Tra giurisdizionalizzazione e politicizzazione. La percezione dei magistrati della riforma dell’ordinamento giudiziario
Obiettivo del presente contributo è fornire una lettura socio-giuridica sulle riflessioni emerse dalla ricerca in merito ad alcuni aspetti della riforma dell’ordinamento penitenziario. Il dibattito attorno alla riforma, oltre a riscuotere ampia risonanza mediatica, è un tema particolarmente rilevante per i magistrati stessi, sia per via delle ricadute sulla quotidianità lavorativa, sia, più in generale, per l’impatto sulla rappresentazione sociale di tale ruolo. Il processo di riforma tocca infatti alcune questioni sostanziali in tema di organizzazione giudiziaria, con effetti sulla separazione dei poteri, sull’autonomia del magistrato stesso e, in termini più generali, sul rapporto tra magistrati e politica.
1. Contro la separazione delle carriere / 2. Valutazione della performance, tra trasparenza e lesione dell’autonomia / 3. Magistrati e politica: il ruolo dell’associazionismo
1. Contro la separazione delle carriere
Quello della separazione delle carriere è indubbiamente il tema più dibattuto tra gli aspetti della riforma dell’ordinamento giudiziario. Fin dall’entrata in vigore della riforma del codice di procedura penale, nel 1989, con il cambio di paradigma che ha segnato il superamento del modello inquisitorio verso un modello di stampo accusatorio, il tema ha suscitato accese discussioni tra chi ritiene la separazione un passo necessario per realizzare condizioni di parità tra accusa e difesa e chi, viceversa, da sempre ne intravede i rischi di maggior radicalizzazione del conflitto con l’ambito politico.
La questione tocca infatti la separazione di poteri, che è tratto caratteristico delle democrazie a partire dallo Stato moderno, in quanto garanzia di un sistema di pesi e contrappesi che vengono ritenuti necessari per evitare gli abusi dell’Ancien Régime e «i rischi connessi alla concentrazione del potere nelle mani di una sola persona»[1].
La ricerca evidenzia – confermando sostanzialmente quanto emerge dal dibattito in corso – il marcato posizionamento della magistratura contro la separazione delle funzioni e delle carriere, ed è interessante analizzare, da un punto di vista socio-giuridico, le motivazioni addotte per giustificare tale contrarietà. Dalla loro analisi è possibile ricavare alcune delle rappresentazioni sociali che la cultura giuridica interna alla professione dei magistrati esprime in riferimento al proprio ruolo[2].
Troviamo, innanzitutto, una diffusa minimizzazione della questione. I passaggi sarebbero pochi, anche in ragione della crescente complessità che gli stessi determinano, per via della aumentata specializzazione che investe tutte le professioni giuridiche e, nel caso specifico, chi svolge funzioni giudiziarie[3].
«Non sono favorevole alla separazione delle carriere, mi rendo conto che è un falso problema, anche perché in realtà risulterebbe che questi passaggi non sono frequenti… Capisco anche il perché. Cambiare, probabilmente, essendo ormai il nostro settore sempre più propenso alla specializzazione, in coerenza con l’evoluzione della complessità delle cose… Cambiare è sempre molto difficile, me ne sto rendendo conto adesso che ho fatto il cambio dal settore penale al settore civile ed è scioccante. Mi rendo conto che il passaggio di funzioni… non è semplicissimo e, quindi, le motivazioni per farlo devono essere veramente forti» (intervista 24).
Quello dei passaggi di carriera sarebbe dunque un “falso problema”, in quanto cambiare è complicato e gravoso, in primis per il magistrato stesso. Si tratta evidentemente di uno dei risvolti della crescente complessità che, nel tempo, ha connotato le varie professioni giuridiche, per cui «più una società si differenzia al proprio interno, articolandosi in un gran numero di posizioni, più il diritto tende a divenire complesso e patrimonio di soggetti tecnicamente specializzati nella sua applicazione, nella sua formazione e nella sua stessa comprensione, e tuttavia anch’essi differenziati per funzioni sociali espletate»[4]. La ricorrente proposta della separazione di carriere e/o funzioni viene così percepita come manifestazione di un uso simbolico delle politiche[5], che – come vedremo – è volto a trasmettere un messaggio punitivo o di restringimento dei confini dell’attività dei magistrati, «più di facciata che altro» (intervista 1).
Nonostante la difficoltà a “cambiare” funzione, in molti evidenziano il valore aggiunto che l’assumere panni diversi può portare allo svolgimento della professione e al sistema nel suo complesso.
«Sulla separazione, secondo me, si fa un grosso errore, che – se passa una cosa del genere – non va solo a discapito del magistrato, ma anche e soprattutto dell’utenza. Mi spiego meglio. Parto dal presupposto che noi rendiamo un servizio, quindi l’obiettivo principale è cercare di fare il nostro lavoro al meglio per rispondere, appunto, a un’esigenza di giustizia, che esiste a tutti i livelli. Non consentire a una persona di arricchirsi professionalmente è banalmente un autogol. Fare un periodo da pubblico ministero sarebbe per me un enorme arricchimento. I migliori giudici sono quelli che sono passati per la Procura e viceversa, perché hai un bagaglio culturale più ampio, è ovvio che è così. Così come, ecco, aver fatto l’avvocato per un periodo mi fa capire delle cose. Ma è banale, cioè mi sembra un discorso molto semplice, intuitivo, logico, a prescindere dalle posizioni politiche e quant’altro. A me sembra un discorso di ragionevolezza» (intervista 9).
