Riflessioni sul concorso in magistratura tra passato e presente
La questione del reclutamento del personale della magistratura è al centro di un dibattito assai ampio. Si discute, sin dagli anni ottanta, sull’esclusività dell’accesso mediante concorso, sull’efficacia e affidabilità delle prove, sul livello e sulla tipologia delle conoscenze richieste. Nella formazione post-universitaria si consolidano diversi modelli di giurista. Temi assai attuali, considerato che la recente delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario prevede una rivisitazione dell’accesso in magistratura.
1. Il sognato (e temibile) concorso in magistratura / 2. Il reclutamento dei magistrati come questione centrale / 3. L’idea originaria dell’accesso esclusivo mediante concorso pubblico e la sua evoluzione successiva / 4. Lo strumento concorsuale tra il sospetto dell’inaffidabilità e la certezza dell’inefficacia: un male necessario? / 5. La preparazione al concorso in relazione al contenuto delle prove / 5.1. Le scuole di specializzazione per le professioni legali / 5.2. Il tirocinio ai sensi dell’art. 73 / 5.3. I corsi privati di preparazione / 6. Le prospettive future: dal ritorno al concorso “di primo livello” alla formazione pubblica accentrata
1. Il sognato (e temibile) concorso in magistratura
Molti studenti scelgono ancora la facoltà di giurisprudenza sognando il concorso in magistratura. Il concorso è il desiderato rituale di passaggio verso un mestiere che esercita ancora (nonostante tutto) un’innegabile fascinazione intellettuale, ma è anche una prova che incute forte timore e senso di incertezza per il futuro.
Il fascino del giudicare, agli occhi dello studente medio di giurisprudenza, non sembra scalfito dal diffuso crollo della fiducia nella macchina-giustizia. Il numero di partecipanti alle prove concorsuali si mantiene elevato (si avvicina costantemente, negli ultimi anni, al numero di 6000, ma è stato superato anche il numero di 7000 partecipanti)[1].
In passato è stato osservato che più della metà dei vincitori del concorso, di regola, risulta aver riportato il massimo dei voti nel percorso di studi universitario[2]: i migliori studenti di giurisprudenza paiono dunque, a tutt’oggi, irresistibilmente attratti dalla carriera in magistratura.
La ricerca dell’Università di Torino sulla cultura giuridica della giovane magistratura conferma questo dato. Almeno un quarto degli intervistati ha dichiarato di aver sempre voluto fare il magistrato e molti hanno dato per scontato che l’ingresso in magistratura sia l’obiettivo più alto e più ambizioso per uno studente di giurisprudenza. La considerazione particolarmente elevata del ruolo della magistratura, inteso come ruolo di servizio e di responsabilità, è risultata trasversale a tutte le categorie di intervistati, compresi coloro che hanno ammesso di aver scelto di partecipare al concorso per caso o per mero ripiego.
2. Il reclutamento dei magistrati come questione centrale
La questione del reclutamento del personale della magistratura è costantemente al centro di un confuso vociare dell’opinione pubblica, alimentato dalle imprecise notizie della cronaca giudiziaria. A furore di popolo, si chiede una miglior selezione, una scelta più accurata, che tenga conto non solo della preparazione giuridica, ma anche delle doti di temperanza, imparzialità, stabilità emotiva e psicologica.
Non si tratta solo di futili allarmismi o di subdoli tentativi di delegittimazione.
La crescente e sempre più capillare regolamentazione di molti degli ambiti della vita quotidiana (peraltro in un’epoca caratterizzata dalla complessità e stratificazione delle fonti normative), in uno con il dilagante ampliamento dei confini del diritto penale, determina una notevole incidenza della professionalità dei magistrati sulla vita del cittadino e sulla tutela dei suoi diritti.
Il dibattito sull’accesso in magistratura è, ad oggi, aperto. Non a caso, dopo molteplici interventi normativi, la recente riforma dell’ordinamento giudiziario si occupa di rivisitare proprio l’accesso in magistratura.
Trovare il metodo che assicuri la scelta del “miglior magistrato” è di certo un obiettivo ambizioso. Secondo alcuni un obiettivo impossibile, perché racchiude in sé la scelta del miglior giudice e del miglior investigatore, del miglior accusatore ma anche del potenziale futuro miglior dirigente, laddove «già sarebbe un compito assai arduo individuare i mezzi più adeguati alla selezione di coloro che dovranno essere giudici equilibrati ed imparziali delle nostre libertà e dei nostri beni, i garanti, per molti versi, della qualità stessa della nostra vita»[3].
Nell’ambito della ricerca condotta dall’Università di Torino, è emersa piena consapevolezza degli stessi neo-magistrati della centralità del nodo del reclutamento per la miglior salvaguardia dei valori costituzionali.
Si è, ad esempio, auspicata una maggiore diversificazione sociale nella composizione dell’ordine giudiziario come elemento che può giovare alla tutela dei diritti dei cittadini. L’attuale giovane magistratura vive con insoddisfazione il ritrovarsi appiattita sui ceti medio-alti e crede ancora nella possibilità di ri-articolare il dialogo interno raccogliendo esperienze diverse, di vita prima che di studio – crede, soprattutto, che tale obiettivo sia realizzabile solo agendo sul piano del reclutamento.
