Il lavoro del magistrato, il rifiuto di un approccio burocratico e la sfida della responsabilità
Il lavoro concreto e quotidiano del magistrato, con le sua criticità e le dinamiche relazionali negli uffici giudiziari, costituiscono ambiti centrali della riflessione sulla magistratura per comprenderne lo stato di salute rispetto alla sua funzione istituzionale di tutela della persona e di gestione dei conflitti, e ai principi costituzionali di autonomia e indipendenza che ne sono a presidio. A tali ambiti della riflessione è dedicato il presente contributo, partendo dallo sguardo della giovane magistratura.
1. Il senso di una ricerca sulla giovane magistratura / 2. Corsi e ricorsi / 3. Fatti e considerazioni / 3.1. Il lavoro del magistrato / 3.2. Le dinamiche relazionali negli uffici giudiziari / 4. Tra passato e presente / 5. Immaginare una prospettiva / 5.1. Efficienza, efficientismo e burocratizzazione / 5.2. Il valore dell’organizzazione / 5.3. Per un recupero di democratizzazione degli assetti interni
1. Il senso di una ricerca sulla giovane magistratura
«“Quello che non si vede dal di fuori, quello che non si capisce, è che la vita del magistrato è veramente sacrificata alla giustizia” (intervista 26)»[1].
A partire dall’epoca successiva all’entrata in vigore della Costituzione, nella magistratura repubblicana si è formata progressivamente la coscienza dell’importanza di aprirsi alla società, di comprenderla e di esserne compresa. La coscienza di una magistratura calata nella società e nelle sue vicende, imparziale, ma non distante.
Molta strada è stata percorsa in questa direzione, ma il tema resta attuale e gli approdi non sono acquisiti in modo definitivo, specialmente in un’epoca come quella contemporanea, caratterizzata da profonde trasformazioni e contraddizioni, a tratti da vere e proprie regressioni rispetto a standard istituzionali, civili e giuridici che davamo per scontati, in cui il rapporto tra magistratura e società ha nuovamente bisogno di essere indagato, compreso, anche ricostruito.
La ricerca sulla giovane magistratura proposta in questo fascicolo vuol essere un’iniziativa di conoscenza e di comprensione.
Una ricerca condotta con un punto di vista esterno, quello dell’Università di Torino, che ci restituisce l’immagine della magistratura che ha da poco iniziato il proprio percorso in questo straordinario e difficile lavoro, sintesi delle nostre aspirazioni e delle nostre speranze, ma anche delle nostre inquietudini e dei nostri sacrifici. Un lavoro e una funzione che ha portato nelle nostre vite la promessa e il peso della responsabilità di offrire il migliore contributo possibile allo sviluppo della nostra comunità, attraverso la giustizia.
Un proposito per definizione sempre troppo lontano dalla realtà delle umane cose, che impone un confronto costante tra essere e dover essere. Un confronto tanto più intenso per chi da poco è diventato magistrato e si trova a doversi fare carico per la prima volta della distanza tra gli ideali e lo stato della realtà, nonché della fatica che richiede il cimento necessario per ridurre questa distanza.
Il percorso di ogni magistrato, più o meno all’inizio, è diverso, ma ciascuno con la propria identità, tutti camminiamo insieme e, soprattutto in una fase di crisi e frammentazione come quella attuale, abbiamo bisogno di ricordarci che siamo una comunità attraversata dalle stesse vicende, problematiche, paure, speranze, propositi.
Ecco, quindi, il significato di una raccolta di voci, punti di vista, esperienze, con l’auspicio che, attraverso lo sguardo di chi inizia, possiamo tornare a riflettere sulla nostra categoria, a comprenderci e a farci comprendere, a immaginare una prospettiva.
2. Corsi e ricorsi
Proprio il Diario di un giudice[2], tra i molti significati dell’opera, ha rappresentato un’occasione storica di apertura della magistratura, esponendone anche difetti e debolezze umane, al contempo fornendo spunti per la comprensione della realtà del lavoro del magistrato e di alcuni rischi che non sono mai scongiurati in modo definitivo.
Il riferimento è alla burocratizzazione del lavoro giudiziario e del rapporto con i “dirigenti”, in grado di condizionare il magistrato e, in ultima istanza, di compromettere l’autonomia interna della magistratura, anteponendo ad ogni altra una preoccupazione di risultato, incentivando il conformismo e facendo perdere di vista il centro della funzione, che è la persona[3], la cui piena tutela presuppone l’esercizio di una giurisdizione che sia libera da ogni condizionamento, anche di tipo interno.
3. Fatti e considerazioni
3.1. Il lavoro del magistrato
La ricerca svolta dall’Università di Torino[4] ha consentito di rilevare aspetti e criticità del lavoro del magistrato che per molti di noi appartengono alla vita di ogni giorno, oltre che all’esperienza comune del lavoro giudiziario in questa fase, al di là delle specificità e delle differenze chiaramente esistenti tra uffici, territori e generazioni in servizio.
La ricerca esordisce sul tema dando atto dell’impatto, da parte di chi inizia, con il dato di realtà per cui, nonostante i molti anni di studi, il magistrato non è un teorico, ma principalmente un pratico del diritto, per cui gli aspetti pratici del lavoro sono di fondamentale importanza e non oggetto di una sufficiente formazione precedente all’effettiva presa delle funzioni giudiziarie.
Conciliare la dimensione pratica del lavoro, dalla redazione dei provvedimenti alle sempre maggiori incombenze di tipo gestorio, alla complessiva gestione del carico, con la necessità di approfondimento teorico e formazione costante, comunque imprescindibile, non è semplice, già in termini generali.
Lo è ancor più in una fase in cui, posta la consapevolezza della serietà del problema della eccessiva durata dei processi, le statistiche, i numeri e lo “smaltimento” – termine ormai quotidiano nei discorsi sul lavoro del magistrato, per quanto inappropriato – sono diventati i temi e le preoccupazioni prevalenti. In secondo piano finiscono sia il problema della qualità e della concreta efficacia della risposta di giustizia, che è fatta di tempi e di contenuti, che la consapevolezza degli orientamenti e delle prassi che progressivamente si sviluppano, del modo in cui incidono sulla società.
In questo senso, anche per effetto del PNRR e degli impegni di riduzione dell’arretrato e dei tempi di durata dei processi che l’Italia ha assunto in sede europea, in quanto tali di certo condivisibili, la condizione di chi inizia il lavoro del magistrato oggi è profondamente diversa da quella delle precedenti generazioni, sulle quali non gravava il tipo di pressione di risultato, per una produttività intesa in termini marcatamente quantitativi, che oggi invece sembra essere il punto di caduta di ogni discorso sul lavoro giudiziario. Ciò, nonostante la laboriosità e l’ottima capacità di definizione dei procedimenti da parte dei magistrati italiani siano comprovate e attestate anche da fonti internazionali[5] e non si sia di certo all’anno zero del processo di riduzione dell’arretrato, la cui permanenza e in alcuni casi cronicità, nella complessità dell’analisi di cause e soluzioni, deve in ogni caso essere sganciata dal vero e proprio luogo comune della scarsa produttività dei magistrati[6].
La giovane magistratura, dunque, anche se la considerazione può ben essere estesa, pur essendo destinata inevitabilmente a incidere in modo più profondo su chi è all’inizio del percorso professionale, vive un contesto in cui è meno serena nel dedicarsi con coscienza al proprio lavoro, in quanto «“(…) da un lato sei schiavo dei numeri, però dall’altro c’è anche il problema della qualità del servizio che offri al cittadino” (focus group 2)»[7].