«Sì, questa è una cosa che a me provoca profondo rammarico… Premesso che sono pubblico ministero “convinta” e, per adesso, non cambierei mai funzione, per la mia personale esperienza, la maggior parte dei magistrati più competenti e più bravi che ho conosciuto erano persone che avevano svolto entrambe le funzioni… E non è assolutamente vero quello che viene fatto passare: che se hai fatto il pm non puoi fare il giudice perché hai l’ottica accusatoria; non è così, semplicemente è un arricchimento di cui disponi. A maggior ragione, passando da giudice a pubblico ministero, probabilmente… Aver fatto il giudice può essere ancor più utile, perché ti cala nella prospettiva del dibattimento, cosa che impari a fare anche da pubblico ministero, però è un qualcosa che ti arricchisce tanto …» (intervista 21).
Tra le motivazioni ad opporsi a questo aspetto della riforma, troviamo poi la necessità di mantenere l’unità di una classe professionale attorno al cappello della giurisdizionalità, attraverso cui l’azione giudiziaria applica le norme giuridiche e si inserisce, dunque, nei più ampi processi di implementazione[6].
«Questa idea che il pubblico ministero debba essere l’avvocato dell’accusa è figlia di un sistema diverso (…). Penso che e a noi servano pubblici ministeri che sono l’opposto dell’avvocato dell’accusa. Cioè devono essere i “primi giudici” (…) Il pubblico ministero è il primo giudice, perché la polizia giudiziaria (che fa un lavoro immenso) ha un’ottica differente, un’ottica orientata a perseguire i reati, a trovarli, a denunciare le persone – e ci sta tutto. Il primo giudice è il pubblico ministero. Se il pubblico ministero perde la cultura giurisdizionale, il Paese non ne esce meglio, per come la vedo io. La riforma avrebbe dovuto puntare proprio all’opposto: ritengo ci sia stata una perdita di cultura giurisdizionale dei pubblici ministeri. Certo, non aiutano l’obbligatorietà dell’azione penale, i ritmi di produzione enormi, le carenze d’organico… Queste sono cause che vanno tenute in considerazione» (intervista 36).
«Qua è opportuno comprendere una cosa, prima che sia troppo tardi. Il pubblico ministero deve rimanere nella giurisdizione, nella maniera più assoluta. Pensare di separare le carriere, addirittura le funzioni, è una follia… Al di là del fatto che il pubblico ministero un giorno finisca alle dipendenze dell’esecutivo, perché poi la mia preoccupazione è che il progetto essenzialmente sia: oggi si inizia con questo intervento di poco conto, separazione di carriera e basta, anche perché per la separazione delle funzioni ci vuole una riforma costituzionale; oggi è così, e poi si arriverà a quello. Ma ancor prima di giungere a un pm che prende gli ordini dal Ministero della giustizia, il problema della riforma è che il pubblico ministero – con tutto il rispetto del mondo – non deve ragionare come la Polizia giudiziaria, perché ognuno fa il suo lavoro. E il pubblico ministero è il primo argine alla tutela delle garanzie della difesa, alla giurisdizione. Sotto questo aspetto, sono preoccupato e già vedo, nelle procure, un abbandono della cultura della giurisdizione – manca solo che venga formalizzato» (intervista 20).
Molte delle riflessioni poste dagli intervistati, anche qualora non direttamente sollecitati sul punto, hanno riguardato il ruolo del pm e i possibili rischi, in termini di politicizzazione di tale figura, che quello che viene percepito come lo sradicamento da una cultura della giurisdizionalità determinerebbe. Si tratta forse dell’aspetto più delicato riguardante il bilanciamento tra poteri: la deriva che molti intravedono è quella della trasformazione del pubblico ministero in una sorta di «super poliziotto» (questa la definizione correntemente usata) che risponderebbe più al potere esecutivo che al mandato giudiziario.
«Intanto, l’ordinamento italiano è tra i più invidiati come uffici del pubblico ministero, perché hanno le stesse garanzie del giudice in termini di autonomia e indipendenza, cosa che manca invece nella maggior parte degli ordinamenti – questa autonomia, questa unitarietà della funzione, del concetto di magistrato. Poi succede che il pm è assoggettato al potere politico, quindi il passaggio successivo alla separazione delle carriere è trasformare il pubblico ministero in un “super poliziotto”, come a volte in maniera dispregiativa viene definito, che però è un rischio concreto rischio. Già ora abbiamo le direttive, già tutti i procuratori devono indirizzare nello specifico l’attività dei sostituti procuratori, quindi si dà un grande potere al procuratore; ma sarà un attimo, poi, riservare le scelte significative – ad esempio, in termini di discrezionalità dell’azione penale – al pm, e questa è la garanzia maggiore che perde la cittadinanza. Se io, pubblico ministero, decido di indagare una persona, gli cambio la vita… Se decido di archiviarlo o di mandarlo a giudizio, gli cambio la vita – sia alla persona offesa che alla persona indagata. L’autonomia del pm, secondo me, era fondamentale e già ci sono stati tanti vincoli» (intervista 21).