Nelle affermazioni dei neo-magistrati si legge anche, in controluce, la percezione dell’intrinseca difficoltà della selezione e il suo carattere sempre perfettibile: l’ideale di magistrato è quello che coniuga la miglior preparazione giuridica con la capacità di immedesimarsi per meglio comprendere. Una figura quasi mitica che, allo stato, dovrebbe rendersi riconoscibile attraverso la stesura di tre elaborati su singoli argomenti di diritto penale, civile e amministrativo, in un pubblico concorso della durata di tre giorni.
3. L’idea originaria dell’accesso esclusivo mediante concorso pubblico e la sua evoluzione successiva
L’esclusività dell’accesso mediante concorso di primo livello costituisce uno dei capisaldi dell’impronta burocratica della magistratura.
In altri Paesi europei, quantunque vicini al nostro dal punto di vista ordinamentale, l’accesso mediante concorso non è esclusivo, ma sono possibili canali alternativi di ingresso anche per gli incarichi di merito (e non solo, come in Italia, per le magistrature superiori), dedicati a coloro che si siano distinti in altre carriere per le loro competenze in campo giuridico[4].
Nel tempo, non è mancato chi ha sollecitato la creazione anche in Italia di canali paralleli d’ingresso in magistratura[5].
Lo stesso legislatore, con la legge n. 48/2001, aveva introdotto agli artt. 13 ss. un’ipotesi di reclutamento parallelo, ma la riforma – che, secondo alcuni, era rivolta anche a «svelenire» i rapporti tra avvocatura e magistratura[6] – è rimasta priva di applicazione.
Nell’impianto legislativo originario, di fatto mantenuto fino ad oggi, i magistrati dovevano essere scelti tra laureati in legge privi di alcuna esperienza professionale pregressa, che avessero superato prove teoriche e nozionistiche, che avessero dato dimostrazione di saper maneggiare correttamente i principi giuridici tradizionali, di avere capacità logiche e linguistiche adeguate. La formazione pratica, rivolta verso la complessità, sarebbe stata integralmente svolta all’interno dell’ordine giudiziario mediante un addestramento preliminare (uditorato, oggi tirocinio) fortemente connotato in senso artigiano.
Si è assistito a un netto scollamento della realtà da tale impostazione di fondo.
Dal rapporto di ricerca emerge che la spiccata aleatorietà del concorso in magistratura, in uno con l’estensione dei tempi di preparazione e di completamento delle operazioni concorsuali, induce i laureati a non “fossilizzarsi” sullo studio per divenire magistrato. Il rapporto prende atto che, in generale, nessuno dei partecipanti ha dichiarato di aver preso in considerazione solo il concorso in magistratura e che tutti hanno coltivato alternative professionali.
Negli ultimi anni, dunque, la magistratura ha convogliato ex-avvocati, ex-commissari di polizia, dottori di ricerca con esperienze nell’ambito universitario, soggetti provenienti da altre amministrazioni (Avvocatura dello Stato, Banca d’Italia) le cui procedure concorsuali avevano consentito un accesso più immediato all’impiego. La recente maggior frequenza dei concorsi banditi dallo stesso Ministero della giustizia, per ruoli amministrativi e per addetti all’Upp, determinerà l’ulteriore ampliamento di tale fenomeno. Sul punto, il ritorno al concorso di primo grado non avrà un impatto immediato, se lo avrà.
Possiamo affermare che l’opzione per l’esclusività dell’accesso concorsuale ha perso, nella prassi, una delle sue ragioni fondanti: la volontà di monopolizzare la formazione professionale dei magistrati.
4. Lo strumento concorsuale tra il sospetto dell’inaffidabilità e la certezza dell’inefficacia: un male necessario?
Il dibattito mai sopito sul reclutamento, si è detto, non ha mai condotto a superare lo strumento del concorso pubblico o a depotenziarlo, sia pure parzialmente.
Anche dal rapporto di ricerca universitario si legge l’assoluta fiducia dei nuovi magistrati rispetto al metodo del pubblico concorso: alcuni intervistati si sono detti fieri di essere italiani al ricordo della serietà inscalfibile delle modalità di svolgimento delle prove, nel cui contesto si svolgevano perquisizioni e controlli molto accurati per evitare che qualcuno potesse tentare di copiare. Inoltre, la maggior parte degli intervistati lo ha definito un concorso adeguato alla selezione dei magistrati[7].
Un’idea che appare immutata nel corso del tempo.
Nel 1980, Magistratura democratica promosse un convegno a Sasso Marconi «Per una riforma del reclutamento e della formazione dei magistrati». Giuseppe Borrè vi favorì la partecipazione di uditori giudiziari provenienti dai distretti di tutta Italia, i cui interventi avrebbero dovuto far emergere le criticità del sistema.
