La scrittura e la giurisprudenza. Considerazioni sul ruolo della tesi di laurea nella formazione universitaria dei giuristi
La tesi di laurea ha un ruolo fondamentale per l’acquisizione della capacità di scrivere e ragionare di diritto. Nel testo si enunciano i molti pregi di tale occasione formativa, inspiegabilmente ignorati quando si tratta di valutare obiettivamente la didattica del corso di laurea in giurisprudenza. In chiusura, si lamenta tuttavia la tendenza al disimpegno della classe docente.
1. L’Università sotto accusa / 2. Le interviste dei giovani magistrati / 3. Le lezioni universitarie / 4. Il corso di studi in giurisprudenza e la scrittura / 5. La tesi di laurea in breve / 6. Correggere la tesi / 6.1. Grammatica e sintassi / 6.2. Lessico e stile / 6.3. Organizzazione del discorso / 6.4. Argomentazione / 7. Utilità della tesi di laurea / 8. La tesi di laurea tra teoria e prassi
1. L’Università sotto accusa
Il rapporto tra i corsi di laurea in giurisprudenza e il mondo delle professioni legali è decisamente in crisi.
L’avvocatura lamenta spesso che l’“Accademia”, vocabolo spesso usato con deferenza del tutto ironica, assorbita da disquisizioni dottrinali astratte, non forma adeguatamente alla pratica forense. Anche i neolaureati spesso lamentano questa inadeguatezza: quando entrano in uno studio legale vorrebbero già saper fare qualcosa, ad esempio venire a capo di un fascicolo e impostare la redazione di un atto.
Di recente, in relazione allo svolgimento di un concorso in magistratura che ha avuto esiti particolarmente deludenti, uno dei commissari ha denunciato pubblicamente che le prove scritte di centinaia di candidati erano di un livello non accettabile, scritte in un italiano «primitivo», piene di refusi ed errori, prive di ogni «logica argomentativa»[1].
Non a caso, pochi mesi fa una rivista curata da un’associazione di magistrati ha ospitato l’intervento un’esponente dell’Aiga («Associazione italiana giovani avvocati»), che ha sostenuto la necessità di riformare ab imis la struttura del corso di laurea in giurisprudenza, perché occorre stare al passo coi tempi e orientare la formazione degli studenti agli effettivi sbocchi di mercato. A tale scopo occorrerebbe anzitutto aggiornare le competenze fornite; è infatti impensabile – si dice – che un dottore in giurisprudenza «non conosca materie sempre più diffuse quali il legal english, GDPR, blockchain e smart contracts». Per contrastare le «gravi carenze del percorso universitario, troppo ancorato a studi teorici» e favorire invece l’assimilazione di «una forma mentis tecnico-giuridica», occorrerebbe inoltre introdurre, a partire già dal secondo anno, tirocini curriculari obbligatori presso «studi legali, uffici giudiziari, studi notarili, enti pubblici, aziende, tribunali». Infine, per superare le attuali lacune dei neolaureati nelle prove scritte dei concorsi, sarebbe fondamentale, sin dal primo anno, imporre la frequenza obbligatoria di corsi di scrittura giuridica[2].
2. Le interviste dei giovani magistrati
In questo contesto, e soprattutto ora che l’accesso al concorso è consentito ai semplici laureati, risultano particolarmente interessanti le interviste dei giovani magistrati riportate in questo numero sul tema dell’idoneità formativa dei corsi di laurea in giurisprudenza.
Gli intervistati mettono giustamente in evidenza che bisogna distinguere tra le conoscenze e le abilità necessarie per superare il concorso in magistratura e le competenze necessarie per fare bene il magistrato.
Le maggiori criticità che sono emerse riguardano tre aspetti: l’approfondimento teorico, la scrittura e la pratica[3].
Sotto il profilo della preparazione per il concorso in magistratura, è osservazione comune che il livello di approfondimento, in particolar modo giurisprudenziale, richiesto dalle tracce è molto superiore a quello dei corsi universitari; inoltre, molti degli intervistati, sottolineando un aspetto assai presente nel dibattito pubblico sul tema, riferiscono che durante i corsi universitari le occasioni di scrittura sono pochissime; alcuni affermano recisamente che non si scrive mai[4].
Sotto il profilo della preparazione al lavoro, molti giovani magistrati riferiscono di un’esperienza di “spaesamento” quando, vinto il concorso, hanno incominciato a svolgere le funzioni, sia per l’inesperienza relativa ai luoghi e all’organizzazione burocratica, sia per la necessità di affinare tecniche per la soluzione di problemi giuridici, sia per l’impatto emotivo con le vicende e le persone coinvolte nel processo; mancherebbe insomma all’Università un’adeguata formazione pratica al mestiere di magistrato[5].
