Introduzione: il diritto (e i giudici) del lavoro alla prova del Jobs Act
Le riforme complessivamente note come Jobs Act non realizzano quel modello di flexicurity a cui si dichiarava di volersi ispirare, e al contempo determinano un forte spostamento degli equilibri contrattuali, tutto e solo a favore dell’imprenditore e delle sue ragioni. Il disegno non poteva non completarsi con la voluta marginalizzazione dell’ambito del sindacato di legittimità del giudice. Ci sono ancora spazi per riaffermare tutele che costituiscano un baluardo per la civiltà del lavoro?
1. Quale senso di marcia per il diritto del lavoro?
A partire dalle prime mosse del Governo Renzi in materia di lavoro, è stato legittimo, ed anzi doveroso, chiedersi verso quale direzione ci si stesse muovendo per realizzare la nuova, preannunciata ipotesi di riforma.
Con il decreto legge n.34/2014 (convertito con la legge n.78 del 16.5.2014), si è messo mano alla regolamentazione dei contratti a termine e dell’apprendistato (peraltro già interessati dall’intervento operato con la legge n.92/2012, nota come Legge Fornero), con una massiccia liberalizzazione dei primi, che hanno visto l’eliminazione della cosiddetta “causale” giustificativa.
In pratica, grazie alla misura adottata, si è consentito ad ogni datore di lavoro di stipulare (per iscritto, non essendo venuto meno il requisito formale) contratti a termine privi di ogni giustificazione espressa, prorogabili fino a cinque volte, restando nell’ambito della durata massima di trentasei mesi. L’intervenuta liberalizzazione appariva in stridente ed evidente contrasto con la dichiarata intenzione di combattere la precarietà, riconosciuta ormai come fattore di insicurezza sociale e di impoverimento, soprattutto delle generazioni più giovani. Nei fatti, la misura adottata in via d’urgenza rendeva concreto l’aprirsi di un orizzonte triennale di “normale” occupazione a termine, senza che alle imprese venisse richiesta l’esplicitazione delle ragioni delle assunzioni temporanee.
Gli interrogativi non si sono certo placati con il varo della legge di delega al Governo «in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e le politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di vita, di cura e di lavoro», la legge n.183 del 16 dicembre 2014 che ha allargato l’ambito di intervento riformatore ad uno spettro ben più ampio, evidentemente per consentire al Governo di realizzare l’ambizione all’ammodernamento del sistema complessivo delle discipline in tema di lavoro. Una prospettiva che per la prima volta, è sembrata abbracciare il modello di importazione nordeuropea, di flexicurity, la cui essenza si traduce nella minor consistenza delle garanzie per il lavoratore nel rapporto di lavoro, affiancata dalle maggiori tutele del prestatore sul mercato.
In effetti, la legge delega ha investito, in termini alquanto generici, settori molto diversi quali – a titolo esemplificativo - il riordino degli ammortizzatori sociali, la semplificazione e la razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro ed in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, il riordino e la tuteladella maternità delle lavoratrici e l’adozione di strumenti per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori, la semplificazione e la razionalizzazione dell’attività ispettiva con la creazione di una Agenzia unica, la costituzione di una Agenzia nazionale per l’occupazione. Ma le maggiori attenzioni si sono immediatamente rivolte alle specifiche previsioni riguardanti il riordino delle tipologie contrattuali[1], e nello specifico la riforma del lavoro a tempo indeterminato, di cui da un lato si caldeggiava la promozione, «in coerenza con le indicazioni europee … come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti»; dall’altro però si ponevano le basi per un suo sostanziale stravolgimento, attraverso la «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento» (art.1, co.7, lett. c, l. n.183 cit.). Il sisma si preannunciava ancor più violento, considerato che la legge delega autorizzava l’esecutivo all’intervento anche sulla disciplina delle mansioni (lett. e) e su quella dei controlli a distanza “sugli impianti e sugli strumenti di lavoro”.