In questo stralcio di intervista, rappresentativo di posizioni ampiamente condivise, emerge la questione della selettività connaturata all’avvio dell’azione penale e al giudizio[7]. Il dibattito sui criteri di priorità utilizzati nelle pratiche, tanto degli uffici giudicanti quanto di quelli requirenti, è ben presente nel contesto italiano almeno dagli anni novanta, soprattutto su impulso della nota “circolare Zagrebelsky”, la quale riconosce esplicitamente che l’individuazione di specifici criteri di priorità non contrasta con l’obbligatorietà dell’azione penale, dal momento che il mancato esercizio di tale azione in maniera tempestiva e adeguatamente preparata per tutte le notizie di reato non infondate «non deriva da considerazioni di opportunità relative alla singola notizia di reato, ma trova una ragione nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso»[8].
Nella letteratura socio-criminologica, è soprattutto l’approccio costruzionista[9] ad aver evidenziato come gli attori della giustizia penale svolgano un ruolo preminente nella definizione di ciò che è “crimine” e “criminale” e, in ciò, contribuiscano a rendere selettivi i processi di criminalizzazione. Preso atto della natura selettiva dell’impulso all’azione penale e del carattere puramente formale dell’obbligatorietà dell’azione penale, il nodo del dibattito ruota attorno a quali attori debbano assumere il ruolo di primo piano nella determinazione dei criteri decisionali su quali comportamenti perseguire in maniera più incisiva. In altri termini: in che misura debba trattarsi di una funzione di natura politica e in che misura di una funzione di natura squisitamente giurisdizionale. In questo è chiamata, ovviamente, in causa la questione dell’autonomia della figura del giudice rispetto a quelle che vengono percepite come possibili e pericolose ingerenze, soprattutto da parte dell’esecutivo.
«Non sono particolarmente favorevole… Credo che alcune previsioni siano semplicemente un primo passo verso (…) quella che è definita “separazione delle carriere”, che separazione non è, perché mi limita semplicemente il passaggio a una volta nella vita… È soltanto un altro elemento per delegittimare, fino a romperlo, il legame tra pubblico ministero e giudice all’interno del potere giurisdizionale. Cosa a mio parere gravissima e pericolosissima. Oltretutto potremmo provare – ogni tanto – a imparare dagli altri Paesi europei… in cui gli uffici dei pubblici ministeri sono sotto l’esecutivo (che è, probabilmente, l’approdo ultimo, di qui a qualche anno…). La situazione dell’indipendenza dei pubblici ministeri è complessissima ed è percepita come una problematica enorme dagli stessi pubblici ministeri. Quindi, forse, già questo dovrebbe farci riflettere non poco» (intervista 7).
2. Valutazione della performance, tra trasparenza e lesione dell’autonomia
I rischi di limitazione dell’autonomia del magistrato vengono attribuiti altresì al modello di valutazione della sua professionalità, altro aspetto della riforma su cui gli intervistati sono stati sollecitati ad esprimersi. In questo caso, la questione assume rilevanza soprattutto se inserita nel quadro più ampio dell’opinione che i cittadini hanno a proposito di tale ruolo. Alcuni intervistati esprimono una consapevolezza dell’importanza della trasparenza, soprattutto per contrastare il rischio di essere percepiti come una sorta di casta intoccabile e arroccata sui propri privilegi:
«Magistrato 1: Quando attacchiamo la riforma, perché riteniamo che determinati punti siano critici, come ad esempio la valutazione dei magistrati, noi passiamo come quelli…
Magistrato 4: … che non vogliono essere valutati.
Magistrato 1: Esatto. Noi passiamo come magistrati sulla difensiva, che vogliono sfuggire a una valutazione perché… sono una “casta”» (focus group n. 2).
Spesso i media vengono ritenuti i principali attori responsabili nel promuovere un’immagine del magistrato poco efficiente, colluso col sistema politico e interessato a mantenere i propri privilegi, senza mai render conto dei reali ritmi di lavoro che spesso caratterizzano gli uffici giudiziari:
«La credibilità è dovuta sempre al solito problema, per come la vedo io: in Italia i media fanno passare il messaggio che vogliono loro. Questo è il problema principale… Non dicono le cose come realmente stanno, ma fanno passare un certo tipo di messaggio generalizzando alcuni concetti, che spesso sono eccezionali, come quello della lentezza o dell’improduttività dei magistrati, quando ci sono statistiche che dicono che i magistrati italiani sono tra i più produttivi d’Europa, e il problema è che sono in sotto-organico rispetto alle esigenze di giustizia del Paese. Quindi, si accumula un arretrato esorbitante rispetto ai colleghi tedeschi, che sicuramente saranno in numero adeguato alle esigenze dell’ufficio. (…) “Ah, la magistratura… la casta, gli inciuci con la politica…”: questa è l’idea che viene fatta passare, non certo quella del collega che fa le due di notte o del collega – della Procura o del tribunale – in turno, che fa la direttissima di sabato, il 25 dicembre se cade di sabato, e c’è l’arresto… il 1° di gennaio e non ha lo straordinario, non ha il riposo… Va lì, ha l’arresto, si fa la convalida, viene svegliato in piena notte, deve risolvere l’esigenza del momento… Ecco: questo messaggio non è veicolato» (focus group n. 2).
