I tempi della giustizia. Avvocatura, magistratura e società. Riflessioni su «Una ricerca sulla cultura giuridica dei giovani magistrati»
Il contributo, partendo dal rapporto di ricerca sulla cultura giuridica dei giovani magistrati – sul quale è incentrato il presente fascicolo – esplora due delle principali cause dei lunghi tempi della giustizia in Italia: un eccessivo carico di lavoro dei magistrati, ulteriormente gravato da un arretrato “patologico”, e un elevato turnover. I rimedi non vanno tanto cercati in una nuova riforma del processo, né tantomeno in un contenimento della domanda giudiziaria, quanto piuttosto in una soluzione che coinvolga tutti gli stakeholder del settore giustizia, puntando su potenziamento dell’organico, tecnologia e innovazione.
1. I tempi (desiderati) della giustizia / 2. I due scenari (preoccupanti) emersi dalla ricerca / 3. Quali cause / 3.1. Il carico di lavoro e l’arretrato / 3.2. Il turnover / 4. Quali rimedi
1. I tempi (desiderati) della giustizia
Il tempo, si sa, da Einstein in poi, è relativo. E il suo unico valore è dato da ciò che noi facciamo mentre sta passando. Nel mondo della giustizia non è diverso.
Da avvocata civilista posso testimoniare che per i miei assistiti e le mie assistite i tempi di durata di un processo contano quanto i costi dello stesso; spesso anche di più. La prima domanda è sempre: “mi dà un’idea dei costi e dei tempi?”, ma su questo torniamo dopo. Vediamo quali sono i tempi auspicati dalle diverse parti coinvolte.
Per coloro che cercano ristoro a un torto subito o vogliono vedere affermate le proprie ragioni, i tempi sono sempre troppo lunghi, certamente più lunghi dei loro desiderata, e i mesi trascorrono chiedendo continui aggiornamenti al difensore nella speranza che qualcosa si sia “mosso”: “Buongiorno, Avvocato, ci sono novità?” (il calendario del processo ci ha dato una grande mano nel contenere questo fenomeno, che resta comunque molto diffuso).
Al contrario, per coloro che sono consapevolmente inadempienti, più lunghi sono i tempi e meglio è. A Napoli si dice: “A pavà e a murì ce sta sempe tiempo”, ovvero “a pagare e a morire, non c’è fretta” (con buona pace dei creditori).
E per i magistrati e le magistrate, invece? Come scorre il tempo?
Un’idea ce la offre «Una ricerca sulla cultura giuridica dei giovani magistrati», il rapporto pubblicato nel presente fascicolo monografico. Si tratta di un interessante lavoro che getta luce, tra i tanti, anche su questo aspetto, in particolare nei sottoparagrafi 3.3.1. e 3.3.2., rispettivamente intitolati «Idea della professione e lavoro quotidiano» e «Le criticità nell’approccio al lavoro: i carichi di lavoro e il turnover».
Per i giovani magistrati e le giovani magistrate il tempo sembra essere sempre meno di quello di cui avrebbero bisogno, schiacciati come sono dall’organizzazione della grande mole di lavoro che si trovano a dover gestire. Vorrebbero poterne disporre di più per «studiare, approfondire, discutere, scrivere, riscrivere e cesellare» (par. 3.3.1., intervista n. 23), e fin qui nulla di male, anzi: è quel tipo di cura che ciascuno auspica per il proprio processo quando si trova a dover ricorrere alla giustizia.
Quel che più preoccupa è altro, e provo a dirlo con le parole degli intervistati e delle intervistate: «c’è anche tutta una preoccupazione per i numeri, per cui magari, tante volte, anziché indugiare a fare una conciliazione o a promuovere trattative, sai che c’è? Ti conviene scrivere la sentenza (...), scritta così, perché ovviamente non ti puoi permettere di scrivere dieci sentenze l’anno, che saranno pure dei capolavori, ma pesano tanto quanto dieci sentenze banalissime» (intervista n. 23, c.vo aggiunto).
O, ancora, si legge: «Il primo ostacolo che dobbiamo affrontare, diciamo, nell’esercizio delle funzioni è il carico di lavoro. Perché noi abbiamo veramente un carico tale che ci impedisce di fare le cose bene, per dirla molto… insomma, molto semplicemente (…) uno magari tenderebbe a perderci qualcosa in più su un fascicolo piuttosto di farlo bene; per farlo bene io sono completamente fuori gioco. Cioè (…) dopo tendi sempre ad accumulare arretrato, le cose che fai le fai anche bene e quant’altro, dopo hai sempre conferme e quant’altro, però accumuli sempre arretrato. E questa è purtroppo una realtà dei fatti che va contro quelli che tendono a voler fare le cose per il meglio, alla perfezione, a patto di perderci anche più tempo» (par. 3.3.2., focus group 2, c.vi aggiunti).
