Appunti sull’unità delle giurisdizioni
L’Autore evidenzia come, dietro l’espressione elegante e nobile del pluralismo delle giurisdizioni, si nasconda una realtà assai più verace e concreta che ne rivela il particolarismo per l’inevitabile avvicinamento delle giurisdizioni speciali agli interessi speciali di cui sono espressione, dai quali sono state volute (giacché non son cadute dal cielo) e ai quali storicamente sono “sensibiliâ€, con i rischi che quegli stessi ambienti che sono riusciti a strappare una giurisdizione propria possano condizionarla nel processo di formazione dell’habitus del giudice, inculcando, più o meno avvertitamente, gerarchie di valori che sono la negazione della terzietà che costituisce l’essenza della cultura della giurisdizione.
L’esigenza d’avviare una seria riflessione sul problema dell’unità della giurisdizione nasce da una constatazione che ben può considerarsi oggettiva (nei limiti in cui ciò sia possibile per la conoscenza umana nelle scienze sociali). In Italia esistono, di promanazione direttamente statuale, ben cinque giurisdizioni (ordinaria, amministrativa, contabile, tributaria e militare, a tacere di quei genuini reperti archeologici che sono il Tribunale superiore delle acque pubbliche ed il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana), oltre a quella speciale istituzione che è la Corte costituzionale, difficilmente classificabile secondo tradizionali criteri di riparto tra i poteri. Ciascuna giurisdizione, a garanzia della propria pretesa autonomia, dispone d’un organo d’autogoverno, che per la Corte costituzionale è meglio qualificabile come autodichia.
Ora, questo dato, di per sé oggettivo, da solo costituisce un’evidente ragione di criticità. Già molti decenni fa, all’evidenza inutilmente, Massimo Severo Giannini a proposito della pluralità di giurisdizioni in Italia, parlava di primitivismo istituzionale: con ciò intendendo alludere al fatto, storicamente constatabile, che in epoca medievale l’organizzazione giurisdizionale era caratterizzata da un pluralismo particolaristico, formula con la quale si designa (anche) il fenomeno della parcellizzazione della funzione giurisdizionale, compiuta nel perseguimento degli interessi corporativi di ciascun ceto, riottoso a sottoporsi ad un superiore potere regolatore.
Orbene, anzitutto è evidentemente contrario ad alcuni capisaldi della moderna civiltà giuridica che il dicere ius sia rimesso, nell’ambito d’un medesimo ordinamento, ad una pluralità di giurisdizioni tra loro prive di momenti efficaci di coordinamento. Il diritto, considerato sul piano sociologico, dovrebbe essere uno spasmodico creatore di certezze, giacché suo precipuo compito è consentire l’ordinato svolgimento dei rapporti sociali ed economici. E nessun ordine esiste senza predicibilità, giacché l’ordine richiede che chi agisce possa prospettarsi le conseguenze del suo fare e conoscere, entro limiti accettabili, le possibili reazioni dei soggetti con cui viene ad intessere relazioni. Ora, allorquando le giurisdizioni sono diversificate, la formazione di regole e principi coerente nell’ordinamento, è per definizione impossibile, perché nessuna soluzione è oggettiva, sicché quando ad assumere decisioni sono law makers diversi, le soluzioni saranno diverse. Quello che è vero in astratto è anche culturalmente spiegabile, giacché se l’esistenza di plurime giurisdizioni ha un effetto, e ce l’ha, è chiaro che questo sarà necessariamente nel senso d’avvicinare le giurisdizioni speciali agli interessi speciali di cui sono espressione e dai quali sono state volute (giacché non son cadute dal cielo).