La proposta (contenuta nella riforma) di sottoporre il magistrato a una valutazione di professionalità viene dunque spesso percepita in chiave punitiva, ossia viene letta nel quadro della sfiducia che permea il sistema complessivo entro cui si inserisce l’attività giudiziaria. Tale sfiducia pare attribuibile alla posizione di particolare distacco dal cittadino comune, che, a sua volta, deriva dalle caratteristiche che il sistema giudiziario ha assunto nelle democrazie liberali fondate sulla separazione dei poteri: nel caso italiano, un giudice selezionato tramite concorso, per questo inamovibile, la cui autonomia spesso si traduce (o così viene recepita) in sostanziale isolamento dal resto della società. In un tale quadro, se la professionalità del giudice dovrebbe garantire «il massimo di indipendenza», al contempo essa «allontana il comune cittadino dalla giustizia, che da molti viene percepita come un mondo estraneo da cui scaturiscono provvedimenti, spesso dolorosi, esito di incomprensibili ritualismi»[10].
«È una riforma che per noi è sicuramente punitiva. Il suo presupposto di fondo è che il nostro lavoro deve essere controllato in maniera più pervicace e costante di quello che non sia stato fatto in passato, per cui si riducono i termini delle indagini, si impone al pubblico ministero di fare la discovery di ogni fascicolo scaduto a seguito delle indagini preliminari, si sottopone il pubblico ministero a poteri di sollecitazione da parte delle parti, quindi da parte degli avvocati, degli indagati, delle persone offese. Questo, nell’organizzazione quotidiana, in un posto come quello dove sto io, ha sicuramente effetti molto, molto negativi, perché impongono innanzitutto una modalità di lavoro nettamente accelerata, riducono i tempi delle indagini, dobbiamo chiudere tutto in meno tempo, quindi sei mesi in meno rispetto a quello che facciamo finora, ed è praticamente impossibile, perché molto spesso i fascicoli non sono esitati, quindi non possono essere definiti… Non so come si porrà il problema da un punto di vista pratico, se saremo costretti a definirlo facendo a tutti i costi una richiesta di archiviazione perché non abbiamo gli elementi per definirlo in altro modo. Non so se questa riforma abbia tenuto conto di quelli che sono gli aspetti pratici della realtà giudiziaria italiana, perché in posti come questo – e in tanti altri posti simili –, in cui non c’è una polizia giudiziaria brillante, in cui abbiamo ancora arretrato di qualche anno fa… imporre al pm di definire tutto a scadenza significa che egli o incorre subito nel disciplinare perché non può chiudere tutto, o che chiude tutto in maniera molto rapida e approssimativa. Quindi, con un tasso di richieste di archiviazione altissimo» (intervista 25).
Il rischio ritenuto maggiore è la deriva aziendalista[11] che l’attività giudiziaria potrebbe intraprendere, di cui un’impennata delle decisioni di archiviazione è definita come uno dei presumibili effetti più preoccupanti[12]. L’enfasi posta sull’efficientismo del lavoro del magistrato si tradurrebbe in un’attenzione esclusiva ai numeri e al raggiungimento di obiettivi di carattere quantitativo (di cui lo smaltimento agile di un maggior numero di fascicoli è l’esempio più utilizzato), a discapito del perseguimento di criteri di qualità del risultato raggiunto:
«Allora, sulla riforma, la criticità preponderante è quella relativa al fascicolo delle performance, che ritengo un’aberrazione totale, perché conduce a quella che è stata definita – e viene definita – “deriva aziendalistica” della magistratura, tuttora in corso. Noi la percepiamo, specialmente noi giudici civili, che siamo chiamati a produrre continuamente (perché comunque siamo sommersi da una mole di contenzioso inaudita), a risolvere situazioni spesso di carattere emergenziale, dal punto di vista processuale, di natura cautelare. Per noi non esiste la “tagliola” della prescrizione, che invece al penale consente molto spesso di non sviluppare arretrato. La deriva aziendalistica è tuttora in essere: figuriamoci se dovesse essere istituzionalizzata, nel momento in cui si andrebbe a valutare un magistrato sulla scorta di quanti provvedimenti ha redatto e depositato... Secondo me, ripeto, questa è la stortura più evidente» (intervista 4).