3. Le lezioni universitarie
L’insegnamento delle varie discipline del corso di laurea ha, di regola, carattere istituzionale. Si punta cioè a fornire le basi teoriche della disciplina e a illustrare la sua articolazione negli istituti essenziali, approfondendo i settori specifici più rilevanti, in modo che lo studente possa, al termine del corso, dominare complessivamente, sia pure un po’ superficialmente, la materia.
Effettivamente, quanto al metodo di questo insegnamento, di solito si istituisce un rapporto molto stretto fra studio dei codici, elaborazione della dottrina e giurisprudenza, «assumendo quale principale obiettivo la trasmissione dei contenuti e degli strumenti propri della dogmatica giuridica»[6].
Non direi tuttavia, come lamenta uno solo degli intervistati, che questo metodo risulti inesorabilmente funzionale a trasmettere agli studenti l’ideologia del giudice bouche de la loi[7]. La “dogmatica” – com’è noto – va ben oltre la centralità della legge, proprio nella misura in cui ricostruisce il quadro disciplinare in una determinata materia tenendo conto dell’elaborazione della dottrina e della giurisprudenza, cioè di opinioni e orientamenti, spesso contrapposti, che non sono quasi mai politicamente neutri. Senza contare che il confronto costante con le fonti sovraordinate (Costituzione e Cedu in primis), specialmente grazie all’obbligo di interpretazione conforme, impone costantemente un confronto con i “valori” di riferimento. Insomma, anche l’insegnamento tradizionale, veicolato dalla classica lezione frontale, può ben restituire l’idea che il diritto costituisce, più che la premessa, l’esito di operazioni intellettuali complesse, storicamente determinate e controverse[8]. Certo, gli stili di insegnamento sono individuali, e forse alcune materie si prestano meglio a uno sguardo critico, ma è comunque difficile che, nelle lezioni, di tutto questo non rimanga traccia.
È difficile contestare, invece, che l’approfondimento che si riesce a raggiungere con le lezioni, e che si può quindi ragionevolmente pretendere in sede di esame, sia di gran lunga inferiore a quello richiesto dalle (attuali) prove scritte del concorso in magistratura.
D’altra parte, un’accelerazione in questo senso sarebbe, da un lato, impraticabile e, dall’altro, inopportuna.
Infatti, in primo luogo, quel livello di approfondimento non è compatibile con le ore di insegnamento che si hanno a disposizione. È comune tra colleghi la considerazione che, già con riferimento esclusivo alla manualistica, difficilmente si riesce a esaurire tutto il programma; per riuscire a dare un’immagine complessiva della materia, indispensabile per orientarsi, bisogna sempre tagliare, riassumere, rinviare al testo.
In secondo luogo, quel livello di approfondimento, perseguito soprattutto dalle scuole private di preparazione al concorso, che puntano a “coprire” tutta la giurisprudenza degli ultimi anni, finisce per favorire un apprendimento puramente mnemonico, frammentario e casistico, così assecondando una deriva degli ultimi anni, secondo cui le professioni legali si risolvono nella consultazione delle banche dati, nella speranza di trovare una massima pertinente. L’insegnamento tradizionale fornisce almeno gli strumenti per contestualizzare il punto di emersione di una controversia giuridica e le categorie dogmatiche necessarie per inquadrarla, insomma le basi per incominciare ad abbozzare un ragionamento giuridico.
4. Il corso di studi in giurisprudenza e la scrittura
Spesso, nei discorsi sulla necessità di scrivere di più durante il corso di laurea, si nota una certa superficialità, come se si trattasse semplicemente di mettere la penna su un foglio, ricordare le regole della grammatica e della sintassi e allenarsi alla costruzione di un periodo. La faccenda è un po’ più complessa, perché l’accesso all’università presuppone il preventivo possesso di quelle abilità; si tratta invece di puntare a qualcosa di ben più difficile, e cioè a scrivere di diritto.
La scrittura giuridica si fonda su due pilastri: organizzazione del discorso e argomentazione. Occorre anzitutto dare al testo una struttura logica, nella quale la posizione del tema, l’enucleazione delle questioni rilevanti, la trattazione di ciascuna di esse, l’analisi delle implicazioni di sistema, etc. si susseguano ordinatamente e in modo chiaro (una delle ragioni per cui, di regola, anche i migliori testi giuridici sono privi di pregi letterari); occorre poi confrontarsi criticamente, cioè con buone capacità di coglierne il valore e i limiti, con gli orientamenti di dottrina e giurisprudenza e provare a proporre una propria ricostruzione. Insomma, per scrivere bene di diritto, non basta un buon italiano: bisogna sapere bene ciò di cui si parla.