Le polemiche suscitate dalla pubblicazione del disegno di legge sono state rapidamente soffocate da un percorso parlamentare a cui è rimasta estranea ogni discussione, sbaragliata dalla questione di fiducia posta dal Governo: che così, in pratica, ha «auto determinato la delega, specificando i principi ed i criteri direttivi, gli oggetti da legiferare ed i tempi entro cui operare»[2], coerentemente a quel progressivo processo – già in atto da tempo – di esautoramento della funzione parlamentare che negli anni ha via via stravolto l’equilibrio tra poteri stabilito dalla nostra Costituzione.
Eppure, forse poche altre occasioni come questa avrebbero richiesto una discussione pubblica, aperta, a tutto campo, sulla necessità e sulla portata specifica di un intervento così ambizioso, che per un verso apportava novità positive e in sintonia con le esigenze di efficientamento (quali l’unificazione dei servizi ispettivi, e la creazione dell’Agenzia per l’occupazione); dall’altro nei fatti istituiva una nuova figura di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a cui però veniva sottratto il requisito qualificante, quello della stabilità nel posto, stante l’assoluta residualità della possibilità di reintegra in caso di ritenuta illegittimità del licenziamento.
Perché a questo si stava provvedendo: a quello che è stato acutamente definito come «mutamento di paradigma normativo del diritto del lavoro»[3] che si muove sull’orizzonte di una complessiva e profonda redistribuzione del potere sociale ed economico a vantaggio dell’impresa e del mercato. Il “vecchio” diritto del lavoro non basta più a rispondere alle sollecitazioni economiche e sociali della società postmoderna e postindustriale: è ora di lasciarsi alle spalle l’originaria funzione di riequilibrio degli assetti di potere nel rapporto di lavoro per affidarsi alle salvifiche prospettive della massimizzazione del benessere dell’impresa come rimedio generale alla crescente disoccupazione.
Peccato che la tesi della deregolazione quale strumento di creazione dell’occupazione risulti ormai un falso mito, smentito innanzitutto dall’osservazione empirica degli esiti delle politiche seguite negli ultimi anni[4]: e che l’innamoramento di certa accademia per la cd.analisi economica del diritto abbia colpevolmente occultato anche presso i giuristi le ragioni di una così clamorosofallimento delle misure via via adottate. In tale pochezza di risultati, quello che si è compiuto nel corso di questi anni non è null’altro che il colpevole e miope abbandono della prospettiva originale e – ci piace sottolinearlo – autenticamente democratica, del diritto del lavoro, quale venutosi a formare sulle fondamenta dell’architettura costituzionale.
2. Il mercato, i diritti, le tutele
Dunque, la “Grande Riforma” promossa dalla l. n.183 si ispirerebbe al modello europeo di flexicurity, in cui la riduzione delle garanzie nel rapporto di lavoro sarebbe compensata da una rafforzata protezione del lavoratore nel mercato. Dando per scontata la residualità dell’ipotesi di un unico rapporto di lavoro per tutto l’arco della vita attiva, diventadoveroso ripensare il sistema degli ammortizzatori sociali nel senso del loro tendenziale universalismo, e della loro generale capacità di “copertura” stante la fisiologica ricorrenza dei periodi di inoccupazione.
L’esame del decreto legislativo n.22/2015 suscita però più di un dubbio a proposito del concreto miglioramento del trattamento della disoccupazione[5]e soprattutto esclude il carattere universale della copertura, venendo anzi ad ispirarsi «alla logica assicurativa in misura ancora più rigida rispetto alla riforma del 2012».
Difficile allora credere che questo “spostamento di asse” possa avere effettivamente realizzato la copertura sufficiente e necessaria per consentire alla persona il mantenimento di un livello dignitoso di esistenza pur a fronte della forzata precarizzazione del suo percorso lavorativo. Tutto questo non fa che rendere inevitabilmente ancora più fragile, ed esposta, la sua posizione all’interno del rapporto, comunque soggetta al ricatto occupazionale a cui certo non lo sottrarranno i nuovi rimedi, a cui si affianca l’intenzionale indebolimento del sindacato e della contrattazione collettiva, soprattutto di livello nazionale[6].
