto degli intervistati individua il senso della professione nel “rendersi utili alla società facendo la propria parte”.
Si può ipotizzare, con allarmata circospezione, che questo “culto” dell’indipendenza si declini per lo più in una dimensione interna, se non solipsistica, anziché in una prospettiva sociale e generale, e per lo più come fine della propria condizione professionale, anziché come mezzo per svolgere una funzione con risvolti collettivi.
Si tratta di un’ipotesi, meritevole però di ulteriori carotaggi.
4. Le scelte
Del resto, un certo “intimismo professionale” trasuda anche dalle risposte sulle preferenze per settori e funzioni. Il “sacro fuoco” dell’accertamento penale pare spegnersi a fronte di più concrete e contingenti esigenze esistenziali – flessibilità organizzativa, compatibilità con esigenze familiari, più ampio accesso alla tecnologia – meglio garantite dal processo civile.
È lo spirito dei tempi, sotto un duplice profilo. Nello specifico giudiziario, risente di un illanguidirsi delle motivazioni etiche, se non “eroiche”, che hanno caratterizzato a ondate l’esposizione della magistratura sul fronte delle emergenze del Paese – terrorismo, mafia, corruzione. In un discorso più generale, va inquadrato nel mutato rapporto delle nuove generazioni con il lavoro: più laico e meno innervato da afflati etici. Un tema che ormai, a partire dagli Stati Uniti, è oggetto di studi sociologici.
5. La formazione
Un’utile indicazione, sia per il Ministero che per le università, arriva dal “grido di dolore” sulla carenza di approccio alla scrittura giuridica in fase di formazione. Un deficit inspiegabile, poiché si scarica successivamente su tutti gli attori della macchina giudiziaria, danneggiandola. Per altro verso, dalle risposte dei giovani magistrati che attribuiscono la vocazione professionale alla preferenza per l’oralità si può evidenziare una vera e propria distorsione culturale.
Altri due aspetti meritano attenzione.
I giovani magistrati denunciano il carattere esclusivamente teorico del percorso formativo universitario e post-universitario, nonché l’assenza di un approccio esperienziale e attitudinale nell’accesso alla professione. Ciò rende più duro l’impatto con il vero lavoro negli uffici giudiziari, dopo il successo nel concorso, e impedisce una selezione più raffinata a monte della platea degli aspiranti magistrati. Del resto gli stessi intervistati, in altro ambito, ammettono “che non si aspettavano che le capacità organizzative nel lavoro avessero un ruolo così rilevante”.
Formule formative più ibride e moderne, non affidate all’autorappresentazione del mito del pm eroe o all’ultima serie televisiva crime, consentirebbero una conoscenza anticipata di dinamiche e implicazioni professionali complesse e impegnative, anche dal punto di vista psicologico. Ciò renderebbe più consapevoli, nella scelta sul proprio futuro, studenti pur preparati e in grado di superare il concorso, ma non tagliati per la professione. E in ogni caso strutturerebbe anche gli altri a un metodo di lavoro non coltivabile in anni di studi per lo più autonomi e solitari.
Il che si tradurrebbe in un vantaggio sia per loro che per il sistema.
Alcune risposte pongono, invece, l’attenzione sulla tipologia dei quesiti elaborati per le prove scritte del concorso. Privilegiare le novità giurisprudenziali favorisce inevitabilmente gli studenti che si sono preparati nelle scuole (private e onerose) post-universitarie, dove questo materiale viene elaborato e “pastorizzato” in tempo reale. Al contrario, penalizza chi prepara il concorso da solo. Ciò crea un social divide su base censitaria nell’accesso alla professione.
6. Le relazioni
Un dato che emerge dalle interviste è l’accresciuta capacità, oltre che disponibilità, al lavoro di squadra in aggiunta alla solidarietà tra colleghi. Attitudini che hanno una motivazione generazionale, oltre che culturale, ma non sono valorizzate a livello “sistemico”. Anzi, emerge una frattura carsica sia con le generazioni di magistrati più anziani, sia con quelli investiti di funzioni organizzative, se non “gerarchiche”.
Mandati al fronte nelle sedi più disagiate e oberati di fascicoli, non adeguatamente supportati, responsabilizzati con mansioni delicate eccedenti la loro esperienza, i giovani magistrati si rappresentano come un anello debole di un sistema gerontocratico e paternalistico – talvolta, peraltro, connotato da incrostazioni retrive fino al maschilismo.
La questione di genere, e non solo per gli aspetti patologici, diventa ineludibile a fronte di una magistratura sempre più “femminile” nella base, ma non nei ruoli apicali. Il meritorio approfondimento di questa ricerca dovrebbe essere lo spunto per progetti specifici negli uffici giudiziari. Com’è noto, la qualificazione professionale spesso limita, anziché incentivare, l’emergere di fenomeni vessatori o anche solo velatamente discriminatori.
7. Autogoverno e associazionismo
Gli Autori della ricerca riscontrano contraddittorietà nelle risposte sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. L’età degli intervistati, che in gran parte non hanno ancora avuto esperienze dirette di rapporto con il Csm, e la complessità talvolta esoterica delle funzioni da esso svolte accrescono la sensazione di “lontananza”. Gli scandali degli ultimi anni contribuiscono ad annebbiarne l’immagine. Ma, tutto sommato, il giudizio è sospeso. Dovrebbe essere lo stesso Csm a lavorare per colmare questa distanza, sia in termini comunicativi che di ascolto su base territoriale.
Anche le idee sull’Anm e sulle correnti sono diversificate e sfumate. Si percepisce disincanto, talora diffidenza, ma non disimpegno. Peraltro, il dato di partecipazione attiva (circa un quarto degli intervistati) può apparire basso in assoluto, ma non lo è se comparato con quelli di altre professioni di rilievo pubblico, compresa quella di chi scrive.
Piuttosto, dovrebbe allarmare la motivazione di chi non partecipa: «la mancanza di tempo da dedicare a questioni che non consistono nel lavoro quotidiano e nella vita familiare»[2]. Una frase che andrebbe sviscerata nelle sue implicazioni personali, culturali, ideali.
C’è da sperare che sia il punto di partenza per una nuova ricerca, assieme agli altri che questa ha meritoriamente squadernato. Un inizio, dunque. Per i magistrati in primis, se avranno la forza di rinunciare a qualche certezza. Per i decisori politici, se avranno voglia di cimentarsi con problemi più profondi e faticosi degli slogan pseudoriformisti. E, più modestamente, per gli osservatori. Per smuoverli dalla sempre incombente pigrizia del “già visto” e “già scritto”.
1. L’espressione è di Vincenzo Ferrari, cit. da C. Agnella, Dalle motivazioni all’ufficio giudiziario: la percezione del ruolo del giovane magistrato, in questo fascicolo, nota 2.
2. Vds. il report di C. Agnella, Una ricerca sulla cultura giuridica dei giovani magistrati, in questo fascicolo, par. 3.7.