Tra le motivazioni alla base dell’opinione marcatamente contraria a un tale modello di valutazione della professionalità del magistrato, figurano sia l’impatto indiretto sui cittadini, sia le conseguenze in termini di decurtazione dell’autonomia della figura del giudice. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’atteggiamento punitivo nei confronti del giudice andrebbe in realtà a ripercuotersi, in ultima istanza, soprattutto sul cittadino nella misura in cui, per soddisfare criteri di efficienza e per non incorrere in sanzioni disciplinari, il giudice potrebbe essere portato a mettere in atto quella che un intervistato ha, in maniera molto efficace, definito «magistratura difensiva»[13]:
«La paura del disciplinare, che crea magistratura difensiva… Cioè, bisogna stare attenti. Perché il rischio poi è che uno abbia un approccio conservativo… od “omertoso”, del tipo: “ma perché mi devo mettere contro il presidente di sezione?”» (intervista 36).
In secondo luogo, emerge con forza il rischio che la valutazione della performance posta in questi termini si traduca in una marcata limitazione dell’autonomia del giudice:
«Io ho un giudizio molto negativo riguardo a questa riforma… È un passo ulteriore verso l’erosione della nostra indipendenza, la nostra autonomia, che non (…) va coltivata per un interesse di categoria, ma è un interesse collettivo. Renderci autonomi, renderci indipendenti tutela il debole. Se noi non siamo autonomi, non siamo indipendenti, da chi non lo siamo? Dal potente. Quindi il debole che chiederà giustizia e si troverà davanti il potente dovrà iniziare a temere i condizionamenti che possiamo subire. Questa riforma crea, inizia a mettere un tassello – forse ce ne sono già diversi di tasselli – importante. (…). Che si debba tendere a smaltire l’arretrato, a definire le cause più anziane, è un dato pacifico e comunemente condiviso, ma non è assolutamente quello il problema. I problemi… i primi che mi vengono in mente: intanto, l’introduzione surrettizia dell’obbligo di conformarci alle pronunce della Cassazione. Con questa riforma, adesso, se ci discostiamo da una pronuncia della Corte di cassazione, siamo suscettibili di procedimento disciplinare. E questo cosa significa? Che soluzioni “deboli”, diciamo così, del giudice di legittimità non potranno essere più messe in discussione sostanzialmente. Tenga presente questo. Uno dice: “ma dove sta la lesione dell’autonomia”? Sta in ciò: che condizionare 10.000 magistrati è più difficile che condizionarne 200. I giudici della Cassazione sono quelli, non sono di più. Riuscire a condizionare 200 persone è più semplice e quindi si riesce, si può riuscire a orientarli (…). Che gli avvocati partecipino al consiglio giudiziario quando deve deliberare sulle nostre valutazioni di professionalità crea un gravissimo cortocircuito» (intervista 38).
Come conciliare dunque la condivisibile e riconosciuta importanza della trasparenza, che deriva dall’essere sottoposti a controllo e valutazione, per raggiungere una maggiore vicinanza con il cittadino, senza ledere l’autonomia e l’indipendenza del magistrato, garanzia necessaria e irrinunciabile in uno Stato di diritto? Qualcuno propone di adottare un atteggiamento non di difesa, ma di spiegazione, ossia di comunicazione e dialogo con il cittadino:
«Io non sono per i grandi programmi, o per difendere a spada tratta la categoria, perché non dovrebbe essere questo l’approccio comunicativo… Ma un approccio di spiegazione: dare al cittadino un esempio diverso rispetto a quello che gli propone il media, un esempio in termini fattuali. Cioè, quando il media dice che noi siamo in ritardo e che siamo dei nullafacenti, dargli un esempio totalmente opposto, ma perché? Perché, se no, il cittadino è sfiduciato, pensa che il magistrato sia un parassita, che faccia parte di una “casta”, che sia lì soltanto perché interessato al potere, al denaro… Per il cittadino comune noi guadagniamo cifre stellari, quasi come i calciatori… e ci arrocchiamo sui nostri privilegi, fregandocene delle istanze del cittadino» (focus group n. 2).
«Allora, il mio impegno è cercare, coi fatti, di restituire una sostanziale credibilità sia all’interno che all’esterno dell’associazione, quindi sia nei rapporti con i colleghi (…) e al tempo stesso, però, aperti nei confronti della società. Cercare, appunto, di tornare nelle scuole, nelle piazze, cercare di mostrare quel che è: che la stragrande maggioranza dei magistrati sono persone operose, che lavorano quotidianamente, che cercano soltanto di amministrare la giustizia nel miglior modo possibile. Ritengo giusto che questa immagine ritorni, e che trapeli il più possibile all’esterno» (intervista 3).
Tutelare le garanzie di indipendenza e autonomia del potere giudiziario non significa, dunque, necessariamente mantenere una distanza dal cittadino comune, ma immaginare la figura di un magistrato che si confronta con il contesto sociale in cui opera, per rompere quell’isolamento e quel distacco che spesso contribuiscono a dar forma all’idea di un funzionario pubblico ancorato ai suoi privilegi e del tutto disinteressato a perseguire gli ideali di giustizia.