Passando allora ad esaminare le novità sostanziali apportate dal d.lgs n.23/2015, senza scendere qui nell’esame di dettaglio delle specifiche disposizioni oggetto di studi dedicati all’interno di questo Obiettivo, in sintesi la novità si condensa nella previsione di una sanzione monetaria (non soggetta a contribuzione) in caso di ritenuta illegittimità del licenziamento, in importo pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, «in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità» (art. 3 co.1 d.lgs n.23 cit.). Alla prevedibilità del costo della sanzione conseguente alla violazione di legge, si affianca la constatazione della sua notevole esiguità. Certo, se non siamo ancora al ritorno al licenziamento arbitrario di cui all’art. 2118 cc, che comportava solo il pagamento del preavviso, di lì non ci si è poi scostati di molto: sì che è legittimo parlare di “un nuovo licenziamento arbitrario, un po’ più caro per il datore di lavoro, ma non tanto da essere un deterrente dinanzi ad un lavoratore che non corrisponde più in tutto e per tutto alle esigenze dell’impresa”[7].
E se così deve essere costruita la nuova “centralità” del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non può però tacersi che attraverso la concreta esposizione del lavoratore al recesso datoriale per via del costo irrisorio di quest’ultimo, soprattutto nei primi anni del rapporto, l’architettura costruita dal Governo Renzi si fonda sulla manomissione della premessa rappresentata dalla stabilità del rapporto, intesa come contraltare alla precarietà dei rapporti che non offrono garanzia di conservazione del posto. Se a tutto questo si aggiunge che gli sgravi contributivi concessi alle nuove assunzioni con la legge di stabilità (l. n.190/2014) vincolano il datore di lavoro al mantenimento del rapporto per il triennio, senza però introdurre limiti alla possibilità allo scadere del termine di “sostituire” il lavoratore con uno nuovo a cui applicare il trattamento di favore, è da pensare che allo scadere del beneficio la posizione del lavoratore assunto con il contratto a tutele crescenti si faccia quanto mai precaria. È stato calcolato infatti che, con una retribuzione di 30.000 euro annui, ed incentivi per complessivi 24.000 euro circa, l’indennizzo di 15.000 euro per il licenziamento illegittimo non impedirebbe al datore di lavoro di risparmiare comunque 9.000 euro rispetto al costo di un lavoratore assunto a termine: e dunque di triennio in triennio, ad ogni nuovo giro di giostra si rinnoverebbe la possibilità di fruire di un vantaggio cospicuo, pagato in definitiva dalla fiscalità collettiva per un fine prevalentemente privato, e soprattutto svincolato da qualsiasi contromoneta, ossia un qualche obbligo di stabilizzazione successiva del rapporto.
Qui si tocca con mano una delle premesse ideologiche da cui muove la riforma: la ripresa può vedere la luce solo affidando alle imprese la possibilità di muoversi con la massima libertà nel mercato del lavoro, senza i vincoli ed i limiti tradizionalmente oggetto di regolamentazione giuridica; conseguentemente, senza l’assoggettamento al sindacato di legittimità di un organo giurisdizionale terzo ed imparziale, posto come elemento di riequilibrio in un rapporto di per sé sbilanciato in ragione della condizione personale del singolo lavoratore rispetto al detentore dei mezzi di produzione.
Nella costruzione del “nuovo paradigma”, dunque, non ci deve essere spazio – o deve comunque essere ridotto al minimo - per la sindacabilità dell’atto di recesso: che pur assunto in violazione di legge, si traduce in un costo, sicuramente limitato, e comunque predeterminato sulla base di elementi oggettivi. Così si impedisce che un giudice “ci metta il becco” andando a sovvertire le decisioni imprenditoriali ed a vanificare ogni previsione economica sull’entità della spesa da sostenere.
La soluzione adottata va ben oltre, in questo caso, le polemiche che in un recente passato sono state mosse contro i giudici del lavoro (“certi” giudici del lavoro, tra cui quelli che collaborano a questa stessa Rivista) che, animati da un mero “pregiudizio ideologico” sino al punto di tradire il dovere istituzionale di imparzialità, si sarebbero fatti portatori di una “diversità” che li autorizzava ad ergersi a garanti dei diritti della parte debole del rapporto, ritenendosi autorizzati così ad ignorare volutamente ogni ragione di tipo economico[8].