Ecco perché sperimentare più spesso esercizi di scrittura durante il corso di lezioni non è così facile come sembra. Molte discipline costituiscono un sistema compatto, internamente innervato, per cui una conoscenza adeguata – e così la possibilità di cimentarsi con una prova scritta – incomincia ad arrivare in effetti verso la fine del corso. Senza dubbio, però, nella misura in cui si riescano a isolare sezioni o parti sufficientemente autonome, un maggiore investimento nella scrittura si potrebbe tentare.
Tuttavia, il fatto che durante il corso di lezioni non sia istituzionalmente prevista una parte scritta non costituisce una svista pedagogica. Il punto è che l’attuale ordinamento degli studi di giurisprudenza, secondo un’idea non disprezzabile di formazione per gradi, rinvia l’esperimento della scrittura giuridica alla conclusione del corso di laurea, quando bisogna dedicarsi alla tesi.
La tesi di laurea, però, costituisce una sorta di buco nero: un evento macroscopico da cui non residua neanche un frammento di luce. Anche se segna l’esperienza di tutti i laureati in giurisprudenza, resta sempre fuori dal dibattito sulla didattica universitaria. Persino nelle interviste dei giovani magistrati, per i quali si tratta in fondo di un’esperienza piuttosto recente, della tesi di laurea quasi non si fa parola. Un sintomo del fatto che, a volte, la rappresentazione comune rende evanescente la diretta percezione individuale.
Forse, perciò, serve ricordare, cioè raccontare e rivivere emotivamente, nel modo più semplice possibile, cos’è una tesi di laurea.
5. La tesi di laurea in breve
Per lo studente di giurisprudenza la tesi di laurea costituisce un passaggio formativo cruciale. Rispetto alla preparazione degli esami (fondata essenzialmente su comprensione, memorizzazione e ripetizione del manuale) impone una sorta di rivoluzione nel metodo di apprendimento.
In particolare, il laureando: a) deve entrare per la prima volta in contatto con la letteratura giuridica specializzata; b) deve ricostruire in forma ordinata i termini di un dibattito che, in genere (soprattutto per chi si rende conto per la prima volta che il diritto è in larghissima parte il risultato di un coacervo di orientamenti che si stratificano a partire da specifici dubbi interpretativi), appare assai confuso; c) confrontandosi nel corso delle ricerche con tali orientamenti, deve tentare di maturare un proprio punto di vista che guidi la trattazione del tema; d) deve infine – last but not least – scrivere, di proprio pugno, la tesi; nella maggior parte dei casi centoventi/centocinquanta pagine, cui ci si dedica per un tempo complessivo medio di circa sei mesi.
Gli obiettivi formativi della tesi di laurea sono essenzialmente due: il metodo della ricerca scientifica e la pratica della scrittura giuridica. Come spesso mi capita di dire agli aspiranti tesisti quando, durante il primo colloquio, vorrebbero capire che tipo di compito li attende: per sostenere un esame il libro si studia; arrivati alla tesi, il libro si scrive.
Nel lavoro finalizzato alla scrittura della tesi di laurea cambia radicalmente anche il rapporto tra professore e studente. Negli anni di corso, agli occhi dello studente il professore è colui che, a lezione, insegna, ma soprattutto colui che, in sede d’esame, giudica. Quando si arriva alla tesi, invece, il professore si trasforma in “relatore”, colui che accompagna il laureando nel suo ultimo tratto di strada (il giudice invece sarà l’apposita commissione nominata per la seduta di laurea). Il rapporto tra relatore e tesista si modella perciò su quello tra maestro e apprendista artigiano. Si lavora fianco a fianco, perché il metodo della ricerca e la pratica della scrittura non si studiano sui libri: vanno appresi strada facendo – ecco un buon esempio di learning by doing – attraverso un confronto il più frequente possibile.
Non è facile essere un buon relatore. Richiede tempo, empatia, pazienza, buone capacità di autoriflessione (perché, in ultima analisi, si devono condividere le strategie del proprio apprendimento). A seconda della fase in cui si trova il laureando, occorre insegnare come fare una buona ricerca bibliografica, discutere l’impostazione del lavoro (cercando di orientare senza prevaricare) e soprattutto, quando si incomincia a scrivere, correggere passo dopo passo la stesura.