2. I due scenari (preoccupanti) emersi dalla ricerca
Tralasciando i casi, meno frequenti di quanto si vorrebbe, di decisioni rapide e ineccepibili e i casi, pure poco frequenti ma indicibilmente nefasti, di decisioni errate e tardive, dalle interviste citate si intravedono due scenari in grado di rappresentare la maggioranza dei casi. Il primo scenario interessa coloro che vogliono “fare le cose per bene”, e abbisognano di più tempo e quindi accumulano (ulteriore) arretrato; il secondo, invece, vede coinvolti coloro che vogliono rispettare le tempistiche imposte, e corrono il rischio di abbassare la qualità del servizio. In entrambi i casi, non mi sembrano buone notizie.
Parto dal secondo scenario, più immediato. Un servizio qualitativamente non adeguato, foss’anche tempestivo, non è chiaramente accettabile. Non è rispettoso di nessuna delle parti coinvolte e agevola solo chi è nel torto e si trova ad avere una pronuncia favorevole.
Per quanto concerne il primo scenario, anche qui va chiarito (qualora non fosse già evidente a tutti) che i tempi lunghi favoriscono la parte che ha torto. Di ciò dovrebbero essere, a maggior ragione, consapevoli i magistrati e le magistrate. Ma val la pena di fare qualche riflessione in più.
Mi sia consentito il paragone con l’ambito medico – al giudizio dei giudici è rimessa infatti la fase “patologica” di un rapporto – e di porre una domanda (retorica): a che cosa potrebbe giovare una diagnosi corretta quando per il paziente non c’è ormai più niente da fare? Spesso mi trovo a leggere sentenze perfette, coerenti, adeguatamente motivate e di grande respiro giuridico, che tuttavia non portano alcun ristoro alla parte lesa in quanto, nel frattempo, la controparte è deceduta o si è spogliata di tutti i beni oppure è estinta, cancellata, fallita, in liquidazione e così via.
Il giudice è esattamente come il medico: il servizio che deve fornire non può non tener conto delle tempistiche necessarie affinché la sua decisione sia utile a chi la chiede. Non a caso, la ragionevole durata del processo costituisce uno degli elementi fondamentali di un giusto processo (art. 111 Costituzione).
Mi spingo dunque oltre: una sentenza, foss’anche perfetta ma giunta oltre un tempo non più “ragionevole”, non solo non rispetta il principio costituzionale del giusto processo già richiamato, ma è percepita come ingiusta anche nel comune sentire.
3. Quali cause
Il bell’articolo di Claudio Castelli, presidente della Corte d’appello di Brescia, apparso su Questione giustizia[1], ci invita a non disperare, in quanto: «Nonostante tempi tuttora troppo lunghi e un arretrato imponente, se andiamo ad analizzare le pendenze di cause civili in Italia vediamo come siamo in costante miglioramento sia come numeri assoluti, sia come cause arretrate (intendendo per esse le cause ultra-triennali per il primo grado e ultra-biennali per l’appello)».
È giusto guardare ai risultati positivi raggiunti, ma è anche opportuno ammettere che essi non sono sufficienti e che dobbiamo tutti provare a fare uno sforzo in più, analizzando le cause di questi «tempi tuttora troppo lunghi» e lavorando su rimedi efficaci.
Partiamo dalle cause. La ricerca ne individua diverse, e sono ben note a tutti gli operatori e le operatrici del settore giustizia. Qui si analizzano le due principali, secondo l’opinione di chi scrive:
- un carico di lavoro imponente e un arretrato “patologico”;
- un alto numero di avvicendamenti, soprattutto nelle sedi considerate minori o disagiate.
3.1. Il carico di lavoro e l’arretrato
“Avvocato, che tempi prevede?”: è sempre la domanda più difficile a cui rispondere per chi fa il mio mestiere. La risposta chiama doverosamente in causa i tempi “fisiologici” previsti dalla “legge Pinto” per il processo civile: tre anni per il primo grado, due per il secondo, uno per la Cassazione. Già i primi tre anni sembrano lunghissimi ai più. E tuttavia, mi trovo a dover rappresentare ai miei e alle mie clienti che i tempi “patologici”, oltre Pinto, purtroppo, non sono un’eccezione ed è con questa realtà che tutti gli operatori del settore giustizia devono fare i conti.