Anche allora, tutti gli interventi dei giovani magistrati si schierarono con grande decisione a favore del mantenimento dell’accesso alla funzione solo mediante concorso pubblico, indicato come unico strumento in grado di garantire la serietà e soprattutto l’imparzialità della selezione attraverso l’anonimato[8].
Eppure, se dopo il superamento delle prove siamo persuasi della bontà della selezione, prima di affrontarle ne abbiamo tutti percepito l’estrema aleatorietà.
Negli anni ottanta sono stati condotti studi statistici che hanno svelato aspetti di grande inaffidabilità delle prove scritte concorsuali. Ad esempio, è stata svolta una verifica su circa 500 casi in cui il candidato di un concorso, considerata la durata delle operazioni di correzione, aveva tentato il concorso successivo sostenendo lo scritto; ne è risultato che, nel 60% dei casi, i vincitori della prima prova scritta non erano stati in grado di superare la seconda. La conclusione raggiunta era stata quella secondo cui le tre prove scritte sono estremamente inaffidabili, in quanto «non sono adatte a distinguere i candidati che hanno le qualificazioni dovute da coloro che non le hanno»[9].
Nell’ambito di quella ricerca si era, peraltro, proceduto a intervistare i commissari di concorso, i quali avevano dichiarato di essere stati indulgenti nelle valutazioni, a ciò indotti dalla pressante necessità di copertura dell’organico. I commissari avevano pure confessato che molti dei candidati ammessi con il minimo dei voti alle prove orali avrebbero ben potuto essere eliminati in base a un giudizio rigoroso. Una confessione assai poco rassicurante, dal momento che un terzo dei magistrati immessi nell’ordine giudiziario dal 1967 al 1982 aveva superato la prova scritta con il punteggio minimo[10].
Il sospetto di inaffidabilità del concorso, assai scomodo per chi lo ha superato, si associa poi all’assoluta certezza della sua inefficacia. Il concorso non riesce ad assicurare la copertura costante e perfetta dell’organico della magistratura[11]. Già al convegno di Sasso Marconi, Michele Corio intervenne per evidenziare che il concorso, per come strutturato, non avrebbe potuto mai coprire i vuoti di organico[12]. Ciò in ragione della netta discrepanza temporale tra la determinazione del numero di posti da mettere a bando e la durata delle operazioni concorsuali[13]. Peraltro, «non esiste una relazione tra numero dei partecipanti e durata delle operazioni concorsuali»: la durata delle operazioni è rimasta sostanzialmente immutata anche negli anni in cui l’inserimento di una prova preselettiva aveva ridotto il numero dei partecipanti alle prove scritte[14].
Il concorso pubblico, pur così difettoso, appare tuttavia irrinunciabile agli occhi dei giovani magistrati sia di ieri che di oggi.
La serietà delle procedure e la severità dei controlli, la sicurezza dell’anonimato, la gestione delle prove tale da impedire fughe di notizie prima della dettatura: sono tutti elementi che, quantomeno, hanno costruito intorno all’accesso in magistratura una garanzia di imparzialità, preziosissima nella nostra Italia clientelare e raccomandatizia.
Ma vi è anche la convinzione, puramente e ingenuamente illuminista, che si debba attribuire un buon livello di fiducia alla selezione dei giuristi operata mediante temi scritti. Lo scritto mette in luce, prima di tutto, l’attitudine alla logica e la facilità a maneggiare la lingua italiana. Due attributi essenziali per potersi esprimere “in nome del popolo italiano”.
5. La preparazione al concorso in relazione al contenuto delle prove
Quale conoscenza si richiede all’aspirante magistrato?
L’impostazione delle tracce assegnate di anno in anno incide profondamente sul livello di approfondimento richiesto e, più in generale, sul tipo di studio da svolgere nel periodo di preparazione.
Nel corso della ricerca è emerso il grande problema dei concorsi degli ultimi anni: l’abbandono delle questioni giuridiche generali, di ampio respiro, in favore di prove che si focalizzano su recenti pronunce della Corte di cassazione.
Normalmente, le tracce così congegnate non impediscono comunque al candidato di cimentarsi nel ragionamento giuridico partendo dai principi generali; la conoscenza della soluzione adottata dalla Suprema corte non dovrebbe essere un requisito di cui si tiene conto nella correzione dei compiti.
Ciononostante, è sicuramente più arduo per il candidato confrontarsi con un argomento di dettaglio (come sono in genere quelli oggetto delle recentissime pronunce delle Corte di cassazione) che con un capitolo generale del diritto penale, civile o amministrativo.
Per evitare di trovarsi spiazzati di fronte alla traccia del concorso, allora, gli aspiranti magistrati si lanciano in una forsennata corsa all’inseguimento delle recentissime della Cassazione. Gran parte della preparazione per il concorso è impegnata dal tentativo di mandare a memoria i diversi orientamenti su ciascuna dettagliata questione giuridica, cercando di ricordare anche quale tra gli indirizzi sia stato il prescelto dalle sezioni unite. I manuali istituzionali (Fiandaca-Musco, Marinucci-Dolcini) sono sostituiti da enormi tomi di migliaia di pagine, pagine che scorrono non in base alla ferrea impostazione dogmatica dei classici ma per semplice (meccanica) accumulazione di novità giurisprudenziali.