Un ruolo più ampio e complesso, che la deriva aziendalista rischia di incrinare e che invece, secondo alcuni, andrebbe recuperato, anche attraverso una presa di coscienza di tipo politico del proprio ruolo. È in quest’ottica che anche l’associazionismo andrebbe – come riferito da alcuni intervistati – riorientato, per arginare, anche in questo caso, il dilagante senso di discredito che lo stesso incontra tra l’opinione pubblica.
3. Magistrati e politica: il ruolo dell’associazionismo
Il dibattito interno alla magistratura sul ruolo dell’associazionismo (inteso non tanto in senso ampio, ossia di adesione più o meno attiva all’Anm, quanto di partecipazione alla vita delle correnti) è un tema rilevante soprattutto in termini di rapporto tra poteri perché, ancora una volta, offre elementi di riflessione sul delicato rapporto tra il giudice e il campo politico.
Un dato preliminare che emerge in maniera ricorrente dalla ricerca è la fatica che molti intervistati lamentano nel “trovare il tempo” per informarsi e partecipare alla vita associativa:
«Temo che per tantissimi la questione non sia tanto “condivido o non condivido una certa ideologia, una certa tematica”, ma il tempo di andare a vedere cosa dice una e cosa dice l’altra. Magari il pensiero rispecchierebbe in pieno il manifesto di un movimento, di un’associazione piuttosto che di un’altra, ma il tempo materiale di andarsi a leggere… Glielo confesso: io faccio fatica. Ancora una volta, mi salva YouTube, dove vengono caricate le conferenze di questi che parlano e io me li ascolto mentre sono in macchina. Perché come fai a partecipare a un congresso nazionale, se non online? E attraverso queste forme di registrazione a distanza? Non si può investire due giorni interi del proprio tempo… Purtroppo anche questo, secondo me, contribuisce al disamore verso la forma associativa» (intervista 29).
Il posizionamento del giudice nei confronti delle correnti varia a seconda del modo in cui esse vengono definite e percepite. Ai poli opposti troviamo chi le definisce come un centro di potere, un modo per far carriera e ottenere vantaggi personali, e chi invece le considera un’occasione del tutto legittima e, anzi, auspicabile di approfondimento culturale, di formazione, di condivisione ed espressione delle proprie idee e di un proprio modo di interpretare la giustizia.
Da un lato, c’è dunque chi si esprime in maniera molto dura nei confronti della degenerazione dell’appartenenza a correnti:
«Quello che penso è che, in molti casi, la degenerazione dell’associazionismo ha fatto sì che molti magistrati appartenenti alle correnti abbiano assunto i peggiori vizi dei politici, nel senso che non si ragiona per un’idea, ma per un interesse di categoria… o di corrente… L’essere associati in maniera così forte e incisiva ha comportato che si perdesse di vista l’obiettivo dell’associazionismo, quindi la ripartizione dei posti, delle cariche, dei direttivi, dei semidirettivi, ha nuociuto nettamente all’intera categoria. Detto questo, non si può demonizzare un sistema che, oggettivamente, può contemperare il fatto che tra magistrati ci siano idee diverse, e che tali idee vengano messe insieme in un gruppo. Su questo non c’è niente di male, l’associazionismo risponde a logiche umane» (intervista 25).
Al contempo, le correnti rappresenterebbero – almeno in potenza – lo strumento più significativo di partecipazione alla vita democratica:
«Molti colleghi vedono con assoluto distacco tutto ciò che riguarda il correntismo e, comunque, le correnti della magistratura. Io non sono di questa idea. Sebbene non sia ancora iscritto – perché non ho ancora maturato una scelta in questo senso, essendo tutto sommato da poco in magistratura –, soprattutto in questi ultimi mesi, in cui ho visto quello che è successo con la riforma, lo sciopero, mi sono reso conto dell’importanza che comunque tutti i magistrati hanno di essere parte attiva nel confronto democratico. Sempre» (intervista 6).
La realtà è fatta come sempre di molte sfumature, per cui in genere le due componenti coesistono. L’ambivalenza dell’appartenenza alle correnti è ben espressa, ad esempio, dalla seguente testimonianza:
«Non ho individuato – né ritenuto di dover aderire a – una particolare corrente o associazione, non penso che siano qualcosa di negativo in assoluto. Penso che all’interno di queste associazioni si creino molte dinamiche, però negative, dalle quali e per le quali non ho interesse a essere coinvolto… E che le stesse associazioni abbiano al loro interno un po’ diverse anime, cioè: ci sono colleghi che lo fanno con uno spirito che riconosco come genuino ed effettivamente impegnato, nel senso giusto del termine; altri colleghi, invece, mi danno l’impressione di vivere quella dimensione come una consorteria, cioè qualcosa che sia un po’ legato a sviluppare una rete di conoscenze… Cioè il fine medesimo diventa sviluppare una rete di conoscenze, di persone che stanno insieme perché scelgono di stare insieme e di essere più forti insieme… Insomma, stanno insieme un po’ contro gli altri, e non per portare un’idea, stanno insieme per portare un gruppo di interessi. Eh, questa è la grossa dicotomia che si crea nella… cioè, nell’idea che si può avere di questo associazionismo (…) Ciò determina in me un atteggiamento piuttosto prudente rispetto all’appartenenza» (intervista 27).