Il tipo di scelta compiuta dal Legislatore del 2015, ci sia consentito di crederlo, non ha niente a che vedere con questo genere di argomento. Qui non ci si trova di fronte alla reazione, per quanto radicale, ad un modello, se anche si vuole credere in parte deviato, di “protagonismo giudiziario”. O se è questa la premessa da cui si vuole partire, è bene che si affermi con nettezza che si tratta di argomenti solo strumentali che non possono servire a nascondere il nucleo qualificante – questo sì, tutto e solo ideologico - della riforma della disciplina dei licenziamenti: l’esclusione, o comunque l’estrema marginalizzazione, di un sindacato di legittimità sull’agire imprenditoriale, autorizzato a muoversi in una “zona franca” che pone il soggetto privato in una situazione di evidente privilegio. Un unicum che se (ma l’ipotesi è ancora tutta da dimostrare) favorirà le ragioni dell’economia, mette da subito all’angolo ogni visione che al lavoro ed alle sue regole attribuisce il ruolo di architrave nella tensione verso un superamento della diseguaglianza. Per questo era essenziale eliminare, o almeno circoscrivere, l’intervento del giudice: e questo obiettivo è stato puntualmente realizzato.
3. Gli ambiti del sindacato giudiziale
Come premesso, la riforma ha “costretto” il giudice che all’esito del procedimento (non più regolato dal rito Fornero) riconosce l’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, ad attribuire al datore di lavoro la sanzione economica predeterminata, non senza avere previamente dichiarato estinto il rapporto sin dalla data del licenziamento. Se restano dunque invariati i presupposti della legittimità del recesso, su cui l’esame giudiziale potrà muoversi secondo le ordinarie e sperimentate direttrici, è nella fase della determinazione della sanzione che la sua discrezionalità viene del tutto annullata, con una spinta al ribasso che tra l’altro rende oltremodo appetibile per il lavoratore che impugna il licenziamento, l’offerta di conciliazione regolata dall’art. 6 del d.lgs n.23 che gli consentirà di evitare il giudizio, e l’alea conseguente, con l’accettazione di una somma pari alla metà dell’importo conseguibile con la sentenza, per di più non assoggettata a tassazione.
Le ipotesi di reintegra sono decisamente residuali: la prima riguarda il licenziamento discriminatorio, nullo, o intimato in forma orale (art. 2); la seconda, le sole ipotesi di insussistenza del fatto materiale in caso di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo (art. 3, co.2).
Quanto al licenziamento discriminatorio, questo già dalla riforma Fornero aveva assunto la dignità di categoria autonoma, non più sovrapponibile, e confondibile, con altre ipotesi di nullità, quale quella del licenziamento basato su motivo illecito determinante ex art. 1345 cc.
La posizione del Legislatore sembra allontanarsi dall’orientamento costante della Cassazione, che ancora di recente ha mostrato di non voler distinguere le ipotesi di licenziamento discriminatorio da quelle di licenziamento ritorsivo, richiedendo anche per il primo al lavoratore licenziato la prova della sussistenza del motivo di discriminazione come esclusivo fattore di determinazione del recesso[9]. Ma il diritto antidiscriminatorio sconfessa questo tipo di approccio, perché per dato costante, da sempre ribadito dalla giurisprudenza europea, ai fini del riconoscimento della discriminatorietà dell’atto risulta sostanzialmente irrilevante l’intento soggettivo dell’agente: quel che rileva è l’effetto discriminatorio in sé, riferibile ad uno dei fattori di rischio social-tipici, ossia l’appartenenza ad una delle categorie individuate dalla normativa[10].
La ricaduta del riconoscimento del carattere discriminatorio del licenziamento, sta nel diverso oggetto dell’accertamento giudiziale, che dovrà riguardare l’esistenza di un trattamento differenziato in danno del soggetto che agisce, rispetto all’elemento di comparazione che non è portatore dello stesso fattore (tipico) di rischio. Il tutto, a seguito della constatazione in termini meramente oggettivi degli effetti dell’agire datoriale, che non potrà sfuggire al riconoscimento della sua discriminatorietà se non in presenza di specifiche e dimostrate cause di giustificazione.