Il rischio è quello di rendere doppiamente fallace una selezione già in sé aleatoria: vogliamo davvero rischiare di scambiare per capacità logica quella che in realtà è solo attitudine a mandare a memoria i passaggi di una singola sentenza?
Il rapporto di ricerca restituisce le diffuse perplessità dei giovani magistrati in proposito. Si afferma, infatti, che sarebbe meglio che gli aspiranti si cimentassero in tracce di ordine generale, in modo che si colga meglio l’organizzazione autonoma del pensiero. Insomma: smettiamola con le recentissime!
È curioso notare che, all’inizio degli anni ottanta, gli stessi giovani magistrati erano invece stanchi della tradizione.
Intervenendo in occasione del convegno di Sasso Marconi, gli uditori giudiziari a gran voce chiedevano che fosse eliminato il riferimento al diritto romano nella traccia di diritto civile, e che le tracce si adeguassero ai mutamenti di un diritto ormai variegato e in continuo mutamento; che i commissari la smettessero di proporre quegli antichi, astratti e monolitici argomenti di ordine generale, non più idonei a selezionare la nuova magistratura. Negli interventi degli uditori si legge l’insoddisfazione per un modello troppo antiquato di giurista, che si immette nell’ordine giudiziario con un repertorio ormai superato di conoscenze[15].
Dalla critica del “troppo vecchio” si è dunque passati a quella del “troppo nuovo”, dal ripudio dell’astrattezza al pentito desiderio di farvi ritorno.
Nelle due voci, che appartengono a tempi diversi, c’è almeno un tono in comune che si identifica nella comprensibile insofferenza verso la deriva nozionistica della preparazione per il concorso. Non a caso, al convegno di Sasso Marconi gli uditori reclamavano l’inserimento del diritto costituzionale in luogo del diritto romano.
La delega per la riforma dell’accesso in magistratura, introdotta con legge n. 171/2022, prevede all’art. 4 che la prova scritta del concorso, in futuro, «abbia la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati», anche mediante l’obbligatorio riferimento ai principi costituzionali e sovranazionali, con ciò sollecitando la valorizzazione della capacità di proporre e sviluppare argomenti a partire dai principi.
La richiesta di abbandono del nozionismo in favore di un’autentica verifica delle capacità di inquadramento, in realtà, non si risolve solo con la miglior formulazione della traccia.
Essa chiama in causa, da un lato, l’approccio del commissario (e correttore), per cui assume sicuramente importanza centrale la selezione delle commissioni concorsuali[16]. La composizione delle commissioni sconta già di per sé la presenza minoritaria dei componenti dell’accademia, maggiormente avvezzi rispetto al personale della magistratura a operazioni di correzione e, tendenzialmente, più addestrati a cogliere le capacità d’inquadramento sistematico del neo-giurista.
Dall’altro lato, un’influenza molto forte sul livello e sulla tipologia della preparazione concorsuale è esercitata dagli stessi luoghi di formazione post-universitaria.
5.1. Le scuole di specializzazione per le professioni legali
Il grande sogno, coltivato sin dagli anni ottanta, espresso anche al termine del convegno di Sasso Marconi di Magistratura democratica dallo stesso Giuseppe Borrè, era quello della creazione di un intervallo formativo tra la formazione universitaria e l’ingresso nella professione[17] – periodo che, idealmente, doveva essere comune agli aspiranti avvocati, magistrati e notai.
L’idea della formazione comune post-universitaria, accessibile dal punto di vista economico, era finalizzata a instaurare anticipatamente un proficuo confronto, oltreché a fondare una nuova cultura giuridica comune.
Furono dunque un alto e illuminato ideale e un’elaborazione lunga e visionaria a guidare la penna del legislatore all’atto della creazione delle scuole di specializzazione per le professioni legali; non fu una scelta motivata dalla sola volontà di «rivendicare un aumento di stipendio pari a quelli che si danno per i concorsi di secondo grado»[18].
Semmai, tra le finalità più concrete c’era quella di diminuire il numero complessivo degli aspiranti magistrati «a vantaggio dei tempi di nomina degli uditori e di conseguente copertura delle vacanze degli organici»[19].
La realizzazione del “sogno”, così largamente condiviso dagli anni ottanta in poi, ha portato però a un brusco risveglio, perché ha rappresentato il più vistoso fallimento nel susseguirsi di diverse discipline dell’accesso in magistratura.
Dal rapporto di ricerca dell’Università di Torino risulta evidente il giudizio nettamente negativo degli intervistati sulle Sspl: generiche, inutili, costose.