In molte testimonianze, le funzioni delle correnti vengono dunque descritte in una maniera che ricalca quello che è il duplice ruolo dei partiti: la rappresentanza degli interessi e la formazione politica. E nelle testimonianze sopra riportate si intravedono le stesse deformazioni che hanno portato alla “crisi dei partiti”[14], soprattutto per quanto concerne il loro indebolimento quali strumenti di formazione politica. Un vuoto che è stato, progressivamente, in parte colmato dall’affermazione di intermediari (gruppi di interesse, di pressione, lobbies, etc.). Un aspetto di sicuro interesse per la ricerca socio-giuridica riguarda l’analisi di quanto e come l’evoluzione del correntismo abbia impattato sulla rappresentazione sociale delle stesse correnti, tanto da parte dei magistrati quanto degli altri attori del campo giuridico, quanto del cittadino comune (benché si tratti di un tema su cui difficilmente il non esperto ha la possibilità di formarsi un’opinione, considerata l’autoreferenzialità che, in genere, connota il dibattito specifico sul punto). È stato evidenziato infatti come «soprattutto da un punto di vista culturale-ideologico (che costituiva il vero terreno di differenziazione) si è perso in gran parte lo spirito identitario, che aveva caratterizzato inizialmente l’azione delle varie correnti»[15].
Da una prospettiva socio-giuridica, nel delicato posizionamento del giudice tra giurisdizionalizzazione e politicizzazione, le correnti svolgono un ruolo centrale, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra mutamento giuridico e mutamento sociale. Esse rappresentano per il giudice un importante veicolo per abbandonare i panni del burocrate e assumere un ruolo di primo piano nei più ampi processi di mutamento sociale:
«Penso che sia comunque necessaria una riflessione organizzata su quello che è il ruolo del magistrato, che vada fuori dal fascicolo, insomma. Questi gruppi intermedi servono a questo, l’associazionismo serve a questo: darci l’occasione di riflettere, questa è la mia idea, su quale sia la nostra condizione, il nostro ruolo nella società, che cosa possiamo fare per migliorare queste cose, anche nella nostra attività, ma acquisire una consapevolezza che ci dia forza e ci dia però anche la capacità di fare autocritica, un dibattito, crescere… Di essere, in fin dei conti, un elemento nella società che non solo si accompagna a una gestione conservativa di un potere che ha, oggettivamente, ma che comunque contribuisce al progresso sociale. Vogliamo dire questo?» (intervista 27).
«Bisognerebbe un attimo, con onestà, riconoscere che noi siamo un potere dello Stato, siamo un’istituzione, una certa vocazione politica c’è. Che ci sia una spartizione di potere secondo me è inevitabile, bisognerebbe avere il coraggio e l’onestà di dire: “ma c’è anche questo, secondo me è legittimo, ci sono nella nostra organizzazione ordinamentale dei momenti che, inevitabilmente, sono fortemente politici, nel senso proprio di potere”. Abbiamo anche, nella nostra organizzazione, sensibilità molto diverse, che è giusto si confrontino. Ed è giusto che le associazioni portino avanti un’idea di politica giudiziaria in senso stretto (…). Bisognerebbe avere il coraggio di rivendicare il ruolo più prettamente politico, mentre quello che sento tantissimo dai colleghi è che la parte di politica giudiziaria, nel senso più stretto, è guardata con orrore. Quello, inevitabilmente, c’è…» (focus group n. 1).
Com’è noto, l’affermarsi di prospettive antiformalistiche nell’ambito della dottrina e della giurisprudenza è sfociato all’inizio degli anni settanta nel cd. “uso alternativo del diritto”, attraverso cui la magistratura italiana ha assunto la veste di «agente di riforme della vita civile e politica negli anni ‘80 e ‘90»[16], una metodologia che avvicina il giudice al campo politico ma, al contempo, lo rende più indipendente dal potere politico stesso (incarnato tanto dalla legge quanto dal potere esecutivo). Se le correnti rappresentano per molti lo strumento principale per affermare un ruolo da protagonista del giudice nel promuovere mutamento sociale e dare impulso all’affermazione dei principi costituzionali, da più parti viene messo in luce il rischio che l’evoluzione delle stesse correnti (e, soprattutto, della rappresentazione che di esse si è affermata negli ultimi anni) porti a un arretramento, a un’involuzione.
«La magistratura comunque è stata motore, propulsore di tante riforme in questo paese, giudiziarie, intendo, di attuazione di diritti costituzionali e questo noi lo dobbiamo salvaguardare» (focus group n. 3).
La ricerca conferma, dunque, come la questione delle correnti e il modo in cui esse vengono culturalmente e socialmente rappresentate e vissute costituisce un’importante lente attraverso cui osservare e riflettere su quel delicato equilibrio tra giurisdizionalizzazione e politicizzazione che connota il ruolo del magistrato che si trova ad operare in uno Stato di diritto.