I carichi di lavoro particolarmente consistenti, soprattutto negli uffici di piccole e medie dimensioni, in prevalenza (ma non solo) nelle Regioni del Sud Italia, insieme alla descritta spinta crescente alla produttività, tematica trasversale agli uffici e ai territori, vero connotato culturale dell’attuale periodo, mettono a seria prova la capacità dei magistrati, giovani e meno giovani, di mantenere uno standard qualitativo adeguato nel lavoro. Esso dipende non solo dall’approfondimento teorico, ma anche dall’attenzione specifica che si è in grado di offrire al singolo caso concreto, che non sempre è congruamente trattato dalla citazione di una massima della Cassazione o dall’adesione a un orientamento preesistente.
L’impatto degli elevati carichi di lavoro e delle pressioni produttivistiche pesa sul lavoro dei magistrati insieme alle problematiche croniche ed irrisolte dell’inadeguatezza delle risorse del personale di magistratura, aggravato da costanti scoperture[8], del personale amministrativo in analoga situazione, delle piante organiche di molti uffici giudiziari, alla ancora necessaria razionalizzazione della geografia giudiziaria, che vede troppi uffici “di prossimità” in una permanente e sottovalutata difficoltà di funzionamento.
Pesa sul lavoro giudiziario anche il problema del turnover, cioè del frequente ricambio di magistrati negli uffici dei territori in cui sono presenti maggiori criticità, anche a causa delle difficoltà umane e personali connesse al lavoro in certi contesti, per cui i magistrati domandano il trasferimento appena possibile, perpetuandosi in questo modo un circolo vizioso che rende difficile la formazione di prassi e orientamenti condivisi e uniformi negli uffici e ne rallenta e affatica l’operatività.
Il problema del turnover permane nonostante l’offerta di mobilità per i magistrati, in termini di numero di bandi di trasferimento e di sedi rese disponibili, sia ormai ridotta al minimo dal Consiglio superiore della magistratura negli ultimi anni, proprio allo scopo di non destabilizzare eccessivamente gli uffici giudiziari, dati i problemi delle scoperture nell’organico e dell’incidenza dei pensionamenti, che sono solo tamponati dai nuovi ingressi, ancora insufficienti, anche solo per il raggiungimento, nei tempi relativamente brevi previsti, degli obiettivi del PNRR.
La situazione è affrontata con determinazione e spirito di servizio dai giovani magistrati che lavorano nei cd. “uffici di frontiera”, normalmente animati dall’entusiasmo di portare rinnovamento e miglioramenti nell’esercizio della giurisdizione, il che avviene con ampi margini di successo. La necessità di raccontare la realtà impone, però, di dare atto anche del sacrificio della vita personale dei magistrati, che non riescono dopo anni a ricongiungersi alle loro famiglie lontane o a coltivare i propri desideri di vita familiare e personale, oltre che professionale, in una situazione complessiva in cui in ogni caso gli uffici giudiziari sono in affanno, che scontenta tutti e certamente non contribuisce alla serenità di vita e di lavoro di chi esercita un’alta funzione pubblica e giustamente ne porta il peso, ma resta anche a sua volta una persona.
Deve essere, infatti, considerato che il primo incarico di un magistrato, la cd. “prima nomina”, riportata a una durata minima di tre anni del periodo di permanenza nell’ufficio di destinazione prima di poter chiedere il trasferimento dalla “riforma Cartabia”, ma fino a tale ultimo intervento elevata a quattro anni, si svolge attualmente, in media, a partire da un’età che va ben oltre i trent’anni. Tale dato è conseguenza di un concorso in magistratura strutturato per un lungo periodo (dalla “riforma Mastella”, legge 30 luglio 2007, n. 111) come di “secondo livello”, fino al recente intervento anche su tale profilo della “riforma Cartabia”, che ha reso nuovamente possibile l’accesso con la sola laurea.
Il giovane magistrato, non più così giovane da un punto di vista anagrafico, si trova quindi a iniziare la propria esperienza professionale in una sede nella quale sa di dover restare per almeno tre anni (quattro fino alla “riforma Cartabia”), oltre al tempo necessario per trasferirsi (di solito ulteriori anni, dato lo stato e i tempi delle procedure di mobilità), spesso lontano da tutti i suoi riferimenti e dalla sua famiglia, anche in territori in cui i magistrati vivono in una condizione di forte isolamento rispetto alle comunità locali per ragioni di riserbo e opportunità, in un’età in cui anche le esigenze di sviluppo della dimensione familiare sono oggettivamente più pressanti.
Ciò costituisce una grande differenza rispetto ai magistrati delle precedenti generazioni, che si trovavano a vivere l’inizio dell’esperienza professionale nei vent’anni, spesso con possibilità di trasferimento verso sedi più gradite molto maggiori e in tempi più brevi, in epoche connotate, in termini generali, da un maggiore benessere complessivo.
Trova conferma nella ricerca, inoltre, un ulteriore dato ampiamente noto, ossia che, oltre al problema del turnover, la stabilità di funzionamento degli uffici è spesso compromessa anche dalle situazioni di malattia o di maternità, posto il problema di fondo delle scoperture dell’organico e della frequente inadeguatezza delle piante organiche.
La ricerca fa riferimento anche alla rilevata difficoltà di trovarsi all’inizio della propria esperienza professionale, in particolare negli uffici in cui sono presenti maggiori criticità, a doversi far carico di casi particolarmente delicati e problematici.
La circostanza si verifica non solo, ma soprattutto, nel settore penale, con la paradossale conseguenza della frequente delegittimazione, nel contesto professionale, territoriale e presso il foro, ma anche nella percezione dell’opinione pubblica, dei magistrati che devono gestire all’inizio del proprio percorso processi di grande difficoltà e impatto mediatico, in particolare in materia di criminalità organizzata, solo perché giovani, secondo la retorica dei cd. “giudici ragazzini”[9], quando invece ben dotati della professionalità e della determinazione per fare bene il proprio lavoro[10].
Una razionale gestione delle risorse e del servizio giustizia richiederebbe la compresenza di esperienza e di energie fresche negli uffici giudiziari, in maniera tale da consentire al contempo continuità e rinnovamento.
Gli “uffici di frontiera”, soprattutto al Sud Italia, date le condizioni di lavoro, insieme al livello complessivo della qualità della vita in determinati territori, non sono preferiti dai magistrati che possono scegliere di andare altrove (spesso nonostante gli incentivi economici per le sedi disagiate), con la conseguenza che l’unico modo per coprire davvero i posti e garantire il servizio è assegnarli ai magistrati di prima nomina, con l’eccezione di quei magistrati che, per ragioni personali e familiari, hanno le loro vite radicate in tali territori, per cui scelgono di restare.
Il problema si fonde a quello descritto del turnover in un nodo gordiano che, stante l’attuale stato della geografia giudiziaria e delle carenze di organico, non si riesce a sciogliere, con la conseguenza di una gestione costantemente emergenziale del servizio giustizia in intere aree del Paese, peraltro proprio quelle che più richiederebbero una forte presenza dello Stato per far fronte a fenomeni di illegalità grave e diffusa.
Insieme alla consapevolezza della necessità che i temi strutturali e delle risorse vengano finalmente affrontati per ottenere una giustizia che non sia costantemente in affanno, specialmente nei territori più complessi, è necessario mettere da parte atteggiamenti paternalistici e avere piena fiducia nei confronti di chi, anche all’inizio, si cimenta con le difficoltà del lavoro del magistrato, sapendo che può svolgere il proprio compito con dedizione, autorevolezza e professionalità, anche portando un rinnovamento delle prassi e delle interpretazioni che consente al sistema giustizia di progredire.