6. Correggere la tesi
6.1. Grammatica e sintassi
Senza dubbio, è indispensabile che un giovane laureato che aspiri a entrare nel mondo delle professioni legali sappia scrivere in buon italiano. Talvolta non è così, e allora, in genere, si rinvia all’indietro la colpa: dell’università, secondo i magistrati; delle scuole superiori, secondo i professori universitari; delle scuole primarie di secondo grado, secondo i docenti delle scuole superiori, e così via. Si tratta di uno scaricabarile ozioso: ciascuno deve fare la sua parte.
Per quanto riguarda la scrittura della tesi di laurea, se cade l’occhio su qualche errore di grammatica o sintassi – anche se non sarebbe il compito formativo del relatore –, ci vuol poco a segnalarlo. Nella maggior parte dei casi, in genere bisogna soltanto recuperare un po’ di dimestichezza con le poche regole fondamentali della punteggiatura (ed esempio, evitare la virgola tra soggetto e verbo).
Ci sono, però, alcune particolarità grammaticali e sintattiche della scrittura giuridica con le quali anche il miglior laureando potrebbe non essersi mai cimentato fino a quel momento, su cui potrebbe essere necessario soffermarsi. Ne cito tre: l’uso del presente deontico (in luogo del futuro, che viene più spontaneo); l’uso del condizionale, per dar conto, prendendo le distanze, di un’opinione o di un orientamento; l’uso consapevole dell’aspetto dei tempi verbali.
Soprattutto quest’ultimo può creare problemi. Ad esempio, quando si ricostruisce l’evoluzione normativa di una certa materia, si deve spesso riferire dell’approvazione di leggi assai risalenti e tuttora in vigore, così come di leggi, magari più recenti, tuttavia già abrogate o modificate; l’attualità degli effetti nel presente (i.e. la vigenza) diventa perciò dirimente ai fini dell’uso del passato prossimo o del passato remoto. A ciò si aggiungono le difficoltà nel governo della consecutio temporum, quando, rispetto alle varie fasi di questa stratificazione normativa, si deve esprimere anteriorità o posteriorità dell’azione (ad esempio, per dar conto della proposta dottrinale di una certa riforma riferita a una legge non più vigente). Non di rado, infatti, per cavarsi d’impaccio, il laureando manda tutto all’imperfetto, come in un rapporto di polizia!
6.2. Lessico e stile
Il diritto è materia tecnica e possiede – com’è noto – un lessico specialistico, che il laureando è tenuto a conoscere e ad usare. Nella maggior parte dei casi, però, il compito più arduo del relatore è quello, in qualche modo opposto, di sfrondare la tesi dall’abuso di falsi tecnicismi[9], evitando il consolidamento di quello stile legale che nuoce molto alla considerazione delle capacità di scrittura dei giuristi da parte dei non addetti ai lavori.
Gli studiosi di lingua hanno spesso segnalato la perpetuazione tralatizia nei testi giuridici di forme tipiche, non giustificate né dal lessico specialistico né dall’uso comune[10]. Il relatore della tesi ha il privilegio di poter cogliere questo fenomeno nel momento della sua riproduzione. Infatti, se il laureando non ha un’auspicabile precedente dimestichezza con i libri (preferibilmente non giuridici), la tesi è la prima occasione nella quale si dedica per qualche mese, nella fase della ricerca, alla lettura intensiva di pubblicazioni scientifiche, dalle quali si apprendono non solo i contenuti, ma anche le forme.
Poiché il modello è quello, e il laureando vorrebbe mostrarsi all’altezza, le tesi abbondano così di stereotipi lessicali (ad esempio, “adottare” un provvedimento, o delitti “contemplati”) o sintattici (ad esempio, l’anteposizione del participio in funzione di aggettivo: “l’avversata opinione”; “la ritenuta compatibilità”, etc.), congiunzioni o avverbi desueti (“invero”; “di talché”), espressioni tipiche del gergo burocratico (“suddetto”, “predetto”, “anzidetto”, etc.) o latinismi (ad es. i ripetuti “de quo” o “de qua” – con agitur sottointeso, non sempre consapevolmente – anche quando ci si si sta riferendo, dall’inizio del paragrafo e fino alla riga precedente, a un unico concetto)[11].
Alcuni autori dallo stile particolarmente incisivo generano poi un diffuso effetto mimetico, con la circolazione in letteratura di espressioni particolarmente icastiche o creative, spesso recepite acriticamente dal laureando, che non ne conosce l’origine e quindi crede che si tratti di tecnicismi specifici[12].