A questo punto, segue immediatamente la seconda domanda: “Ma perché tutto questo tempo?”, e qui la prima ragione che mi sento di portare è quella dell’enorme carico di lavoro che grava su tutti i magistrati e tutte le magistrate, a cui si aggiunge l’arretrato ereditato da organizzare, risolvere e decidere (per parlare di carichi di lavoro e arretrati, preferisco i termini “risolvere” e “decidere” al termine “smaltire”, che le mei sinapsi agganciano al mondo dei rifiuti, quelli sì, da smaltire – ma solo quando non è più possibile riusarli, rigenerarli o riciclarli)[2].
Per farsi un’idea di che volumi stiamo parlando, consiglio di accedere al sito del Ministero della giustizia (giustizia.it), che ogni trimestre pubblica informazioni aggiornate a livello nazionale sull’andamento dei procedimenti pendenti civili e penali e dell’arretrato civile. Purtroppo, per quanto riguarda gli arretrati civili si tratta ancora di informazioni molto parziali, in quanto il dato sull’arretrato civile “patologico” esclude l’attività del giudice tutelare, dell’ATP, della verbalizzazione di dichiarazioni giurate, delle esecuzioni mobiliari e immobiliari e dei fallimenti. Insomma, un’enormità di dati esclusi, che mi fa essere un po’ meno ottimista del giudice Castelli sui risultati raggiunti.
3.2. Il turnover
Siamo arrivati al momento in cui il giudizio è stato incardinato e il giudice assegnato (o la giudice assegnata); non appena comunico il nome al o alla cliente, arriva la doppia domanda: “Lo/La conosce? Com’è?”. La risposta che attendono e che, almeno per un po’, li tranquillizza è: “È brava/o, scrupolosa/o, si legge tutto e arriva preparata/o in udienza”. Il rasserenamento, però, è solo temporaneo perché – capito lo schema, si può già immaginare il timore che porta alla successiva domanda – alla telefonata successiva mi chiedono: “C’è il rischio che cambi, vada in un altro tribunale o in maternità?”; e qui mi tocca fare delle stime probabilistiche in base al genere, all’età e al foro del giudicante.
Ma perché tale timore? È presto detto, e prendo di nuovo in prestito le parole di Castelli: «una causa gestita sempre dallo stesso magistrato dura un terzo di meno di una causa condotta da due o più magistrati che si succedono. È indubbio che il trasferimento di un magistrato allunga i tempi della giustizia per la perdita di know-how, per la necessità di ristudiare le cause da parte di un altro giudice, che magari la imposta in maniera differente, oltre che per rinnovare il dibattimento nel settore penale. Il turnover eccessivo è stato combattuto, ma non risolto, dapprima con gli incentivi per le sedi disagiate e poi con l’aumento a quattro anni del periodo minimo di permanenza, anche nel primo incarico, prima di poter avanzare domanda di trasferimento. Dato, quello relativo al turnover e ai suoi effetti sulle performance, che rivela come ancora oggi l’attività del giudice sia (…) molto artigianale e in larga parte dipendente dal singolo nel settore civile, mentre nel settore penale è condizionata dalle norme processuali che impongono la rinnovazione del dibattimento in caso di sostituzione di un componente del collegio»[3].
Ebbene, io non credo che il turnover vada “combattuto”. Credo che sia opportuno e doveroso, da un lato, continuare a consentire ai magistrati e alle magistrate di potersi stabilire nel luogo che ritengono più idoneo, nel rispetto della loro vita e delle loro esigenze (sono anche loro esseri umani, a volte lo si dimentica); dall’altro, che sia altrettanto opportuno e doveroso adottare tutte le misure utili ad azzerare l’inefficienza che si produce con l’avvicendamento (un terzo in meno di durata del processo è veramente tanto), quantomeno migliorando il passaggio di consegne.
4. Quali rimedi
So bene che non esiste la ricetta perfetta per un problema tanto annoso e complesso come quello di cercare di ridurre i tempi della giustizia. Il “PNRR Giustizia” e la riforma che ne è seguita puntano all’efficientamento dei procedimenti civili entro giugno 2026, ponendosi come obiettivo la riduzione, rispetto al 2019, del 40% dei tempi di trattazione delle cause e del 90% degli arretrati.
Sembra utopistico, e lo è: non siamo neanche lontanamente vicini a questi obiettivi e non ci arriveremo di certo entro giugno del 2026; eppure, non per questo dobbiamo rinunciarvi.
Come fare dunque?