Oltre alla fiducia, è necessario che vengano forniti i migliori strumenti e il miglior supporto a chi inizia, soprattutto nei territori difficili, per evitare che i giovani magistrati vengano lasciati in una condizione di solitudine, come purtroppo spesso avviene.
Tale ultima considerazione si salda a un ulteriore aspetto che emerge dalla ricerca, quello della crescente importanza delle competenze organizzative nel lavoro giudiziario, che sono in grado di incidere profondamente sulla resa del servizio giustizia.
L’importanza degli aspetti organizzativi nel lavoro del magistrato ha subito un’accelerazione con l’implementazione del nuovo assetto dell’Ufficio per il processo, con il richiesto cambiamento delle modalità del lavoro giudiziario e anche di mentalità da parte dei magistrati.
Oggi il tema della centralità delle capacità organizzative è posto anche dalle novità introdotte dalla “riforma Cartabia” con riferimento alle valutazioni di professionalità dei magistrati (art. 3, capo I, l. 17 giugno 2022, n. 71, il quale si innesta sulla disciplina già esistente, prevista dall’art. 11 d.lgs 5 aprile 2006, n. 160).
In particolare, il riferimento è all’art. 3, comma 1, lett. c della legge 17 giugno 2022, n. 71, il quale stabilisce che, nell’ambito della valutazione di professionalità, il giudizio positivo sia articolato, secondo criteri predeterminati, utilizzando i parametri di «discreto, buono o ottimo», con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro.
Il 22 dicembre 2023 è stato trasmesso alla Camera dei deputati lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di riforma ordinamentale della magistratura, in attuazione della legge delega “Cartabia” 17 giugno 2022, n. 71, il quale rimette al Csm la disciplina con propria delibera dei «criteri per articolare il giudizio positivo nelle ulteriori valutazioni di “discreto”, “buono” o “ottimo” con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro» (art. 5, che propone la nuova versione dell’art. 11, comma 3, lett. e, d.lgs 5 aprile 2006, n. 160).
Spetterà, quindi, alla normazione consiliare l’arduo compito di dare contenuto alla nuova disciplina sul rilievo delle capacità organizzative nelle valutazioni di professionalità. Si tratta di scelte che plasmeranno profondamente il volto della magistratura del futuro, valorizzando selezioni e carriere sulla base della capacità di “smaltimento” dei magistrati, oppure investendo sulla capacità del sistema dell’autogoverno di rilevare la concreta progettualità profusa dal magistrato nel contesto del suo lavoro per il miglioramento del servizio inteso a tutto tondo, contribuendo anche alla progressiva elaborazione di una coscienza e di un patrimonio condiviso di “buone scelte” organizzative[11].
Oltre alle prospettive di sviluppo del tema in sede consiliare, la fase attuale restituisce l’inadeguatezza di un sistema della formazione iniziale e permanente dei magistrati, che ancora rimette l’acquisizione delle capacità organizzative a propensioni individuali e ad occasioni sporadiche di apprendimento (come il rapporto con i singoli affidatari durante il tirocinio e alcuni episodici corsi alla Scuola della magistratura), senza che vi sia ancora una proposta di formazione strutturata, specifica e concreta sugli aspetti organizzativi del lavoro giudiziario.
L’assenza di tale formazione non pesa in modo particolare negli studi universitari di giurisprudenza, che devono restare saldamente ancorati all’obiettivo principale di dotare i laureati di adeguati strumenti concettuali e capacità di ragionamento, di cui nessun operatore del diritto può fare a meno. È invece grave nel periodo di tirocinio dei magistrati, che precede la presa di servizio, poiché comporta un’ulteriore difficoltà nell’avvio dell’esperienza professionale, soprattutto nei contesti più difficili e meno strutturati.
3.2. Le dinamiche relazionali negli uffici giudiziari
Per quanto attiene alle relazioni all’interno degli uffici giudiziari, la ricerca dà riscontro di rapporti di supporto reciproco tra i colleghi, soprattutto in uffici dove c’è una forte presenza di giovani magistrati e proprio dove le condizioni di lavoro sono più dure: «“sicuramente c’è un bello spirito, uno spirito di gruppo anche positivo, nel senso che ci si aiuta molto, quando si hanno dubbi ci si chiama… (…) I colleghi, diciamo, ci si chiama, si affrontano i casi insieme, i problemi in comune. Questa è una risorsa effettivamente che c’è in magistratura” (intervista 17)»[12].
Il rilievo di tale aspetto dà conto di uno spessore umano della magistratura che esiste, nonostante la fase di difficoltà, e della consapevolezza che la vicinanza, la comprensione e il supporto dei colleghi è in grado di fare la differenza.
Come traspare dalla ricerca, ciò coesiste con la presenza di un approccio a volte burocratico e individualista da parte dei magistrati, anche difensivo dalle pressioni e dai carichi, nella complessità di un ambiente professionale che non si sottrae alle dinamiche della generosità e degli egoismi umani e che chiaramente racchiude una diversità di percorsi di vita, bagaglio culturale e capacità di confronto che varia da persona a persona.
Sicuramente nell’esperienza del giovane magistrato non manca l’isolamento, che dipende anche dal livello di strutturazione dell’ufficio e dal modo in cui è concretamente gestito, dalla presenza o meno di colleghi più anziani e dal tipo di rapporto che con questi si crea, che può essere positivo e di scambio, ma anche di lontananza e contrasto, soprattutto sulle prassi e sulle interpretazioni, tra chi rappresenta l’esistente e chi invece si fa portatore di un rinnovamento.
Nonostante la presenza di colleghi più o meno coetanei e con strumenti simili, con cui instaurare un rapporto di sostegno reciproco, così come di colleghi più anziani che possono fungere da supporto, ha un grande peso il ruolo dei dirigenti.
La percezione di un’assenza o lontananza dei dirigenti rispetto ai problemi concreti, così come la difficoltà degli stessi nel fornire risposte adeguate o garantire un effettivo coinvolgimento nelle scelte organizzative, può contribuire a costruire intorno al magistrato una condizione di solitudine, che si ripercuote negativamente non solo sulla sua qualità di vita e di lavoro, ma anche in definitiva sulla vita dell’ufficio giudiziario nel suo complesso. Tali problematiche sono attuali per i magistrati di ogni generazione ma, ancora una volta, aggravano in modo particolare chi inizia.
La capacità organizzativa dei direttivi e semi-direttivi di rispondere effettivamente ai problemi concreti della vita degli uffici e la volontà di farsene carico, al pari della capacità di coinvolgimento, che non faccia patire le scelte come calate dall’alto, si confermano dunque, anche alla luce delle risultanze della ricerca in commento, tra i principali aspetti problematici del discorso sul lavoro del magistrato.
La ricerca dà atto, attraverso la percezione dei magistrati all’inizio del loro percorso professionale, di come non necessariamente i dirigenti abbiano un’effettiva formazione sulle questioni organizzative, rimesse ai talenti individuali e alle scelte dei singoli, che possono rivelarsi straordinarie, ma anche inadeguate o approssimative, con un impatto enorme sul lavoro dei magistrati e sulla resa del servizio.