E ‘sensibili’ lo sono storicamente. Basti pensare alla vicenda del giudice amministrativo. Nato non certo per perseguire la tutela degli interessi dei cittadini. Come emerge dagli studi dedicati alla sua origine, lo scopo principale dell’istituzione della IV Sezione (giurisdizionale) del Consiglio di Stato nel 1889, vale a dire la principale preoccupazione dei legislatori di quegli anni – non a caso ispirati dalla cultura riconducibile alla destra hegeliana ed al neoguelfismo meridionale – fu di sottrarre l’Autorità amministrativa al controllo del giudice ordinario, in modo da assicurare ad essa una forma di giustizia, se non proprio mansueta, certo non in grado di controllare in modo incisivo le scelte del potere. E non a caso, l’istituto al quale fu ben presto affidato il sindacato di legittimità – il cosiddetto interesse legittimo – si caratterizzò per un sindacato occasionale sull’azione pubblica, e cioè su di un controllo che il privato poteva sollecitare, ma solo se coincidente con l’interesse della Pa ed in limiti accortamente definititi dal concorrente criterio della discrezionalità amministrativa. E non a caso, ancora, la composizione soggettiva di quella giurisdizione si caratterizzò subito per una particolare contiguità dei giudici agli organi di governo.
Ora, non v’è dubbio che storicamente il processo d’unificazione delle giurisdizioni, e nelle giurisdizioni (si pensi per quest’ultimo caso alla vicenda delle ottocentesche cinque Corti di cassazione italiane), sia un percorso impervio. Proprio per la ragione storica della pluralità delle giurisdizioni, è evidente che le resistenze siano forti e che molti interessi, non solo delle corporazioni giurisdizionali, s’oppongano alla soppressione degli organi speciali. Sul piano d’una razionale ingegneria dello Stato, però, è difficilmente negabile che moltiplicare le giurisdizioni crei non pochi inconvenienti funzionali. A parte la già indicata – ma fondamentale – questione della certezza del diritto, un’enormità di questioni parassite – vale a dire del tutto disfunzionali rispetto ai compiti della giurisdizione – si producono per il sol fatto della compresenza di molti giudici sugli stessi spazi regolativi. Basti considerare quanto frequentati siano i lemmi come competenza e giurisdizione, per rendersi conto di come la conservazione di tanti, diversi oracoli del diritto (per usare l’efficace espressione d’un libro di Dowson, risalente ma di recente tradotto qui da noi) procuri infinite pene ai giudizi ed a coloro che in essi duellano. Ciò, per di più, in un sistema che com’è noto non certo brilla per i tempi in cui è in grado di realizzare la cosiddetta domanda di giustizia.
Ma l’inconveniente più grave della pluralità di giurisdizioni è nel cuore della questione. Come ben sa chiunque eserciti funzione di giudice o almeno l’abbia per davvero studiata, i risultati dell’attività interpretativa sono in gran parte legati alla qualità dell’interprete, alla sua formazione, alla sua cultura, al suo abito mentale. La legge s’esprime attraverso simboli linguistici; i fatti, a regolare i quali essa è dettata, si compongono di concreti accadimenti della vita, di trasformazioni fisiche della realtà, di interne deliberazioni dell’individuo. Tutto un materiale che a fatica riesce a trovare adeguata espressione nelle parole che il giudice deve utilizzare per tradurre la realtà nel diritto. Non solo. Ma quelle della legge sono parole astratte, piene di carica simbolica, di rinvii a principi e valori, quasi sempre indefinibili, ma che si modellano nel dialettico confronto con il reale, il quale volta per volta li illumina, ne pretende adattamenti, li spinge a rendersi plastici. Ma adattamenti, modellamenti di norme e principi hanno bisogno d’un gran mediatore, e questi è il giudice. Ora, almeno di non voler peccare di falsa ipocrisia, che potrebbe agevolmente smontarsi con banali constatazioni (ad esempio di legittimi contrasti giurisprudenziali) o raffinate elocuzioni teoriche, è ben chiaro che il significato, alle espressioni della legge, soprattutto a quelle più generali (che sono quelle che all’ordinamento donano la necessaria spiritualità), lo fornisce l’abito mentale del giudice, quell’interiorizzazione di valori socialmente diffusi che egli ha fatto nel corso della sua formazione ed attività e che si traducono poi in concrete reazioni comportamentali: vale a dire in concrete decisioni.