Anzitutto, convengo con quanti affermano che non abbiamo bisogno dell’ennesima riforma del processo per risolvere la problematica. Ciò creerebbe solo ulteriori disagi agli operatori e alle operatrici, e sarebbe anche scorretto da un punto di vista logico-pratico: a che servirebbe intervenire ancora sulle regole del processo quando le inefficienze emergono, sistematicamente, sui piani organizzativi e strutturali? Senza contare che i quadri normativi instabili allontanano investimenti e opportunità, con ulteriore detrimento per tutto il Paese. La magistratura non vuole una nuova riforma, l’avvocatura non ne parliamo, la società civile men che meno. Cui prodest? Eviterò commenti sulla classe politica, ché non è questa la sede per farne.
Non sono neanche pienamente convinta che si debba cercare di contenere la domanda giudiziaria a tutti i costi, perché spesso tale obiettivo si traduce (e si è tradotto) nel rendere più costoso o scomodo il ricorso alla giustizia, penalizzando così coloro che sono provvisti di minori mezzi finanziari. Con riferimento alle ADR, poi, le esperienze sono diverse e non sempre efficaci: in alcuni settori, mediazione e negoziazione assistita non sono altro che un passaggio in più da fare prima di incardinare il giudizio affinché sia verificata la condizione di procedibilità; in altri settori, invece, come il condominio, si sono rivelate più efficaci. In genere vi si riescono a risolvere le vicende poco complesse o quelle di valore esiguo per cui il costo della causa non sarebbe proporzionato al beneficio concretamente ottenibile.
Discorso a parte è quello degli arbitrati, pure ricompresi tra le ADR, ma che rispondono a esigenze opposte rispetto a quelle appena viste. Sempre più imprese, infatti, li preferiscono ai tribunali per la speditezza e la flessibilità, e questa non dovrebbe essere una buona notizia per i giudici e per il sistema giustizia in generale. Gli arbitrati sono, infatti, decisamente più onerosi dei giudizi ordinari (i compensi per una terna arbitrale possono facilmente arrivare a centinaia di migliaia di euro), ma consentono di bypassare la lentezza della giustizia ordinaria. Ed ecco che, ai clienti che ne hanno la possibilità, generalmente società multinazionali e fondi di investimento, suggeriamo sempre più spesso di inserire nei loro contratti una clausola compromissoria. Nella mia esperienza, gli arbitrati sono più frequenti nel settore degli appalti e in quello societario, e in generale nelle controversie con un elevato grado di complessità e di alto valore. Penso si possa facilmente ipotizzare che, se continuerà questa tendenza, visto anche il fenomeno delle concentrazioni societarie, c’è il serio rischio che i tribunali vengano sempre più aditi per cause seriali, di modico valore e di bassa complessità giuridica. Siamo proprio sicuri che sia il miglior obiettivo da perseguire[4]?
Su che cosa puntare, allora? Per me la soluzione deve coinvolgere tutti, in una continua interlocuzione con gli uffici giudiziari, l’avvocatura, le università, il Ministero della giustizia e gli enti locali. E deve puntare principalmente su: rafforzamento dell’organico, tecnologia e innovazione. Va bene completare la digitalizzazione dei fascicoli, ma non è sufficiente; giudici e uffici devono poter contare su una infrastruttura tecnologica adeguata, su database potenziati e – perché no – anche su piattaforme di intelligenza artificiale opportunamente sviluppate per garantire la qualità dell’output e la confidenzialità degli input. Anche l’avvocatura si adeguerà in fretta, e in parte già lo sta facendo: è il mercato che lo impone e la società che ce lo chiede.
1. C. Castelli, I luoghi comuni da sfatare della giustizia civile, in Questione giustizia online, 2 settembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-luoghi-comuni-da-sfatare-della-giustizia-civile).
2. Ritengo che le parole siano importanti e che dal linguaggio passino anche tutti i cambiamenti culturali di grande portata. A tal riguardo, per dare nuovo stimolo e nuovo lustro alla funzione del giudice, chissà che pensarsi (per loro) e pensarli (noi tutti) come figure chiamate a risolvere e a decidere, più che a “smaltire”, non aiuti la causa. Per lo stesso motivo, ma per una causa diversa – come il lettore avrà già notato –, si è scelto di non utilizzare il maschile sovraesteso, bensì una scrittura inclusiva che dia visibilità anche a tutte le magistrate, le avvocate e le altre operatrici del settore.
3. C. Castelli, I luoghi comuni, op. cit.
4. Mi sia consentita anche un’ulteriore riflessione: non può farsi “giustizia”, anche nelle sedi alternative, senza gli avvocati; esiste, invece, “giustizia” senza giudici.