Così come ogni magistrato prende servizio senza una formazione specifica sugli aspetti organizzativi del lavoro giudiziario, il magistrato dirigente è, a sua volta, spesso solo “prestato” all’organizzazione, dopo avere svolto un lavoro diverso per una vita intera e senza necessariamente una formazione o un background di competenze organizzative, che se presente può derivare ad esempio da un concreto cimento nel corso tempo, da esperienze negli organi di autogoverno della magistratura o fuori ruolo, da esperienze e interessi personali o professionali di altro tipo. Solo di recente, infatti, è stata messa in campo una formazione specifica per i dirigenti da parte della Scuola superiore della magistratura, le cui concrete modalità sono state peraltro oggetto di pesanti critiche.
Essere un buon magistrato non necessariamente equivale a essere un buon organizzatore. In un contesto generale in cui le capacità organizzative sono sempre più significative e in fieri, oggetto di specifica valutazione della professionalità del magistrato, connesse al raggiungimento degli obiettivi del PNRR, al buon funzionamento dell’Upp, alla capacità degli uffici di procura di strutturare un’azione non frammentaria ma, al contempo, partecipata, il ruolo dei magistrati dirigenti assume un peso sempre maggiore, così come sempre maggiori ne sono le responsabilità.
Al tempo stesso, non è chiaro ad oggi con esattezza quale sia il momento di apprendimento e sviluppo delle capacità organizzative e in che termini queste debbano essere successivamente verificate in capo ai dirigenti, posto che i controlli a valle da parte dei consigli giudiziari e del Consiglio superiore nella fase della procedura di conferma dell’incarico dirigenziale dopo il primo quadriennio si sono rivelati, nella sostanza, inadeguati a far emergere le criticità, oltre che spesso tardivi, proprio nei casi più critici[13].
È, dunque, auspicabile che la rilevanza sempre maggiore dei temi organizzativi porti la magistratura a strutturarsi sempre di più sia sul piano della formazione che della verifica.
Capacità organizzativa dei dirigenti e capacità di coinvolgimento vanno di pari passo nella descrizione delle problematiche degli uffici giudiziari.
Emergono al riguardo, dal punto di vista della giovane magistratura, linee di tendenza che, pur nella complessità dell’esistente e nella diversità delle situazioni, non possono essere ignorate.
La ricerca, infatti, conferma che si fa strada tanto negli uffici di procura, dove il problema è più immediatamente percepibile, ma anche nei tribunali, una gerarchizzazione di fatto nei rapporti con i dirigenti, che si percepisce nella concretezza del lavoro quotidiano e si declina nel mancato coinvolgimento effettivo nelle scelte organizzative sempre più centrali e protagoniste nelle vite degli uffici giudiziari: «“noi siamo il cuore del tribunale, ma è come se… si sentisse che ci viene detto che tu non conti, alla fine. Cioè, oltre al nonnismo… è proprio una netta differenza tra chi prende le decisioni e chi non le prende (…). Sentirei il bisogno di un livellamento” (focus group 2)»[14].
Tema che altresì trova riscontro nella ricerca è quello della «percezione di un “potere” discrezionale di stampo paternalistico esercitato informalmente nei confronti dei giovani»[15], insieme alla percezione del mancato riconoscimento del lavoro dei giovani magistrati, a cui spesso vengono affidati ruoli di responsabilità di fatto, senza una specifica preparazione.
Emerge, in conclusione, a conferma di quanto ampiamente visibile in ogni sede di confronto della magistratura, un bisogno di maggiore democratizzazione delle decisioni che ricadono sui singoli magistrati e delle dinamiche di organizzazione degli uffici giudiziari, di procura e giudicanti, che si ripercuotono sulla sostanza stessa della giurisdizione.
Una democratizzazione, dunque, delle dinamiche interne alla magistratura di cui gli organi dell’autogoverno e l’elaborazione della magistratura associata non sono riusciti, evidentemente, in maniera adeguata a farsi garanti.
4. Tra passato e presente
«L’organizzazione gerarchica e piramidale del corpo giudiziario è stata – già lo si è ricordato – il più potente veicolo di conformazione e conformismo giurisprudenziale e di sintonia della magistratura con il sistema di potere politico ed economico. (…) Da un lato, infatti, la carriera, sia come traguardo sperato che come risultato raggiunto, produceva effetti di conformazione all’interno del corpo giudiziario, smorzando la dialettica e il pluralismo nella formazione della giurisprudenza. Dall’altro, poiché la carriera determinava un processo di verticizzazione della magistratura, veniva favorita la possibilità di interferenze esterne, essendo evidentemente più facile condizionare dall’esterno un vertice (o un sistema di vertici) che non un potere diffuso. (…) Non per caso, dunque, l’abbattimento della carriera fu, negli anni sessanta e settanta, obiettivo prioritario (quasi “parola d’ordine”) di Magistratura democratica, unitamente, invero, all’intera Associazione nazionale magistrati»[16].
L’obiettivo dell’abbattimento della carriera fu raggiunto, insieme all’adozione di meccanismi di valutazione della professionalità non selettivi, con le leggi cd. “Breganze e Breganzone” (25 luglio 1966, n. 570, e 20 dicembre 1973, n. 831).
Prevalse, dunque, un modello egualitario di magistratura rispetto al modello meritocratico basato sulla selezione, acquisita la consapevolezza che i meccanismi selettivi non si erano rivelati idonei a misurare la professionalità concreta dei magistrati, mentre erano certamente uno strumento per conformare il comportamento del magistrato, soggetto alla valutazione prima che alla legge. D’altronde, «una volta effettuata la selezione, non si saprebbe che cosa farne, posto che tutte le funzioni giudiziarie sono egualmente delicate e tutte incidono sulla libertà personale, sull’onore, sui beni, sull’attività lavorativa, sulla vita familiare dei cittadini. Per dare risposte di giustizia attendibili e diffuse non serve, dunque, selezionare i migliori magistrati ma occorre perseguire la crescita di tutta la magistratura. È stata, del resto, l’abolizione della carriera intesa come “percorso verso l’alto” che ha prodotto magistrati pieni di tensione morale e di passione civile (nel pieno della loro vita professionale e tra i “ragazzini”), pur in presenza di deresponsabilizzazioni, insufficienze e pavidità (peraltro egualmente diffuse in precedenza)»[17].
È proprio tra gli anni sessanta e settanta, con la battaglia per l’abolizione della carriera, che la tematica dell’indipendenza interna viene posta al centro del dibattito associativo.
«È matura la consapevolezza dello stretto nesso tra indipendenza esterna ed indipendenza interna»[18], in quanto «solo una magistrato indipendente, libero da un soffocante controllo gerarchico, può mettere in discussione le leggi»[19] e dare piena attuazione alla Costituzione, che «significa attuazione della democrazia e garanzia dei diritti di libertà, che è al fondo ciò che dà senso e contenuto alla indipendenza della magistratura nei confronti dell’esecutivo. Il processo di attuazione della Costituzione, per le conseguenze indotte dal meccanismo del controllo di costituzionalità diffuso, spinge verso la democratizzazione del corpo giudiziario e alimenta l’impegno per l’indipendenza interna e per la riforma dell’ordinamento giudiziario»[20].
Il ruolo dei giovani magistrati entrati nel dopoguerra, dei cd. “pretori d’assalto”, nell’innovazione giurisprudenziale, la pretesa e ottenuta “assoluta parità” di tutti i magistrati, la possibilità per tutti i giudici di investire la Corte costituzionale (con la prima sentenza storica n. 1 del 1956) è cronaca di quegli anni, nonché la nostra storia.