L’obbligatorietà del passaggio attraverso il biennio nelle Sspl è stato, sin da subito, foriero di frustrazioni e malcontento. La possibilità di iscriversi al concorso in magistratura si è allontanata nel tempo in maniera notevole. I bandi di concorso, infatti, non hanno seguito affatto l’andamento dei flussi in uscita dalle Sspl, con il risultato pratico che molti aspiranti hanno dovuto attendere anche un semestre dopo il conseguimento del diploma di specializzazione. La frequenza della Sspl, anche quando a tale titolo di accesso sono stati affiancati quello di abilitazione alla professione forense e quello di dottore di ricerca (con la riforma del 2007), costituiva comunque la via più breve per approssimarsi al concorso.
Il difetto principale delle scuole, probabilmente, stava nella previsione di programmi comuni a livello nazionale che condensavano in un biennio tutte le materie del corso di laurea in giurisprudenza, addirittura ampliate con la previsione di insegnamenti obbligatori quali l’informatica giuridica o la deontologia forense. Il percorso accidentato tra gli infiniti rivoli delle materie complementari ha caratterizzato l’esperienza alla Sspl come estremamente snervante.
Il coinvolgimento negli insegnamenti di magistrati e avvocati non è stato proficuo nell’ottica del miglioramento delle competenze, traducendosi il più delle volte nella mera moltiplicazione dei docenti e dei metodi sulla stessa materia, impeditiva di qualsiasi continuità nell’apprendimento. Lo stesso insegnamento a cura dei docenti universitari è risultato spesso disorganico e frammentato in disparati insegnamenti con taglio perlopiù monografico.
La circostanza, infine, che si trattasse di percorsi di studio a pagamento ha di fatto trasformato le Sspl in realtà scarsamente competitive, in cui sostanzialmente tutti gli studenti completavano il percorso e il cui voto finale non avrebbe avuto rilievo alcuno.
A parte qualche esempio avanzato e virtuoso, complessivamente la realtà delle Sspl si è rivelata assai desolante, del tutto inidonea a realizzare l’auspicato avanzamento nella cultura giuridica all’insegna del dialogo e del confronto tra gli aspiranti delle diverse professioni legali.
L’introduzione del canale alternativo costituito dal tirocinio ex art. 73 ha determinato il definitivo declino di queste sfortunate scuole, ormai quasi prive di iscritti – gli iscritti residui, peraltro, si identificano in coloro che non possono accedere al tirocinio a causa del modesto voto di laurea riportato, circostanza che sicuramente aggrava il basso grado di competitività interno alle Sspl.
L’esaurimento del loro ruolo si vedrà certamente all’esito del ritorno al concorso cd. “di primo grado”.
5.2. Il tirocinio ai sensi dell’art. 73
Dal rapporto di ricerca emerge una visione critica anche del tirocinio presso gli uffici giudiziari, svolto ai sensi dell’art. 73 dl n. 169/2013 (conv. in l. n. 98/2013), che dalla sua introduzione ha costituito il titolo più diffuso per l’accesso al concorso in magistratura.
I magistrati che hanno svolto il tirocinio ammettono che si tratta di un istituto ibrido, a metà tra la formazione e il lavoro di sostegno ai magistrati. Lo spostamento dell’ago della bilancia dall’uno all’altro polo è rimesso semplicemente alle capacità e alla buona volontà del singolo affidatario.
Più in generale, l’attività di tirocinio non serve al superamento del concorso. L’attività di stesura di bozze di sentenze semplici, generalmente demandata ai tirocinanti a scopo puramente formativo, non può dirsi sufficiente alla preparazione alla stesura del tema concorsuale. Parimenti è a dirsi per le ricerche giurisprudenziali, in genere di contenuto assai circoscritto, che possono essere delegate al tirocinante.
Il tirocinio, dunque, fisiologicamente si traduce in un’attività di supporto al magistrato per la maggior parte del tempo (comprendente la stesura delle intestazioni delle sentenze o delle schede informatiche dei processi, oppure il primo controllo delle notifiche). Si affianca a tale aspetto, tuttavia, la possibilità di vivere le aule di giustizia, partecipare (sia pure quali spettatori) alle camere di consiglio, comprendere insomma in cosa consista davvero il lavoro del magistrato.
Rispetto alla descritta, esigua utilità finale, la durata di un anno e sei mesi è del tutto sproporzionata. Un tirocinio di una durata così consistente, in verità, rischia di costituire una notevole distrazione per l’aspirante magistrato. Molti tirocinanti, i più appassionati, li vediamo trascorrere più di un anno tra i processi e i casi, finendo per conoscerli a menadito. Puntuali ogni mattina, sono lieti di trattenersi anche nelle ore pomeridiane (spesso anche serali) in udienza e in camera di consiglio, felici di sentirsi coinvolti nella macchina-giustizia – spesso alimentati dall’illusione di essere già dei piccoli giudici. Diventa per loro più difficile iniziare da zero la preparazione concorsuale vera e propria dopo un simile dispendio di energie e di tempo, talvolta con la consapevolezza riscoperta, a fine tirocinio, che quello di diventare magistrati è ancora solo un sogno e lo si è solo brevemente (e illusoriamente) assaporato.