La particolarità della materia, che peraltro è oggetto da tempo di studi approfonditi che hanno raggiunto conclusioni pressoché unanimi sui punti qualificanti della disciplina, impone però alla giurisprudenza un doveroso sforzo di approfondimento che porti al superamento alle incrostate posizioni sin qui registrate. Tra l’altro, l’esame del contesto aziendale in cui è maturata la denunciata discriminazione, e delle stesse cause di giustificazione dell’imprenditore che ne è accusato, affida al giudice la potestà di compiere un penetrante esame anche relativamente al merito delle scelte gestionali.
In definitiva, sembra davvero che nei fatti si stia avverando la risalente profezia di Fausta Guarriello, che nel diritto antidiscriminatorio individuava l’ultimo baluardo di un sistema di garanzie giuridiche che «perde sempre più di peso rispetto agli imperativi dell’economia, l’estremo argine di protezione verso una possibile rimercificazione del lavoro»[11]: allora tocca anche ai giudici attrezzarsi culturalmente per poter attribuire a questa specifica materia una effettività che sinora – nel panorama dell’universalismo delle tutele contro il recesso illegittimo – non si è pienamente esplicata.
Il decreto legislativo n.23 nel provvedere al mantenimento delle ipotesi di tutela reintegratoria cd. piena affianca al licenziamento discriminatorio quello «riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge». Nell’utilizzo di una formula così asciutta il Legislatore sembra avere sconfessato la soluzione adottata nel 2012 dalla Riforma Fornero, ove, al comma 42 dell’art. 1 al licenziamento discriminatorio si affiancavano le ipotesi di licenziamento «riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice civile», restringendo notevolmente le applicazioni della reintegra a cui sarebbero estranei i casi di ritenuta violazione della normativa civilistica di stampo generale (artt. 1418, 1343, 1344, 1345 cc.), passibili della più tenue sanzione riservata alle ipotesi di giusta causa o di giustificato motivo. In altro articolo di questo Obiettivo[12] si procede all’analisi delle prime voci dottrinali che richiamano l’interprete alla necessità di approntare una tutela reale nei confronti delle violazioni più macroscopiche della normativa imperativa, che si sostanzino in altri termini in un uso distorto del potere imprenditoriale al fine di pervenire al licenziamento: un abuso che abbia portato alla intimazione di un licenziamento palesemente pretestuoso, arbitrario, contrario alle norme inderogabili che ancora vincolano il datore di lavoro. Spetta ora agli interpreti farsi carico di dare corpo ad un orientamento così acuto, e così rispettoso di quella che è l’ispirazione costituzionale del diritto del lavoro.
Così come saranno i giudici, nella fase applicativa delle nuove norme, a valutare la consistenza dei dubbi di costituzionalità che già si profilano in relazione alla nuova disciplina del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo: perché se di qui in avanti basta contestare ad un dipendente un qualsiasi fatto materiale, purché sussistente, anche se irrilevante, per ottenere la risoluzione del rapporto di lavoro (il ritardo di pochi minuti, il mancato saluto al capo, l’errore minimo nell’esecuzione della prestazione), nello spregio totale delle previsioni dei codici disciplinari e dei contratti collettivi, ci si trova di fronte ad una evidente irrazionalità di sistema, che ancora una volta affida ad una parte soltanto un potere sostanzialmente incontrollabile sulle sorti del rapporto[13]. Ciò che va ben al di là delle generali regole che sovrintendono all’autonomia privata, per cui «Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza» (art. 1455 cc).
Né possono tacersi gli “strappi” normativi a proposito del regime della suddivisione degli oneri della prova, che sono messi in risalto dal testo delle norme laddove si impone al lavoratore di provare “direttamente” in giudizio l’insussistenza di quel fatto per cui è stato licenziato, se vuole aspirare ad essere reintegrato nel posto. Una probatio diabolica proprio in quanto riguardante un fatto negativo, che anche sotto questo ulteriore profilo finisce per mettere il lavoratore in una posizione di svantaggio che davvero pare poco giustificabile in base ai generali canoni non solo costituzionali, ma addirittura codicistici.