L’insicurezza iniziale dei laureandi e l’influenza degli autori che si eleggono a proprio riferimento contano molto anche riguardo allo stile. Quello più tradizionale – si sa – tende al barocco: periodi lunghi, fitti di subordinate, impreziositi da un lessico aulico e un poco desueto. Per fortuna questo stile ormai tende a scomparire, ma cattura ancora molto l’immaginazione di alcuni di coloro che sentono una vocazione per la professione di avvocato (forse - ipotizzo - perché figli o nipoti d’arte). Agli antipodi, alcuni studenti, catturati dallo stile “viennese” di alcuni autori che si ispirano alla prima filosofia analitica, danno al testo la forma di una lunga sequenza di aforismi.
Insomma, il relatore spesso consiglia, fatto salvo l’uso del lessico autenticamente tecnico, di attenersi per il resto alla lingua materna, e di puntare semmai alla progressiva maturazione di uno stile personale.
6.3. Organizzazione del discorso
La scrittura giuridica è contrassegnata dalla sua struttura logica, funzionale al suo andamento tendenzialmente dimostrativo: in genere si scrive per discutere problemi interpretativi e proporre soluzioni coerenti con il quadro normativo di riferimento. Per essere comprensibile, persuasivo (e magari non troppo pesante), il testo giuridico dev’essere organizzato molto rigorosamente. C’è quindi una differenza molto marcata con i testi con funzione narrativa, o meramente informativa, su argomenti letterari, storici o di attualità, come quelli che si sperimentano ai tempi del liceo.
Per affinare questa capacità, la tesi di laurea, se condotta e seguita con giudizio, è utile soprattutto perché obbliga alla costruzione preliminare, rispetto alla stesura di ogni paragrafo, di una particolareggiata “scaletta”. “Prima si decide cosa si deve dire e poi si incomincia a scrivere!”, si ripete. Un ammonimento banale che, se accolto, risulta importante soprattutto in seguito, per cimentarsi con le prove scritte dei concorsi, in cui si ha a disposizione solo qualche ora di tempo.
Un’abilità correlata, “trasversale” tra grammatica e logica, è quella, solo apparentemente semplice, relativa alla scelta del momento in cui andare a capo. Se ne parlava anche a proposito dello sfortunato concorso svolto con le regole anticontagio[13]. I capoversi dovrebbero, in linea di massima, restituire al lettore la sequenza degli argomenti di cui si compone la scaletta, in modo che si percepisca a colpo d’occhio la struttura del testo. Se, in sede di concorso, si capita nelle mani di un commissario affaticato o disattento, questa “trasparenza” senza dubbio può essere un vantaggio.
6.4. Argomentazione
Scrivere di diritto in larga parte significa argomentare, riferendo e discutendo criticamente opinioni e orientamenti altrui e prospettando la propria linea interpretativa.
Se l’argomentazione è contenuta in un testo ben strutturato, abbiamo quel “ragionamento giuridico” che contraddistingue la scrittura dei giuristi.
L’apprendimento, da parte del laureando, delle strutture discorsive funzionali all’argomentazione e del buon uso degli argomenti tipici del ragionamento giuridico è veicolato dalla lettura di monografie, saggi, note a sentenza, decisioni giudiziarie; non ci sono manualetti o istruzioni specifiche: si legge e si vede come si fa. Il laureando perciò, quando incomincia a scrivere i primi paragrafi, prova a costruire il proprio ragionamento giuridico sulla base dell’esempio fornito dalle opere consultate.
La correzione, perciò, difficilmente rimane su un piano astratto, metodologico. Bisogna verificare che il laureando abbia esattamente individuato i problemi di cui si discute, dia conto in modo congruo degli argomenti impiegati in letteratura a sostegno di questo o quell’orientamento, distingua, se possibile, tra buoni e cattivi argomenti, sia in grado di giustificare le proprie preferenze interpretative.
L’obiettivo formativo, evidentemente, è quello di favorire l’acquisizione di una capacità critica. È in questa occasione che gli studenti particolarmente bravi gettano le basi per la costruzione della loro futura personalità di giuristi.
Naturalmente questo tipo di lavoro, per quanto accurato e appassionato, non trasforma tutti gli studenti di giurisprudenza in studiosi dal nitore concettuale e dalla purezza stilistica di un Piero Calamandrei. Come sempre, quando si tratta di agenzie formative, l’obiettivo realistico è quello di portare lo studente a un livello superiore a quello di partenza. Se si desidera invece che, non solo i vincitori del concorso, ma già i candidati siano tutti bravissimi, c’è un sistema molto semplice e affidabile, sempre trascurato: selezionare l’accesso in base al voto di laurea.
7. Utilità della tesi di laurea
Torniamo all’inizio del discorso: la laurea in giurisprudenza deve fornire le conoscenze e le abilità necessarie per superare il concorso in magistratura e le competenze necessarie per fare bene il magistrato. Valutiamo la tesi di laurea sotto questi due profili.