5.3. I corsi privati di preparazione
Veniamo dunque al primo, principale strumento a disposizione dell’aspirante per approssimarsi al concorso: i dispendiosi corsi privati di preparazione.
Sono sempre esistiti. Addirittura, fino al 1975 vi era uno squilibrio molto significativo tra i candidati di Napoli (e Roma, per vicinanza e possibilità di pendolarismo) e quelli del resto d’Italia nei risultati del concorso, proprio perché la scuola privata di preparazione più famosa si trovava a Napoli; solo dopo la chiusura di quella scuola si è verificato un riequilibrio[20].
Le scuole coprono ormai tutto il territorio nazionale e si svolgono anche in videoconferenza. Un lucrosissimo business, improntato a criteri concorrenziali spietati, di fronte al quale il neo-laureato in giurisprudenza che voglia tentare il concorso si trova inizialmente spiazzato.
Le scuole private sono responsabili dell’idea che, per superare il concorso, sia necessario “azzeccare la soluzione”. Dopo che ciascuna delle tracce è resa nota, ogni anno, i corsi la ripropongono immantinente a fini pubblicitari: ciascuno annuncia in pompa magna d’essere stato l’unico a trattare e sviscerare quella traccia e che, in sintesi, anche uno sciocco avrebbe potuto divenire magistrato se avesse solo partecipato al corso in questione.
Nel convegno di Sasso Marconi di Md gli uditori si esprimevano con forza, nel corso dei loro interventi, contro le scuole private, in cui riconoscevano i signori monopolisti della formazione dei magistrati, responsabili con la loro diffusione di un’influenza negativa sul grado di nozionismo delle prove. Dello stesso avviso era Michele Corio, intervenuto per sostenere che le tracce dei temi avrebbero dovuto piuttosto «spiazzare» la preparazione astratta fornita dalle scuole private[21].
Anche leggendo il rapporto di ricerca, troviamo l’idea che le scuole influenzino il livello e il tipo di preparazione.
Opinioni assai autorevoli descrivono una sorta di circolo vizioso, in cui la sete di guadagno dei gestori dei corsi si intreccia con la pigrizia dei commissari: «l’intreccio malefico tra impostazione delle prove concorsuali e influenza delle varie “scuole” private di preparazione al concorso (…). Accade così che i giovani frequentatori di queste scuole private – ahimè molto numerosi! – mandino a memoria le più recenti sentenze della Corte di cassazione, nella speranza, che spesso si avvera, di trovarsi di fronte a tracce dei temi scritti ricalcate sui contenuti di quelle pronunce. (…) Il danno di questo collegamento tra preparazione mnemonica – che funziona solo se si “azzecca” l’argomento giusto – e una certa pigrizia dei commissari – che trovano evidentemente più facile correggere compiti per mera sovrapposizione di uno “stampino” preconfezionato – non può certo essere riparato dalla Ssm durante il periodo di tirocinio»[22].
I corsi privati, con la loro spasmodica attenzione alle pronunce più recenti, con il costante consiglio a ricordarne le massime, di fatto propongono un modello di giurista improntato al conformismo; un giurista che deve ben guardarsi dal maturare (e, tantomeno, mostrare) un’autonoma attitudine a valutare la bontà e la tenuta sistematica di una ricostruzione.
Quantunque sia difficile immaginare un concorso in magistratura senza scuole private di preparazione, l’auspicio da formulare, anche alla luce dei risultati della ricerca condotta dall’Università di Torino, è duplice.
Il primo auspicio è che il modello di magistrato proposto da questo tipo di formazione continui a rimanere recessivo rispetto a quello invece sognato sui banchi dell’università e che, fortunatamente, risulta dal rapporto di ricerca sulla giovane magistratura (che quei corsi privati li ha immancabilmente frequentati). L’auspicio, in altre parole, è che gli aspiranti magistrati mantengano, come fino ad oggi, la lucidità necessaria a distinguere ciò che serve per superare il concorso (la memoria delle massime, la semplificazione dei problemi, la rinuncia alla ricerca di soluzioni inedite) da ciò che invece serve davvero al magistrato; che approccino il catechismo della preparazione concorsuale vivendolo solo come un passaggio obbligato per uno scopo limitato (il superamento degli scritti), e non abbandonino al contempo una formazione autonoma più diversificata, più sensibile alla complessità, più coraggiosa.
Il secondo auspicio è che ai costosissimi corsi privati sia sottratto, quantomeno, lo sgradevole (perché discriminatorio) monopolio della preparazione concorsuale.
6. Le prospettive future: dal ritorno al concorso “di primo livello” alla formazione pubblica accentrata
Nel senso della creazione di una seria alternativa pubblica, come tale più accessibile, ai corsi privati, vanno le recenti riforme dell’accesso al concorso in magistratura.