In un clima di grande vivacità culturale, l’impegno associativo per l’abolizione della carriera fu portato avanti da un’Associazione nazionale magistrati dominata dai più giovani, saldandosi alla riflessione sul ruolo della magistratura nella società contemporanea.
Il manifesto della magistratura di quell’epoca è probabilmente rappresentato dalla mozione finale del Congresso di Gardone (XII congresso nazionale dell’Anm, tenutosi a Gardone dal 25 al 28 settembre 1965), approvata all’unanimità, la quale afferma:
«spetta (…) al giudice, in posizione di imparzialità ed indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere: 1) applicare direttamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettaglio costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale.
In conclusione, il Congresso si dichiara decisamente contrario alla concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica indifferente al contenuto ed all’incidenza della norma nella vita del Paese. Il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione»[21].
La magistratura che immaginò se stessa in questo modo, con parole tra le migliori e più chiare mai scritte sul significato dell’interpretazione e sul ruolo del giudice nella società, ottenne con successo negli stessi anni l’abolizione della carriera.
L’oppressione burocratica, il conformismo e le preoccupazioni di risultato descritte da Dante Troisi nel Diario di un giudice, dominanti nella magistratura precedente l’epoca della Costituzione, vennero respinte dall’orizzonte culturale della magistratura repubblicana, che si vedeva protagonista di una svolta democratica che riguardava in realtà lo Stato e le istituzioni nel loro complesso, in una straordinaria stagione di sviluppo e di rinnovamento, che fu quella dell’Italia degli anni sessanta e settanta.
Che ne è stato, dunque, della magistratura di Gardone?
L’Italia del 2023 non potrebbe essere più lontana da quella degli anni sessanta e settanta. Attraversata da difficoltà economiche e sociali profonde, anche a seguito della pandemia da Covid-19, in uno scenario diffuso anche a livello internazionale di crisi della democrazia, con modelli di governo autoritari che guadagnano terreno anche in Occidente, di nuova escalation delle tensioni belliche, con guerre in corso in Ucraina e in Israele e Palestina, di fuga in avanti nello sviluppo di tecnologie che sembrano al di fuori dal nostro controllo, come l’intelligenza artificiale, con una rincorsa tra le istituzioni e la realtà sempre più affannosa. Le guerre in atto e la portata del fenomeno migratorio, con le tragedie che determinano, recano ardui interrogativi sulla possibilità di costruzione di un mondo di eguaglianza e di pace, il cui sogno sembra tramontare insieme a quello di una tutela internazionale dei diritti umani e di un’Europa effettivamente unita.
La cornice delle grandi idee del Novecento non è più in grado di sostenere un mondo smarrito e deluso. L’idea di “progresso”, che tanto è stata centrale nella vicenda del mondo occidentale, è in crisi, sebbene se ne senta al contempo un profondo bisogno, con la speranza che di progresso possa esservi una nuova stagione[22].
Un mondo sempre più complesso, dunque, e uno scenario di profonda crisi delle idee, la cui solidità ha invece nel passato consentito di affrontare stagioni di grandissima difficoltà, anche nel nostro Paese – si pensi, ad esempio, a quella del terrorismo.
La crisi non poteva, ovviamente, risparmiare la magistratura, giunta a quest’epoca affaticata da una logorante stagione di contrasti con la politica, successiva alle vicende di “Tangentopoli” e mai esaurita del tutto, oltre che dai periodici tentativi di riforma dell’ordinamento giudiziario, animati in parte da una legittima volontà di modernizzazione del servizio giustizia in luce delle mutate esigenze dei tempi, ma fin troppo spesso anche dal proposito di ridimensionare l’autonomia e indipendenza della magistratura così come garantite dalla Costituzione, riducendone nei fatti la capacità di controllo di legalità dei pubblici poteri e di tutela dei diritti di tutti.
La “riforma Castelli” (legge delega 25 luglio 2005, n. 150, seguita dai decreti legislativi che ne hanno dato attuazione nel successivo 2006) e la “riforma Mastella” (legge 30 luglio 2007, n. 111) hanno inciso profondamente sulla fisionomia della magistratura, avviando il processo di separazione tra le funzioni requirenti e quelle giudicanti, irrigidendo i passaggi tra le due e introducendo elementi espliciti di gerarchizzazione degli uffici di procura.
Modifiche centrali hanno riguardato la dirigenza giudiziaria, con il recupero del criterio meritocratico.
«Negli atti pubblicati nel 2003 del Congresso dell’ANM si ribadiva che il cittadino, oltre ad avere diritto che il magistrato sia imparziale, senza vincoli gerarchici e possibilità di pressioni interne o avvicinamenti dall’esterno, ha anche diritto a che il magistrato cui si rivolge “non solo lavori il più seriamente possibile – producendo quantitativamente il più possibile – ma anche che sia preparato e che studi e si aggiorni efficacemente”»[23]. Infatti, la legittimazione della magistratura dipende «non solo dall’indipendenza e imparzialità (principi indefettibili della Costituzione) ma, in un quadro costituzionale innovato dal principio della durata ragionevole del processo (art. 111 Cost.) e, in parte, dall’esigenza del buon andamento della funzione giudiziaria (art. 97 Cost.), occorre assicurare una tempestiva e qualitativamente soddisfacente risposta di giustizia»[24].
Dunque, non solo sulla base di spinte “reazionarie”, ma nella prospettiva di contribuire alla costruzione di un servizio giustizia efficiente e al passo con i tempi, con il proposito di risolvere il problema dell’arretrato cronico, di assicurare competenza e specializzazione, di orientare la giurisdizione verso la produttività, nel senso di un maggiore impegno individuale, si è seguita l’opzione della creazione di vere e proprie figure di dirigenti, con l’auspicabile accesso anche dei più giovani. Dirigenti possibilmente preparati e motivati, con una connotazione delle funzioni direttive come attività di servizio, non come riconoscimento della parte finale della carriera.
Il superamento, dunque, della cd. “anzianità senza demerito”, inadeguata a sostenere la giurisdizione in tempi sempre più complessi e iniqua nei confronti della valorizzazione delle capacità esistenti, rispetto alle quali era destinato altrimenti a prevalere sempre il mero dato dell’anzianità, a detrimento in ultima istanza della qualità del servizio.
Al di là dei buoni propositi, «La possibilità di abbreviare la carriera, conseguendo posti direttivi di prestigio e di potere (soprattutto nelle procure, riorganizzate in senso gerarchico) o, quanto meno, semi-direttivi, con alleggerimento del sempre più forte carico di lavoro (grazie all’esonero generalizzato del 50% del carico di lavoro), ha però rapidamente innescato la competizione dei magistrati, incrementato la discrezionalità consiliare e, quindi, il potere dei componenti e delle correnti di cui sono espressione, mettendo in crisi la legittimazione del Consiglio, dei dirigenti nominati e, con essi, dell’intera giurisdizione»[25]. La malerba del “carrierismo” ha ripreso a crescere nella giurisdizione.