Senza dubbio il lavoro su grammatica e sintassi, lessico e stile, organizzazione del discorso e argomentazione, condotto per alcuni mesi sotto lo sguardo del relatore, diretto a produrre un testo originale di più di cento pagine, costituisce un buon allenamento per la redazione di un tema. La tesi di laurea non è invece strutturata come un parere, e quindi non rispecchia le tipologie di prove scritte che vengono richieste per l’accesso alla professione di avvocato; lo specifico apprendimento della capacità di impostare una difesa a partire dalla narrazione di un fatto è rinviato al momento del tirocinio professionale.
Per quanto riguarda il rapporto tra tesi di laurea e pratica del diritto è necessaria qualche precisazione ulteriore. A volte – come si diceva – l’esigenza di un maggior contatto con la pratica fa riferimento alla familiarità con i luoghi di lavoro, a volte alla conoscenza degli aspetti burocratico-organizzativi (registri, fascicoli, cancellerie, etc.), a volte alla gestione della dimensione emotiva sollecitata dall’interazione con gli altri soggetti del processo. Anche questi aspetti, certamente importanti, sono in genere istituzionalmente affidati ai tirocini professionali.
Se invece ci si riferisce all’apprendimento delle tecniche per la risoluzione di problemi giuridici, la tesi di laurea costituisce senz’altro il primo momento in cui l’aspirante giurista viene educato alla pratica del diritto. Come già ricordato, il laureando non solo incomincia a prendere contatti con i ferri del mestiere (massimario della Cassazione, banche dati giuridiche, enciclopedie, commentari, trattati e riviste), ma, attraverso lo studio e la trattazione approfondita delle principali questioni giuridiche dibattute nell’ambito del tema prescelto, acquisisce quelle abilità intellettuali di cui dovrà avvalersi per affrontare, nell’ambito della professione, i dubbi interpretativi: qualificazione giuridica dei fatti, esegesi normativa, inquadramento dogmatico, analisi dei vincoli costituzionali e del sistema integrato delle fonti sovranazionali, conoscenza degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, etc. Insomma è con la tesi di laurea che si incomincia ad apprendere il mestiere del giurista.
8. La tesi di laurea tra teoria e prassi
Fare il relatore, se si ama il proprio lavoro, può dare molte soddisfazioni. Si conversa di diritto, spesso si imparano cose nuove e si entra davvero in contatto con la preparazione, l’intelligenza critica, i margini di miglioramento di ciascuno studente. Non a caso si può tradurre in una sorta di talent scouting: in relazione alle capacità e alle attitudini mostrate, a qualcuno si consiglia di tentare la strada della ricerca, ad altri si indica il settore professionale che appare più congeniale.
Fare il relatore, d’altro canto, è molto impegnativo. Correggere con accuratezza un paragrafo o un capitolo di venti o trenta pagine rischia di portare via mezza giornata; se le tesi assegnate sono molte, e – come a volte capita – sciaguratamente tutti i tesisti fino a quel momento latitanti decidono di mettersi a lavorare in contemporanea, tra ricerca propria, lezioni, ricevimenti, consigli, terza missione, etc. non si sa come venirne a capo.
Inoltre, il relatore si diverte soprattutto quando si trova davanti tesisti molto bravi. Quando i tesisti zoppicano (ad esempio, l’italiano è modesto, l’organizzazione del discorso tende a essere caotica e l’argomentazione è ricopiata senza consapevolezza), l’impegno è doppio e la soddisfazione didattica di “portare” quello studente a un livello migliore di quello di partenza a volte è inferiore alla stanchezza.
D’altra parte, anche i laureandi hanno un rapporto ambivalente con la tesi e il relatore. Se in genere sono contenti di essere seguiti con scrupolo, sanno però che tale scrupolo è quello che può tenerli lontani dal giorno della laurea; un relatore distratto o disattento, insomma, ha anche i suoi vantaggi.
Si rischia perciò l’innesco di una deriva un poco omertosa, per cui il disimpegno dell’uno giova al disimpegno dell’altro: una lettura superficiale lascia passare anche testi scritti frettolosamente, così nessuno dei due ha un particolare interesse a richiamare l’altro a lavorare meglio.
Non a caso, in genere, in ogni dipartimento ci sono diverse categorie di relatori: quelli che seguono scrupolosamente ogni tesista, paragrafo per paragrafo, armati di penna rossa; quelli che si contentano di farsi consegnare il lavoro già completo alla fine, limitandosi a qualche suggerimento sull’indice o sulla bibliografia; quelli che forse guardano le tesi per la prima volta quando vengono loro consegnate dalla segreteria didattica appena prima della seduta di laurea; quelli che, a seconda del carico di lavoro del momento, si regolano talvolta in un modo e talvolta nell’altro.