L’art. 4 della legge 17 giugno 2022, n. 71 stabilisce che, con decreto legislativo, sia prevista l’organizzazione da parte della Scuola superiore della magistratura, «anche in sede decentrata», di corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario riservati ai laureati in possesso dei requisiti di cui all’art. 73, dl 21 giugno 2013, n. 69, «che abbiano in corso o abbiano svolto il tirocinio» medesimo o «che abbiano prestato la loro attività presso l’ufficio per il processo». I costi dei corsi devono tenere conto delle condizioni reddituali del singolo e del suo nucleo familiare. Il rinvio ai requisiti per accedere al tirocinio ex art. 73 costituisce la saldatura ideale tra la nuova scuola di preparazione e il percorso universitario, in quanto richiede un voto di laurea minimo di 105/100 e, in ogni caso, il voto di almeno 27/30 nelle materie principali.
La riforma merita due brevi osservazioni.
La prima riguarda la finalità di eguaglianza sostanziale (in linea con il ritorno, già effettivo, al concorso “di primo livello”). Il raggiungimento del lodevole scopo dipenderà dalla concreta organizzazione del corso pubblico di preparazione e dalla sua effettiva competitività rispetto ai corsi privati. Il rischio è quello di replicare i difetti delle scuole di specializzazione, con particolare riguardo alla frammentazione di ogni insegnamento tra più docenti. Lo schema di decreto attuativo licenziato il 22 dicembre 2023 demanda in toto l’organizzazione alla Ssm (compresa la disciplina dei criteri di accesso, del numero dei partecipanti e dei criteri di priorità), cui spetterà non solo la scelta dei docenti all’interno del proprio albo, ma anche la difficile programmazione delle attività tra la sede centrale e quelle decentrate. Se tale rischio dovesse avverarsi, i capaci e meritevoli, oltre a sostenere i costi (per quanto contenuti) del corso pubblico, finirebbero per iscriversi comunque ai corsi privati, con buona pace dell’obiettivo di eguaglianza sostanziale che la delega si prefiggeva.
La seconda riguarda l’ispirazione della riforma. Vi si legge un definitivo riconoscimento dell’impossibilità di eliminare un periodo di sospensione, almeno annuale ma potenzialmente più esteso, tra il conseguimento della laurea in giurisprudenza e il superamento del concorso. Tuttavia, il modello si allontana da quello proposto fino agli anni novanta. Si abbandona l’ideale – pur nobile – della formazione comune tra le professioni legali e si ritorna, dunque, al desiderio di monopolizzare e riservare all’interno dell’ordine giudiziario la formazione dei futuri magistrati.
Stavolta il monopolio formativo è realizzato attraverso la creazione di una sorta di cursus honorum, che consente di attingere ai migliori laureati di giurisprudenza: dal tirocinio presso gli uffici giudiziari (che potrebbe iniziare già un semestre prima della laurea), all’impiego temporaneo presso l’Upp (per assicurare un ulteriore periodo di studi con la sicurezza di una retribuzione mensile), riservando la possibilità di accesso a tali categorie di soggetti (tirocinanti e Upp) al corso di preparazione a numero chiuso organizzato dalla Ssm.
Poiché si ritiene inutile che l’aspirante magistrato «abbia affinato la sua preparazione giuridica universitaria in percorsi professionali improntati a principi istituzionali diversi dall’indipendenza e dall’imparzialità richieste dalla funzione giurisdizionale»[23], il legislatore immagina ora il graduale ingresso dei laureati capaci e meritevoli nell’ordine giudiziario e riserva la loro formazione post-universitaria ai magistrati stessi (e alla loro Scuola).
L’accesso riservato al corso pubblico di preparazione sembra preordinato al mantenimento in vita del tirocinio ai sensi dell’art. 73, che con l’accesso diretto perde molta della sua attrattiva. Più in generale, il corso è riservato a coloro che abbiano già prestato la propria opera a supporto della magistratura, quasi a compensazione del tempo sottratto allo studio.
Quando la riforma entrerà in vigore, potrà essere valutata adeguatamente la scelta di formare i laureati capaci e meritevoli, aspiranti magistrati, riservando loro ruoli di supporto e ausilio all’istituzione giudiziaria per un lungo lasso di tempo (che si aggiunge a quello dedicato alla formazione artigiana, corrispondente con l’uditorato). Una scelta che presenta innegabili tratti di corporativismo e che porterà grande utilità agli uffici, ma che presuppone si arrivi alla responsabilità della funzione non già dallo studio, dalla ricerca, dall’approfondimento delle questioni giuridiche, bensì dall’abitudine a mansioni vicine per loro natura a quelle amministrative. Se ne esaminerà l’impatto sulla cultura giuridica dei futuri magistrati.
1. G. Di Federico, in Id. (a cura di), Ordinamento giudiziario. Uffici giudiziari, CSM e governo della magistratura, CEDAM (Wolters Kluwer Italia), Milano, 2012, pp. 232-233.
2. R. Cartocci, L’università di provenienza, le precedenti esperienze lavorative e il ruolo delle scuole di preparazione, in G. Di Federico (a cura di), Caratteristiche socio-culturali della magistratura: le tendenze degli ultimi venti anni, CEDAM, Padova, 1989, p. 135.