Pur nella consapevolezza che «L’esistenza di percorsi di carriera elitaria, di una alta e una bassa magistratura, di rapporti preferenziali dell’ambiente romano e gli incarichi speciali, furbizie e raccomandazioni non sono appannaggio delle ultime due contestate consiliature, ma sono purtroppo costanti dell’ordine giudiziario italiano a intensità variabile nei diversi momenti storici»[26], la magistratura ha visto l’afflato ideale dell’epoca di Gardone e i buoni propositi di modernizzazione successivi infrangersi in una gestione concreta del governo autonomo che è culminata nello scandalo dei fatti dell’Hotel Champagne e della diffusione delle chat di Luca Palamara del 2019. Dallo scandalo è emerso il dominio di dinamiche di appartenenza e di spartizione tra i gruppi della magistratura associata nell’attribuzione degli incarichi dirigenziali, sintomo di un grave crollo di idealità ed etico, vero e proprio tradimento della funzione dell’autogoverno, con la conseguenza di una compromissione non solo della fiducia della società nella magistratura, già minata dalle difficoltà concrete nella resa del servizio, ma anche, in modo altrettanto grave, della fiducia della magistratura in se stessa.
5. Immaginare una prospettiva
Eccoci, dunque, magistratura giovane e meno giovane, a fare i conti con la nostra immagine infranta.
Per ricostruire, e per proseguire nella consapevolezza che non esistono bacchette magiche[27], seguono alcuni spunti di riflessione.
5.1. Efficienza, efficientismo e burocratizzazione
L’ingresso della nozione di “efficienza” nel lavoro giudiziario non può essere considerato un disvalore. L’esercizio della giurisdizione, infatti, non è qualcosa di astratto, ma di concreto e in parte anche di misurabile. La sua efficacia implica contenuti e tempi adeguati, così come una capacità di “rendimento” del sistema e del singolo magistrato. Non può, dunque, negarsi che esista un tema dell’efficienza del lavoro del magistrato da declinare in positivo.
D’altronde, i saperi statistici e organizzativi che si sono sviluppati con riferimento al lavoro giudiziario, a partire dall’idea dell’efficienza, ci consentono una sempre maggiore conoscenza e padronanza delle questioni, delle materie e della realtà concreta in cui il lavoro è calato, oltre che una maggiore trasparenza, a cui diversamente non avremmo avuto accesso.
L’acquisizione di nuove professionalità, come quelle degli addetti all’Ufficio per il processo e delle altre figure di personale amministrativo assunte nell’ambito del PNRR, sebbene per il momento a tempo determinato fino al 2026 e solo negli uffici giudicanti, ci incentivano a immaginare una modalità stabile del lavoro giudiziario che non sia più quella del tuttofare, ma del magistrato che può invece dedicarsi al decidere, sostenuto nelle attività preparatorie e pratiche dal personale di supporto, con un miglioramento della resa, della qualità del servizio e della qualità del lavoro.
L’innovazione tecnologica, con lo sviluppo del processo civile telematico, ha consentito di ottenere standard di trasparenza, qualità e organizzazione del lavoro giudiziario di cui oggi non si potrebbe fare a meno e si spera, superando le difficoltà del momento, che anche lo sviluppo del processo penale telematico possa portare a risultati positivi.
Oggi la nuova banca dati della giurisprudenza di merito del settore civile costituisce un prezioso strumento di conoscenza degli orientamenti e per l’organizzazione del lavoro giudiziario, e si aprono per il futuro ulteriori prospettive di sviluppo per l’uso dell’intelligenza artificiale.
Aspetti positivi, buone intenzioni e prospettive non esauriscono però il discorso. Esistono, infatti, criticità che devono essere considerate e affrontate.
La prima, emersa in modo chiaro dalla ricerca in commento, riguarda le pressioni di risultato.
Posto infatti che non si pone un problema di produttività dei magistrati italiani, da dove nasce il bisogno di accentuare così tanto la richiesta di un risultato quantitativo?
Comprensibilmente, pesa la centralità del tema della riduzione dell’eccessiva durata dei processi e dell’arretrato, così come è forte in questo momento il condizionamento delle richieste del PNRR, da cui non si può prescindere e che deve vedere tutti impegnati in uno sforzo.
Al di là della contingenza e dei condivisibili temi di fondo, c’è però un problema culturale. Infatti, nel cercare di adattare al lavoro giudiziario dinamiche proprie del settore privato, in assenza di un’adeguata elaborazione di sistema su quello che significa e comporta l’efficienza nel settore pubblico e, in particolare, con riferimento al servizio giustizia, si sta realizzando uno scivolamento verso l’efficientismo, ossia verso una logica di raggiungimento di obiettivi di risultato a tutti i costi, che non è condivisa e praticata in modo unanime nella magistratura, ma ha una portata tale da rappresentare oggi un connotato di sistema su cui è necessario riflettere.
Peraltro, un ragionamento sull’efficienza del servizio giustizia che voglia essere davvero calato nella realtà non può prescindere ormai dal tema delle risorse, a partire dagli organici dei magistrati e del personale amministrativo, oggi con riferimento anche agli addetti all’Upp, assunti grazie al PNRR per favorire il raggiungimento degli obiettivi con contratti a termine. Addetti che finiscono, così, per prediligere la possibilità di altri lavori con prospettiva stabile, con una concorrenza anche pubblico-pubblico che affatica il lavoro degli uffici giudiziari e mette a rischio il raggiungimento degli obiettivi.
Tra carenze strutturali e necessità di rendere stabili le strutture di supporto, come l’Upp, è legittimo chiedersi intanto, volendo in modo provocatorio guardare il tema in una prospettiva aziendalista: «Ma c’è una qualche azienda al mondo che funzioni con un terzo, o solo metà, o addirittura un decimo del personale?»[28]. Sul punto deve essere considerato anche che, tra le questioni che impediscono la soluzione del problema dell’arretrato cronico, spiccano quella del turnover dei magistrati e dell’assetto in alcuni territori della geografia giudiziaria, che per essere affrontati in una prospettiva risolutiva non possono prescindere da un serio investimento, materiale e di progettualità, sulle risorse.
Va, quindi, detto senza remore che un discorso di efficienza senza un ragionamento sulle risorse è monco. Tale discorso va sviluppato insieme alla progettualità organizzativa e alle buone prassi che la magistratura può e deve mettere in campo per migliorare il servizio già con le risorse esistenti, facendo il meglio possibile.
Le pretese quantitative, dunque, devono trovare il giusto limite nella realtà e nella salvaguardia della qualità del servizio, che deve tornare a essere nella sua dimensione piena il tema protagonista dei ragionamenti sull’efficienza della giustizia, senza trascurare l’importanza cruciale dei tempi, ma senza sacrificare l’irrinunciabilità di contenuti in grado di rispondere ai bisogni di tutela[29].
Una chiara opzione culturale per il tipo di efficienza che vogliamo coltivare è necessaria, per non rassegnarci al nuovo prevalere di un approccio burocratico al lavoro del magistrato, con i condizionamenti, il conformismo e la perdita di capacità effettiva di rendere giustizia che inevitabilmente ne consegue.
Una dimensione positiva dell’efficienza richiede, inoltre, che l’innovazione e le questioni organizzative non diventino foriere di un appesantimento del lavoro tale da distrarre il magistrato dalla sostanza della funzione giudiziaria, che resta quella dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme. Posto il necessario impegno per ogni cambiamento, l’efficienza e i suoi derivati devono restare serventi rispetto alla giurisdizione e porsi come effettivo ausilio al processo e al magistrato.
I tempi recenti ci hanno purtroppo consegnato un’esperienza ben diversa, fatta di lentezze e supporto insufficiente, hardware e software, da parte del Ministero per il corretto funzionamento degli applicativi informatici, sempre più protagonisti del lavoro giudiziario. Si sono verificate gravi disfunzioni, a seguito dell’entrata in vigore della “riforma Cartabia” a gennaio 2023, successivamente all’entrata in vigore del processo civile telematico nella giustizia minorile – da ultimo, si possono richiamare quelle che hanno determinato il rinvio dell’utilizzo dell’applicativo APP nel settore penale, in assenza di adeguata sperimentazione, con il rischio concreto di veri e propri blocchi di funzionamento delle relative attività[30].