Orbene, se c’è una cosa della quale il giudice mai dovrebbe mancare è quella che, con formula un pò usurata, si denomina cultura della giurisdizione. E che non può definirsi in una sola espressione, ma che ha bisogno d’una serie di puntualizzazioni in dialettico rapporto tra loro: è anzitutto capacità d’oggettivazione, vale a dire di sereno problematizzare la concreta questione, perché sia rapportabile all’ordinamento; abilità nel non far prevalere troppo personali visioni, rispetto a quanto la società richiede al suo giudice, essendo questi funzione della società; acquisizione di categorie di giudizio ampiamente ricettive, perché chi giudica non può essere onnisciente né sceglie ciò su cui deve esprimersi, ma deve avere adeguati mezzi critici per riconoscere i fatti che rilevano ed i valori di cui, grazie alla loro normatività, essi sono intrinsecamente portatori; grande abilità a mantenersi terzo rispetto – non tanto alle parti, il che è scontato, quanto – ai valori che si agitano, essendo quell’inavvertito condizionamento, rischio assai grande per il giudice di perdere il proprio saper vedere; significa, ancora, riconoscere in ogni momento il proprio valore d’indipendenza, che non vuol dire autoreferenziale spiritualismo assoluto, bensì molto concreta capacità di non lasciarsi indurre a scelte che non discendono dai parametri di giudizio ai quali la sua aperta e critica lettura dei valori normativi lo spinga, bensì da relazioni personali o anche, ancor più pericolose, cetuali; significa quindi anche responsabilità nel formarsi una spregiudicata cultura critica, priva d’ogni (possibile) pregiudizio e sempre pronta a riconoscere le condizioni che limitano ed influenzano i processi di giudizio per sottoporli ad un attento vaglio di razionalità, ogni qual volta le questioni da esaminare lo richiedano per la ricchezza d’implicazioni che contengono. E molto altro si potrebbe dire, anche perché ciascuna delle ora articolate proposizioni richiederebbe a sua volta approfondimenti e definizioni non lievi.
Ma quel che qui importa, è che ognuna di quelle indicate componenti della cultura giurisdizionale è in posizione idiosincratica con la pluralità delle giurisdizioni: perché dietro quell’elegante ed anche nobile espressione pluralistica, si nasconde quella storicamente assai più verace e concreta di particolarismo. Pluralismo significa – in termini nobili – apertura al relativo, legittimazione d’una varietà di voci, spazio alla libertà di perseguire scopi diversi da parte di ciascuno, purché compatibili con quelli altrui; e così via. Ma questi nobili spazi della politicità umana non sono certo facilitati dalla pluralità delle giurisdizioni, perché della giurisdizione è creare sicurezze, indicando a ciascun consociato quel che può fare e cosa deve aspettarsi dalle sue azioni, poste in essere nell’ambito plurale delle possibilità che il patto sociale gli consente. Non è moltiplicando le giurisdizioni che s’accresce l’auspicato pluralismo; slargando gli organi competenti a dichiarare il diritto, si accresce la confusione ed il rischio che quegli ambienti che sono riusciti a strappare una giurisdizione propria, quanto meno riescano a condizionarla culturalmente (per non dire altro) e dunque intervengano sul processo di formazione dell’habitus del giudice, inculcando, più o meno avvertitamente (per lo più in una condizione intermedia) gerarchie di valori che sono la negazione della terzietà.
Bisogna riconoscere, sempre sul piano dell’analisi razionale delle istituzioni, che la pluralità delle giurisdizioni un ruolo “positivo” lo svolge: e quello attiene alla tendenza del giudice italiano all’autoreferenzialità. È un fenomeno culturale ben noto, quello per cui dietro la gelosa custodia dei valori d’indipendenza ed autonomia, spesso l’associazionismo giudiziario celi intenti corporativi e d’irresponsabilità: e soprattutto intenda conservare uno spazio di sovranità, nel quale applicare regole che per altri sarebbero vietate (basti solo pensare a quanto quotidianamente accade allorché debbano distribuirsi le cariche magistratuali più importanti). Il processo d’unificazione delle giurisdizioni, verso il quale sembrerebbe proprio necessario d’andare, dovrà porsi questo carico: la correzione di quelle regole d’organizzazione, gestione e selezione del personale giudiziario, che più spingono verso il corporativismo, l’autoreferenzialità, l’irresponsabilità: vizi, com’è noto, propri dell’oracolo, che però in un sistema politico democraticamente maturo vanno senz’altri emendati con opportune misure.