Una spia della volontà di non consentire uno sguardo troppo approfondito sull’effettività e sulla qualità del lavoro svolto dal laureando (e dal suo relatore), pur con lodevoli eccezioni, sta nel modo in cui sono organizzate le sedute di laurea. La discussione della tesi dovrebbe costituire un importante momento di verifica, perché in commissione, ascoltando come il laureando espone l’argomento o come resiste a qualche osservazione, ci si rende facilmente conto dello spessore del lavoro. Ci vorrebbe, però, un tempo adeguato. Invece si concentrano insieme sempre troppi laureandi, per ciascuno dei quali si hanno a disposizione pochi minuti; quindi, spesso, tutto si limita a presentazioni brevissime, un discorsetto preconfezionato e nessuna domanda. Per gli studenti che, all’esito di sei mesi o più di lavoro, arrivano portando sottobraccio un libro di diritto, faticosamente scritto da loro, e quindi a quel punto gli piacerebbe parlarne, la discussione della tesi è un’esperienza piuttosto frustrante.
Non è facile immaginare i rimedi. Forse si potrebbero estendere i questionari di gradimento degli studenti – i voti ai professori – non solo alle lezioni, ma anche alla tesi di laurea. Risultati modesti nei questionari non hanno grandi effetti pratici, ma sono noti alla governance di ateneo e di dipartimento e i professori universitari, sempre attenti al loro prestigio, sono molto sensibili alla shame culture.
1. P. Frosina, “Linguaggio primitivo e logica assente”: 95% di bocciati alla prova scritta in magistratura. Il commissario: “Centinaia i temi imbarazzanti”, Il Fatto quotidiano, 20 maggio 2022 (www.ilfattoquotidiano.it/2022/05/22/linguaggio-primitivo-e-zero-logica-record-di-posti-scoperti-al-concorso-in-magistratura-il-commissario-centinaia-i-temi-imbarazzanti/6600161/); per riflessioni diverse, vds. P. Gattari e A. Simonetti, Concorso in magistratura in tempo di Covid: brevi riflessioni sulle ragioni del fallimento, in Questione giustizia online, 12 giugno 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/concorso-in-magistratura-in-tempo-di-covid?fbclid=IwAR3FdVPe2MkDIVusGEIOTuvcWP2ELk9W9xu9vvn7iWJoRgEYM3-XOSSk98I).
2. G. Pesce, Il percorso di laurea in giurisprudenza: spunti di riforma, in Giustizia insieme, 25 luglio 2023 (www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/2834-il-percorso-di-laurea-in-giurisprudenza-spunti-di-riforma-di-giulia-pesce?hitcount=0).
3. Vds. il rapporto di C. Agnella, Una ricerca sulla cultura giuridica dei giovani magistrati, in questo fascicolo, par. 4.2.1.
4. C. Blengino, Dall’università alla magistratura: considerazioni sul rapporto tra studio e lavoro, in questo fascicolo, focus group n. 1, interviste nn. 10, 11, 14, 24, 40 e 41.
5. Nei commenti degli studiosi dell’Università di Torino che hanno coordinato e condotto la ricerca, si afferma che, per superare le criticità messe in luce dai giovani magistrati, in particolar modo lo scollamento tra teoria e pratica, si dovrebbe generalizzare l’esperienza formativa delle cliniche legali (vds. C. Blengino, op. ult. cit.); in tema, vds. gli interventi contenuti in questa Rivista trimestrale, n. 3/2019, pp. 75 ss. (www.questionegiustizia.it/data/rivista/pdf/29/qg_2019-3.pdf). È bene chiarire che si tratta di una prospettiva ben diversa da quella proposta dai giovani avvocati, richiamata supra nel par. 1. D’altra parte, come mette in evidenza E. Santoro, Cliniche legali e concezione del diritto, ivi, pp. 122 ss. (www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/cliniche-legali-e-concezione-del-diritto_694.php), il richiamo alla pratica è ideologicamente ambivalente: talvolta mira a un approccio più professionalizzante e tecnico; talaltra ambisce a svincolare l’insegnamento universitario dal formalismo giuridico, consentendo agli studenti di rivolgere l’attenzione ai problemi sociali regolati dal diritto e alla dimensione politica di tale regolazione (così, ad esempio, L. Scomparin, Lo sviluppo delle cliniche legali nelle università italiane: un processo bottom-up che parte dalla reazione verso il formalismo formativo e arriva a ridefinire l’identità del giurista contemporaneo, ivi, pp. 142 ss. – www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/lo-sviluppo-delle-cliniche-legali-nelle-universita_696.php). Sulle origini dell’idea di clinica legale, vds. M. Carrer, Rileggendo Carnelutti su La clinica de diritto. Problemi e questioni sui fondamenti della clinica legale, in A. Maestroni - P. Brambilla - M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali. Cliniche legali, vol. II, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 21 ss.