3. G. Di Federico, op. ult. cit., p. 7.
4. Per una prospettiva comparatistica assai completa vds. G. Di Federico (a cura di), Recruitment, professional evaluation and career of judges and prosecutors in Europe: Austria, France, Germany, Italy, The Netherlands and Spain, Lo Scarabeo, Bologna, 2005.
5. Così G. Di Federico, ivi, p. 41. In base a un’analisi comparatistica, l’Autore suggerisce di creare forme di ingresso collaterale aperte a coloro che abbiano dimostrato particolari qualifiche professionali, al fine di rimediare alle carenze di organico.
6. G. Diotallevi, Formazione preliminare e accesso in magistratura: quale modello di magistrato, in Dir. pen. e proc., n. 7/2000, p. 813.
7. Decisamente svalutata è l’importanza della prova orale, che viene presentata nelle interviste come una sfida di mera tenuta psicologica. Il valore della prova orale potrebbe essere in parte recuperato, in futuro, con l’attuazione della delega conferita con legge n. 171/2022, che all’art. 4 riduce notevolmente il numero delle materie oggetto del colloquio, ma la centralità nel superamento del concorso plausibilmente continuerà a risiedere nello scritto.
8. Cfr. Md, Per una riforma del reclutamento e della formazione dei magistrati. Atti del Convegno promosso da Magistratura democratica, Sasso Marconi, gennaio 1980, 1981, pp. 9 e 47.
9. Così G. Di Federico, in Id. (a cura di), Preparazione professionale degli avvocati e dei magistrati: discussione su una ipotesi di riforma, CEDAM, Padova, 1987, p. 14.
10. Cfr. ancora G. Di Federico, ivi, pp. 18-19; lo stesso A. ha attualizzato la ricerca, ravvisando che anche negli anni recenti (2018 e 2019) il 40% dei vincitori del concorso risulta aver riportato il voto minimo di 36/60 – vds. Id., Reclutamento dei magistrati: disfunzioni e proposte di modifica, in Arch. pen., n. 1/2020, p. 4.
11. Cfr. ancora G. Di Federico, op. ult. cit., p. 14.
12. Cfr. Md, Per una riforma, op. cit., p. 71.
13. Per una proposta di razionalizzazione della durata delle operazioni concorsuali, vds. D. Mercadante, La riforma dell’ordinamento giudiziario e il concorso in magistratura: progressi, dubbi, questioni aperte, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022, pp. 24-25 (www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/la-riforma-dell-ordinamento-giudiziario-e-il-concorso-in-magistratura-progressi-dubbi-questioni-aperte).
14. Cfr. G. Di Federico (a cura di), Ordinamento giudiziario, op. cit., p. 233.
15. Md, Per una riforma, op. cit., pp. 8 ss., 46 ss., 53 ss.
16. Sul punto, si rinvia alle critiche già pubblicamente espresse da Magistratura democratica rispetto alla selezione dei commissari mediante mero sorteggio. Con specifico riferimento a un recente, fallimentare esperimento concorsuale (su cui volutamente non ci si sofferma in questo scritto) che in tempo di pandemia ha (dissennatamente) previsto la drastica riduzione del tempo a disposizione per le prove scritte e la trasformazione dei temi in brevi elaborati, vds. P. Gattari e A. Simonetti, Concorso in magistratura in tempo di Covid: brevi riflessioni sulle ragioni del fallimento, in Questione giustizia online, 12 giugno 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/concorso-in-magistratura-in-tempo-di-covid).
17. Così G. Di Federico in Id. (a cura di), Preparazione professionale, op. cit., p. 41: la proposta del Curatore, accanto al reclutamento parallelo, era proprio la formazione biennale comune post-universitaria.
18. G. Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense, Giuffrè, Milano, 2013, p. 165; l’A. cita, sul punto, un parere del Csm del 31 maggio 2007 nonché rivendicazioni pubblicamente espresse dalla corrente Unicost.
19. G. Sobrino, La riforma dell’accesso alla magistratura ordinaria e le sue implicazioni istituzionali, tra legge 150/2005 e legge “Mastella”: un’altra occasione mancata?, in S. Sicardi (a cura di), Magistratura e democrazia italiana: problemi e prospettive, ESI, Napoli, 2010 (www.associazionedeicostituzionalisti.it/old_sites/sito_AIC_2003- 2010//dottrina/garanzie/sobrino.html).
20. R. Cartocci, L’università di provenienza, op. cit., pp. 130 ss. Lo stesso A. significativamente evidenzia, più avanti, che è stato poi il massiccio ingresso delle donne in magistratura a determinare il netto riequilibrio nella provenienza territoriale degli uditori giudiziari (p. 139).
21. Cfr. Md, Per una riforma, op. cit., pp. 8 ss., 46 ss., 53 ss., nonché p. 70.
22. Così G. Silvestri, Formazione dei magistrati e attività della Scuola della magistratura, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2019, pp. 12-13 (www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/formazione-dei-magistrati-e-attivita-della-scuola-della-magistratura_681.php).
23. G. Silvestri, op. ult. cit., pp. 12-13.