Altrettanto si può dire per le difficoltà legate all’inserimento e all’avvio dell’attività degli addetti all’Upp, la cui formazione è stata in concreto interamente rimessa ai magistrati, con un enorme aggravio soprattutto nei contesti meno strutturati e con magistrati più giovani. Anche a tale aggravio si è fatto fronte, ma una meglio pianificata e meno burocratica gestione dell’inserimento di questo personale avrebbe facilitato non poco il lavoro.
Il tema dell’impiego dell’intelligenza artificiale dovrà essere sviluppato nel futuro per comprendere come questo tipo di innovazione possa incidere sulla questione delle risorse e delle attività di supporto alla giurisdizione, senza timori pregiudiziali, ma anche senza abbassare la guardia e non cedendo ai rischi di facili semplificazioni, soprattutto sempre con un’opzione culturale chiara, che è quella della qualità del servizio e della centralità della tutela della persona.
5.2. Il valore dell’organizzazione
L’efficienza, declinata saldamente nella prospettiva della qualità del servizio giustizia, richiede che altrettanto valga per l’organizzazione.
L’organizzazione, infatti, non può essere tarata in modo esclusivo sugli obiettivi della produttività e dell’abbreviazione dei tempi. Bisogna farsi promotori anche di una dimensione qualitativa dell’organizzazione, che valorizzi e incentivi le buone prassi che migliorano i contenuti della giurisdizione, ad esempio restituendo più tempo al magistrato per l’approfondimento o coadiuvandolo nell’approfondimento, promuovendo l’elaborazione di orientamenti comuni, migliorando la gestione delle udienze, consentendo la conoscenza e la razionalizzazione delle pendenze, aiutando a elaborare criteri di priorità nella trattazione degli affari[31]. Peraltro, queste iniziative possono portare a effetti positivi non solo sul piano qualitativo, ma anche quantitativo.
Si tratta di un ambito rimesso interamente a noi, alla creatività e alla capacità di elaborazione, nelle singole materie e settori, che può trovare un’importante sede di sviluppo nell’Ufficio per il processo.
A sua volta l’Upp, principale investimento in termini di risorse e organizzazione nel settore giustizia degli ultimi anni, non deve trasformarsi in una macchina burocratica la cui operatività si risolve nel perseguimento di obiettivi meramente quantitativi, anche con una impropria logica di “sostituzione” dei funzionari al giudice nella redazione dei provvedimenti. L’idea di un lavoro di squadra, con assistenza di personale qualificato, per il miglioramento del servizio, deve essere portata avanti nella sua genuina e migliore accezione attraverso lo sviluppo degli impieghi “qualitativi”, oltre che di sostegno alle definizioni.
In questo senso, l’Upp rappresenta un ambito di elaborazione di prassi virtuose, che possono essere incentivate e promosse dal Csm tramite lavori di rilevazione e raccolta. Rappresenta, inoltre, momento centrale per lo sviluppo delle capacità organizzative di tutti i magistrati, che poco hanno a che vedere con una mal trasposta funzione manageriale, ma che invece devono essere tarate sulle specificità del lavoro giudiziario.
È forte e condiviso nella magistratura l’auspicio della stabilizzazione di questa struttura anche dopo l’orizzonte del 2026 del PNRR, nonché dell’estensione agli uffici di procura.
Oggi e in futuro bisogna fare buon uso di questa risorsa e non trasformarla nell’ennesimo meccanismo burocratico, fonte di appesantimenti e condizionamenti per la giurisdizione.
5.3. Per un recupero di democratizzazione degli assetti interni
Custodi dei nostri auspici sono, con un ruolo essenziale, i dirigenti, oggi vero e proprio ago della bilancia in ogni discorso sul lavoro del magistrato, come risulta dalla ricerca.
A partire dalla riforma del 2006-2007, sempre più responsabilità sono affidate ai dirigenti, con un ruolo che spazia dalle questioni organizzative a quelle di tipo giuridico, nella sempre maggiore interconnessione che esiste tra i due ambiti, a incombenze di tipo amministrativo e addirittura pratiche, con differenziazioni di ruolo tra direttivi e semi-direttivi, uffici di grandi, medie e piccole dimensioni, a seconda o meno della presenza di un dirigente amministrativo, in combinazioni che sono varie tanto quanto l’Italia giudiziaria.
Si tratta di ruoli che possono essere interpretati in molti modi, più o meno burocratici, che se vissuti con senso di responsabilità si rivelano incredibilmente gravosi, oggi anche a causa dello sforzo organizzativo richiesto dal PNRR, il cui peso è fortemente ricaduto sui dirigenti chiamati in prima persona a fornire proposte e progetti.
Non può mettersi in discussione che la complessità dei tempi richieda dirigenti dotati di capacità organizzative e di iniziativa; in questo senso, l’opzione per una selezione sulla base di tali capacità può essere difficilmente abbandonata.
Il modello di fondo e i nodi problematici dello sviluppo di tali capacità, dei criteri della selezione, delle capacità di coinvolgimento, dei controlli, centrali e ad oggi ancora irrisolti, compongono il puzzle della domanda principale, che è quella del ritenere o meno realistica, al di là dei proclami e dei buoni propositi, una tenuta dell’indipendenza interna della magistratura rispetto a trasformazioni di stampo gerarchico, che si fanno strada sia nella magistratura requirente che in quella giudicante sotto le mentite spoglie di modalità organizzative più spedite ed efficienti.
La magistratura non può rinunciare alla sua autonomia interna e, quindi, a un assetto democratico dei rapporti interni agli uffici giudiziari. Diversamente, rinnegherebbe la sua eredità e gli sforzi per la conquista di tale autonomia, perseguiti per la piena attuazione della Costituzione, che è un processo sempre in corso.
Il problema della magistratura di Gardone, che respinse l’idea della carriera e dei suoi condizionamenti affinché la magistratura potesse svolgere un ruolo moderno ed essere un fattore di democratizzazione nella società, è in fondo il medesimo che noi siamo chiamati ad affrontare oggi, conciliando negli assetti interni la prospettiva meritocratica con quella egualitaria.
Nulla di più complesso. Probabilmente, un recupero effettivo di dimensione democratica nella gestione degli uffici richiede di cambiare prospettiva e non porsi più il problema della “dirigenza”, come se si trattasse di qualcosa di diverso dal resto della magistratura, addirittura chiamata allo svolgimento di un servizio più alto, più difficile, o con maggiori responsabilità di servizio (ad esempio, rispetto a quelle connesse alla privazione della responsabilità personale, per portarne uno evidente). In sostanza, una carriera separata.
Le responsabilità dei dirigenti sono specifiche e di primissimo piano, ma devono restare collocate in un discorso complessivo sull’organizzazione degli uffici giudiziari, che riguarda tutti i magistrati, in ruoli diversi, ma senza esclusioni.
In questo modo, la capacità di iniziativa e di organizzazione del dirigente si salda con quella di coinvolgimento di tutti i magistrati e anche del personale amministrativo, con la creazione di una sinergia tra le strategie adottate dall’ufficio e dal singolo, con il risultato della crescita complessiva dell’ufficio stesso e dei magistrati e di un maggior benessere di tutti, oltre ai risvolti positivi per il servizio.