6. Così C. Blengino, Dall’università, op. cit. Sulla necessità di innovare le strategie di insegnamento in correlazione con il criterio dei «risultati di apprendimento attesi», messo a fuoco a partire dai cd. “Descrittori di Dublino”, vds. F. Ruggieri, Universitas e didattica nei corsi di giurisprudenza. Riflessioni intorno ad alcuni dati sulle modalità di insegnamento del diritto processuale penale, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 4/2014, pp. 1761 ss.
7. Vds. C. Blengino, Dall’università, op. cit., intervista n. 37; nel commento, la critica al formalismo “formativo” ha invece una parte centrale. In verità, per quel che mi consta, la teoria secondo cui la legge si possa applicare meccanicamente mediante sillogismi, o quella secondo cui della legge si dia solo una interpretazione “vera”, non circola almeno da decenni in nessun dipartimento di giurisprudenza, neanche tra giuristi “positivi”. Inoltre bisogna sempre ricordare, sul piano storico, che quella teoria nasceva dalla necessità di contrastare il fenomeno opposto che era sotto gli occhi di tutti, cioè l’oscurità della legge e l’arbitrio degli interpreti, ed ebbe una funzione politica enorme (coerente con la battaglia per la codificazione): contro il monopolio aristocratico, tipico dell’Ancien Régime, rivendicare alla volontà generale la produzione del diritto (sul valore politico di quell’ingenuità epistemologica, cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 19; per una ricostruzione storica, vds. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, Il Mulino, Bologna, 1976, passim).
8. Cfr. E. Rigo e M.R. Marella, Il diritto nel prisma delle cliniche legali: un antidoto alla crisi degli studi giuridici?, in Questione giustizia trimestrale, n. 3/2019, p. 117 (www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/il-diritto-nel-prisma-delle-cliniche-legali-un-antidoto-alla-crisi-degli-studi-giuridici-_693.php): «Di fronte all’impossibilità per le categorie di sussumere la realtà sociale e di stabilire un sistema coerente e completo, la “scienza giuridica” ha progressivamente accolto un modello discorsivo nel quale alle categorie corrispondono convenzioni stipulative, tendenzialmente polisemiche e non più tali da autorizzare operazioni di semplice sussunzione. Di qui, le incertezze/ambiguità che queste trasformazioni comportano, soprattutto in ragione dell’inedito ampliarsi dei contesti – vuoi normativi, vuoi fattuali – di riferimento. Davanti al complicarsi dei dati della realtà giuridica, la formazione del giurista non può dunque limitarsi a “correggere il tiro” dando conto del diritto vivente o della casistica come fattori altrettanto oggettivi e neutri. È, invece, necessario esplicitare il ruolo dell’interprete – della giurisprudenza così come della dottrina – da un angolo visuale soggettivo, cioè come punto di vista dell’osservatore interno al sistema. Diventa dunque importante mettere in luce, dichiarare il punto di vista dell’osservatore, interrogare i criteri classificatori che utilizza facendo emergere il suo contributo intellettuale; dare conto della storicità dell’osservatore, ma non solo: anche della sua stessa formazione, dei suoi gusti e delle sue aspirazioni».
9. Si tratta di termini ed espressioni stereotipiche, che spesso producono una «zavorra di giri di parole e frasi formulari»: «una sorta di patina stilistica che copre inegualmente la normazione, la dottrina, gli atti giudiziari e amministrativi: ben lontana dall’impreziosire, offusca il modo di esprimersi»; così B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Einaudi, Torino, 2001, p. 17.
10. P. Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, in Quaderni fiorentini – Per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 69/2008 (Giuffrè), pp. 423-424.
11. B. Mortara Garavelli, Le parole, op. cit., pp. 153-187.
12. Un esempio, nel mio settore, potrebbe essere quello di «inazione», usato da Franco Cordero in luogo di “archiviazione” – F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2006, p. 422.
13. «Nei temi c’erano difficoltà nell’andare a capo, qualcosa che si impara in terza elementare»: così Luca Poniz in P. Frosina, “Linguaggio primitivo e logica assente”, cit.