Allora sarà interessante assistere alla riflessione che si aprirà nelle aule giudiziarie, e verificare se nell’applicazione delle norme che in termini così espliciti e determinati segnano lo spostamento del baricentro dell’equilibrio negoziale, si terrà conto del forte allontanamento dal rispetto del principio di eguaglianza (formale e sostanziale) che per esempio, in caso di licenziamenti collettivi che hanno coinvolto lavoratori assunti prima e dopo lo “spartiacque” del 7 marzo 2015, si verificherà nell’applicare rimedi diversi (la reintegra per chi ha diritto all’applicazione della legge n.92/2012, la semplice tutela economica per chi invece è stato assunto in forza del Jobs Act)[14]. Più in generale, sarà stimolante mettere a confronto dei fatti quella corrente di pensiero critico secondo cui nella materia dei licenziamenti il Legislatore del 2015 si è mosso in una sorta di “cono d’ombra del diritto europeo”[15], in cui ci si è sentiti svincolati da ogni attenzione al principio di eguaglianza, ed in cui soprattutto il sistema sanzionatorio è ben lontano dal rivestire una effettiva capacità dissuasiva e sanzionatoria (oltre che ristoratrice del danno patito).
È evidente che la scelta legislativa mira a fare della reintegra una sanzione del tutto residuale, limitata ad un numero assolutamente esiguo di ipotesi, ed esclusa completamente nel caso di licenziamento per ragioni economiche: ma questo imperativo non può soffocare ogni interrogativo di compatibilità di sistema, laddove il recesso datoriale risulti non solo carente di giusta causa o di giustificato motivo, ma più macroscopicamente lesivo di principi di rango superiore, e di forza cogente.
Resta affidato ai giudici quindi, anche con il riscontro delle Corti sovranazionali, il compito di riportare il sistema a canoni di eguaglianza, e di ragionevolezza: in ogni caso, a dare ancora al diritto del lavoro quel senso di “norma di civiltà” che non potrà mai soccombere alla contingente scelta (contro)riformatrice.
È dunque l’occasione anche per una più ampia riflessione sul ruolo delle corti nella difesa dei diritti sociali, dopo le torsioni di questi anni che per le ragioni del risanamento dei bilanci nazionali hanno giustificato i sacrifici ed i tagli alla spesa pubblica, con il conseguente impoverimento del sistema di protezione sociale che addirittura aveva costituito l’elemento costitutivo e qualificante del modello europeo. Dalle analisi[16] di quanto negli ultimi anni, a diversi livelli, è successo, non potrà non rimarcarsi il fondamentale apporto delle giurisprudenze nella costruzione di una linea (per quanto tortuosa, ed a volte frammentata) di resistenza alle ragioni predominanti dei bilanci e delle economie. Noi su queste linee di tendenza, accanto all’analisi delle politiche del diritto, riteniamo di dover tenere accesa l’attenzione di questa Rivista, e dei suoi lettori: anche per contribuire a costruire un futuro che dei diritti e delle tutele nel lavoro non può fare a meno se davvero vuole promuovere progresso ed eguaglianza.
[1] A proposito di come a questo si sia proceduto, quantomeno nei confronti del lavoro autonomo, v. in questo Obiettivo A.Mezzacapo, La nuova figura delle “collaborazioni organizzate dal committente”. Prime osservazioni.
[2] V.Speziale, Le politiche del lavoro del governo Renzi: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline dei rapporti di lavoro, in WP C.S.D.l.E. “Massimo D’Antona”.IT – 233/2014.
[3] Così A.Perulli, Il contratto a tutele crescenti e la Caspi: un mutamento di “paradigma” per il diritto del lavoro?, in l.Fiorillo – A Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi, Giappichelli, Torino, 2015, p.3 ss.
[4] Nell’ambito di questo Obiettivo, si veda il saggio di l. Pacelli, Regole, mercato, sviluppo: il punto di vista dell’economista del lavoro.
[5] Si rimanda al saggio di G. Orlandini, La via italiana alla flexicurity: la riforma degli ammortizzatori sociali nel Jobs Act.
[6] In proposito, si richiama l’articolo di A.Lassandari in questo Obiettivo, La riforma del lavoro del Governo Renzi ed il sistema di relazioni sindacali.
[7]Così l.Zoppoli, Contratto a tutele crescenti e altre forme contrattuali, in Studi in onore di Raffaele De Luca Tamajo.