Ciò a patto che il coinvolgimento sia effettivo, riscontrabile dai verbali delle riunioni, dai provvedimenti che i dirigenti adottano e anche dall’articolazione concreta del lavoro.
Esiste, infatti, una chiara differenza tra un coinvolgimento burocratico e meramente formale rispetto ad uno effettivo, che è concretamente riscontrabile. L’opzione non può essere rimessa alla scelta o alla sensibilità del singolo dirigente, ma deve essere pretesa e verificata da tutti e dagli organi del governo autonomo.
La prospettiva di un reale coinvolgimento dei magistrati nell’organizzazione degli uffici offre anche una diversa chiave di lettura della tanto discussa opzione per un’effettiva temporaneità degli incarichi direttivi.
Infatti, in una logica reale di coinvolgimento di tutti, il magistrato che non svolge più funzioni direttive può fornire in ogni caso un elevato apporto, senza nessuna dispersione di competenze e, anzi, contribuendo a mantenere una dialettica con il dirigente di cui l’ufficio può ampiamente beneficiare. Se, invece, si ritenesse che il dirigente debba essere il solo davvero a decidere, “una persona sola al comando”, non soltanto vi sarebbe una dispersione delle competenze, ma si disvelerebbe anche la reale prospettiva organizzativa, di taglio gerarchico, che si intende perseguire.
Il coinvolgimento è anche il miglior terreno per lo sviluppo e la seria valutazione delle capacità organizzative di tutti i magistrati, concretamente profuse nella costruzione e attuazione della progettualità degli uffici. È, inoltre, la migliore garanzia per la crescita di una nuova generazione di magistrati consapevoli del ruolo della giurisdizione. Questa è la nostra sfida e la nostra responsabilità.
1. Vds. C. Agnella, Una ricerca sulla cultura giuridica dei giovani magistrati, in questo fascicolo, par. 3.3.2.
2. D. Troisi, Diario di un giudice, Einaudi, Torino, 1955.
3. A. Centonze, Il diario di un giudice e le riflessioni senza tempo di Dante Troisi, in Giustizia insieme, 7 dicembre 2020 (www.giustiziainsieme.it/it/gli-attori-della-giustizia/1391-il-diario-di-un-giudice-e-le-riflessioni-senza-tempo-di-dante-troisi).
4. Per la lettura del resoconto integrale della ricerca svolta dall’Università di Torino, si rinvia a C. Agnella, Una ricerca, op. cit.
5. Si consideri, in particolare, che in Italia il numero dei magistrati in relazione agli abitanti è inferiore alla media dei Paesi del Consiglio d’Europa (in Italia ci sono 11 giudici ogni 100.000 abitanti, a fronte di una media di 22 giudici ogni 100.000 abitanti – fonte: CEPEJ, www.coe.int/en/web/cepej).
6. Per un approfondimento si rinvia a C. Castelli, I luoghi comuni da sfatare della giustizia civile, in Questione giustizia online, 2 settembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-luoghi-comuni-da-sfatare-della-giustizia-civile).
7. C. Agnella, Una ricerca, op. cit., par. 3.3.2.
8. Si rinvia alla lettura di S. Spina, I numeri dell’in-Giustizia: vuoti di organico e responsabilità della politica, Magistratura democratica, editoriale del 1° marzo 2023 (www.magistraturademocratica.it/articolo/i-numeri-dell-in-giustizia-vuoti-di-organico-e-responsabilita-della-politica), che alla data dell’articolo riporta un dato di 1529 posti vacanti.
9. Sull’espressione “giudice-ragazzino”, vds.: www.treccani.it/vocabolario/giudice-ragazzino_(Neologismi).
10. Per un approfondimento si rimanda a R. Lucisano, Giudici in Calabria, in Questione giustizia online, 27 aprile 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/giudici-in-calabria), e a P. Porchi, Magistratura democratica alla prova della questione generazionale, ivi, 9 maggio 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistratura-democratica-alla-prova-della-questione-generazionale).
11. Più diffusamente sul punto, si rinvia a O. Civitelli, La giustizia e la performance, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022, e in Questione giustizia online, 16 settembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-giustizia-e-la-performance). Più in generale, sulla “riforma Cartabia” in materia di valutazioni di professionalità, vds. R. Magi e D. Cappuccio, La delega Cartabia in tema di valutazioni di professionalità del magistrato: considerazioni a prima lettura, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022, pp. 77-84, (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1029/2-3_2022_qg_magi-cappuccio.pdf).
12. Vds. C. Agnella, Una ricerca, op. cit., par. 3.3.3.
13. Per uno spunto si rinvia a Magistratura democratica, Tutti confermati?, comunicato del 22 dicembre 2023 (www.magistraturademocratica.it/articolo/nm6585588cae5929-77316871).
14. C. Agnella, Una ricerca, op. cit., par. 3.3.3.
15. Ibid.
16. L. Pepino, Appunti per una storia di Magistratura democratica, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 1/2002, p. 140.
17. L. Pepino, op. ult. cit., pp. 141-142.
18. E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Bari-Roma, 2018, p. 64.
19. Ivi, p. 61.
20. Ivi, pp. 60-61.
21. E. Bruti Liberati, op. ult. cit., pp. 70-71.
22. A. Schiavone, Progresso, Il Mulino, Bologna, 2020.
23. P. Serrao D’Aquino, Appunti per una riforma della dirigenza giudiziaria, in Questione giustizia online, 12 aprile 2021, p. 5 (www.questionegiustizia.it/articolo/appunti-per-una-riforma-della-dirigenza-giudiziaria).
24. Ivi, p. 7.
25. P. Serrao D’Aquino, op. ult. cit., pp. 6-7.
26. P. Serrao D’Aquino, op. ult. cit., p. 3.
27. C. Castelli, I luoghi comuni, op. cit., p. 7.
28. Vds. L. Ferrarella, La «giustizia come azienda» e i (veri) numeri, Corriere della Sera, 13 dicembre 2023 (www.corriere.it/editoriali/23_dicembre_13/giustizia-come-azienda-veri-numeri-98e4aa0c-99e2-11ee-87b5-b67c9f2384d4.shtml).
29. Sarà centrale sul punto lo sviluppo del tema della determinazione dei carichi esigibili nazionali, dopo la delibera plenaria del Csm del 25 ottobre 2023
(www.csm.it/documents/21768/87316/risoluzione+carichi+esigibili+nazionali+%28delibera+25+ottobre+2023%29/f429b4e0-67d4-2149-9113-65463ac998dd).
30. A titolo esemplificativo si richiamano alcune prese di posizione dell’Anm, che hanno rappresentato la gravità dei problemi per quanto riguarda il processo del lavoro (www.associazionemagistrati.it/doc/3956/relazione-commissione-diritto-del-lavoro.htm), la giustizia minorile (www.associazionemagistrati.it/doc/4018/interventi-urgenti-per-la-giustizia-minorile.htm), il tema delle risorse in generale e il processo penale telematico (www.associazionemagistrati.it/doc/4047/nessun-investimento-sulla-giustizia-malgrado-le-promesse-del-ministro.htm).
31. Per alcuni spunti, si rinvia a P. Porchi, Magistratura democratica alla prova, op. cit., e a O. Civitelli, Il processo del lavoro nelle esperienze di frontiera, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, Quad. n. 7/2023 (a cura di U. Carabelli e D. Dalfino), pp. 112 ss. (www.futura-editrice.it/wp-content/uploads/2023/09/Quaderno-RGL-7-2023-Processo-del-lavoro.pdf).