1. G. Campesi - L. Pannarale - I. Pupolizio, Sociologia del diritto, Le Monnier, Firenze, 2017, p. 60.
2. Con il concetto di “rappresentazione sociale” si intende quello specifico tipo di conoscenza socialmente elaborata e condivisa che una società (o una parte di essa: un gruppo, una subcultura, etc.) produce. Come ha evidenziato Vincenzo Ferrari, «la magistratura viene a configurarsi come un’autentica subcultura, che elabora una propria visione del mondo e un proprio stile di rapporti sociali» – V. Ferrari, Diritto e società. Elementi di sociologia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 152.
3. Secondo il rapporto sulla mobilità della magistratura italiana sul territorio predisposto dal Consiglio superiore della magistratura, a cura di S. Cecini, M. Filomeno e I. Rocchetti, tra il 1965 e il 2014 i passaggi da funzioni requirenti a funzioni giudicanti e viceversa ha interessato il 27% dei magistrati. Tra questi, il 51,5% ha riguardato, nello specifico, il passaggio da funzioni requirenti a giudicanti (www.csm.it/documents/21768/137951/Mobilit%C3%A0+della+magistratura/166f313d-a7ee-c3f6-4116-1a81c44e4e7b).
4. V. Ferrari, Diritto e società, op. cit., p. 131.
5. M. Edelman, The symbolic uses of politics, University of Illinois Press, Urbana-Chicago, 1985.
6. Per un’analisi socio-giuridica dell’implementazione delle norme si rimanda a F. Prina, I processi di implementazione delle norme: dai diritti di carta ai diritti sostanziali, in A. Cottino (a cura di), Lineamenti di sociologia del diritto, Zanichelli, Bologna, 2019, pp. 303-340; M. Raiteri, Decisione giuridica e legittimazione, in R. Altopiedi - D. De Felice - V. Ferraris (a cura di), Comprendere la sociologia del diritto. Concetti e temi, Carocci, Roma, 2022.
7. Tra le principali ricerche empiriche sul tema, si rimanda ad A. Cottino e C. Sarzotti (a cura di), Diritto, uguaglianza e giustizia penale, L’Harmattan Italia, Torino, 1995; F. Quassoli, Immigrazione uguale criminalità. Rappresentazioni di senso comune e pratiche organizzative degli operatori del diritto, in Rassegna italiana di sociologia, n. 1/1999, pp. 43-75; G. Mosconi e D. Padovan, Processo penale e costruzione sociale del “delinquente”, in A. Balloni - G. Mosconi - F. Prina (a cura di), Cultura giuridica e attori della giustizia penale, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 81-171; Iid. (a cura di), La fabbrica dei delinquenti. Processo penale e meccanismi sociali di costruzione del condannato, L’Harmattan Italia, Torino, 2005; C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine. Procure della Repubblica e organizzazione giudiziaria, Giuffrè, Milano, 2007.
8. Circolare 16 novembre 1990 a firma del Procuratore della Repubblica di Torino, Vladimiro Zagrebelsky. Per una ricostruzione storica del dibattito sui criteri di priorità nel nostro Paese, si rimanda a L. Verzelloni, Il lungo dibattito sui criteri di priorità negli uffici giudicanti e requirenti, in Archivio penale, n. 3/2014, pp. 815-822.
9. Cfr. S. Hester e P. Eglin, Sociologia del crimine. Le prospettive costruzioniste, Piemme, Segrate (Mi), 2022.
10. V. Ferrari, Diritto e società, op. cit., p. 153.
11. Per un approfondimento del tema, si rimanda ai contributi di Giovanni Torrente, New Public Management e organizzazione giudiziaria: la prospettiva dei magistrati, e di Michele Miravalle, La tecnologia per lavorare meno o per lavorare meglio? Riflessioni sul futuro della giustizia ad alta intensità tecnologica, entrambi in questo fascicolo.
12. Come ha scritto V. Maccora, «la riforma ha senza dubbio una non condivisibile propensione volta a valorizzare un approccio aziendalistico e produttivo del settore giustizia» – Ead., La dirigenza degli uffici giudiziari: luci e ombre della riforma, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022, p. 62 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1027/2-3_2022_qg_maccora.pdf).
13. Tale definizione apre ovviamente a una riflessione sulle analogie con il concetto di “medicina difensiva”, generalmente intesa come l’esecuzione od omissione, da parte del medico, di pratiche di carattere diagnostico o terapeutico, che anziché mirare al benessere del paziente sono dirette principalmente volte a evitare di incorrere in responsabilità di tipo giuridico. Si rimanda, su tutti, a F. Poggi, La medicina difensiva, Mucchi, Modena, 2018.
14. S. Cassese, La democrazia e i suoi limiti, Mondadori, Milano, 2017.
15. G. Campesi - L. Pannarale - I. Pupolizio, Sociologia del diritto, op. cit., p. 66.
16. A.M. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 293.