[8] V. R. Del Punta, Il giudice del lavoro tra pressioni legislative e aperture di sistema, in Riv.it. dir. lav., 2012, I, p.461.
[9] Tra le tante conformi, si vedano da ultimo Cass., n.3986/15, «Non può considerarsi ritorsivo un licenziamento palesemente (anche se erroneamente) basato sull’inosservanza di direttive aziendali, qualora manchi la prova, il cui onere incombe sul lavoratore, della sussistenza di un motivo illecito determinante. (Nella specie, la S.c. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento disciplinare adottato in violazione dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, escludendone, tuttavia, la natura discriminatoria, in assenza della allegazione e prova del motivo illecito determinante)»;
Cass., n.17087/11, «Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 - costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni. (Nella specie, la sentenza impugnata è stata cassata dalla S.c. la quale ha valutato come ritorsivo il licenziamento disciplinare della figlia rispetto alle rivendicazioni del padre, dipendente della medesima impresa, e al successivo contenzioso insorto)»;
Cass., n.6282 del 2011, «Il divieto di licenziamento discriminatorio – sancito dall’art. 4 della l. n. 604/66, dall’art. 15 Statuto, dall’art. 3 l. 108/90 – è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o per rappresaglia, che costituisce cioè l’ingiusta ed arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa. In tali casi, tuttavia, è necessario dimostrare che il recesso sia stato determinato esclusivamente dall’intento ritorsivo»;
Cass., n. 16925/11, «Il licenziamento discriminatorio, sancito dalla l. n. 604 del 1966, art. 4, dalla l. n. 300 del 1970, art. 15, e dalla l. n. 108 del 1990, art. 3, è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, attuati a seguito di comportamenti risultati sgraditi all’imprenditore, che costituisce cioè l’ingiusta ed arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa (Cass. sez. lav., 18.3.2011 n. 6282). A ciò si è pervenuto sia attraverso una estensione dell’area dei singoli moventi vietati dalla citata l. n. 604 del 1966, art. 4, sia consentendo la verifica del motivo illecito, che abbia avuto efficacia esclusiva nella determinazione della volontà del recedente (Cass. sez. lav., 3.5.1997 n. 3837)».
[10] In tema di discriminazione sessuale, i due testi fondamentali sono rappresentati dalla l. n.903/1977, «Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro», e dalla l. n.125/1991, «Azioni positive per la realizzazione della parità uomo – donna nel lavoro», successivamente modificati sino alla redazione del cd «Codice delle pari opportunità» contenuto nel d.lgs n. 198/2006, modificato ancora nel 2010 con il d.lgs n.5. Quanto alla discriminazione per motivi di razza o di origine etnica, si veda l’art. 43 d.lgs n.286/1998, «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», che fissa la nozione di «discriminazione basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose», a cui farà seguito il d.lgs n. 215/2003 in attuazione della direttiva 2000/43/CE «per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica». Quanto alla discriminazione basata sulla religione, sulle convinzioni personali, sull’handicap, sull’età o sull’orientamento sessuale, «in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini, essa trova disciplina nel d.lgs n.216/2003, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro». Infine sul divieto di discriminazione nei confronti degli ammalati di AIDS, la l. n.135/90, all’art. 5, 5° co. sancisce: «l’accertata infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione, in particolare… per l’accesso o il mantenimento di posti di lavoro”».
[11]F.Guarriello, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, in DLRI, 2003, p.347.
[12] V. in questo Obiettivo, C.Ponterio, Licenziamento illegittimo per assenza di giustificato motivo oggettivoe licenziamento pretestuoso.
[13] Cfr. più avanti, R.Riverso, in questo Obiettivo, La nuova disciplina dei licenziamenti disciplinari nel cd. Jobs Act
[14] V. S.Giubboni, A.Colavita, in questo Obiettivo, I licenziamenti collettivi dopo le controriforme.
[15] V. F.Buffa, in questo Obiettivo, La compatibilità del contratto a tutele crescenti con il diritto europeo.
[16] Si rimanda alla lettura dei due saggi presenti in questo Obiettivo, rispettivamente di A.Albanese e di G.Bronzini.