Luci ed ombre nella tutela dei diritti davanti al giudice amministrativo
L’Autore evidenzia i rischi e le anomalie di un sistema giurisdizionale nel quale due diverse autorità giurisdizionali esercitano un sindacato che ha progressivamente raggiunto un identico oggetto, sebbene con limitazione ratione materiae, stante il crescente ampliamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che ha modificato l’equilibrio tra le giurisdizioni su cui si reggeva originariamente l’art. 113 Cost. Infatti, sui diritti soggettivi possono sindacare, oggi, quali giudici di ultima istanza, sia la Corte di cassazione sia il Consiglio di Stato (nell’ambito della sua giurisdizione esclusiva), con possibilità di divergenze interpretative che non è possibile comporre per la mancanza di strumenti istituzionali che consentano il coordinamento tra le due giurisprudenze, vista la limitata ricorribilità in Cassazione (alle sole questioni di giurisdizione) delle sentenze del Consiglio di Stato nelle controversie sui diritti soggettivi nei confronti dell’Amministrazione pubblica.
1. Verso una sovrapposizione delle giurisprudenze in tema di diritti?
Gli sviluppi che negli ultimi venticinque anni hanno caratterizzato l’estensione della giurisdizione amministrativa nella tutela dei diritti hanno prodotto nel nostro ordinamento situazioni sostanzialmente nuove, difficilmente inquadrabili nei modelli precedenti. Questa vicenda sembra apparentemente trascurata dalla giurisprudenza costituzionale che, di fronte alla sfida che la giurisdizione amministrativa sui diritti evidenzia rispetto al criterio di riparto sancito negli artt. 102 e 111 Cost., ha preferito operare secondo una logica ‘arbitrale’, di bilanciamento del peso del ruolo delle giurisdizioni.
La Corte costituzionale ha così circoscritto gli effetti della riforma degli anni 1998/2000[1], invocando una nozione tutt’altro che univoca, quella di ‘potere amministrativo’ e proponendo su questa base una rilettura dell’art.102 Cost., ma nello stesso tempo ammettendo e approvando l’assegnazione al giudice amministrativo del contenzioso sulla responsabilità per lesione di interessi legittimi[2]. In particolare la pronuncia della Corte costituzionale del 2004 ha realizzato un’operazione singolare che, in formale ossequio dell’art. 103 Cost. e della tradizione recepita nella disposizione costituzionale, ha in realtà rinnovato rispetto all’assetto della giurisdizione amministrativa, riproponendo schemi che alludono piuttosto alla logica della distinzione fra atti di imperio e atti di gestione che era stata superata un secondo prima. In questo stesso senso può essere letta anche la successiva pronuncia della Corte costituzionale[3] che ha elaborato una nozione formalmente contraddittoria, quella dell’atto riconducibile ‘mediatamente’ all’esercizio del potere, per cercare di individuare una linea di confine fra giurisdizione amministrativa sulle vicende oblatorie e giurisdizione civile sul diritto di proprietà, ma in realtà introducendo una oggettiva petizione di principio. La direzione seguita dalla Corte costituzionale si è poi esplicitata nella sentenza 27 aprile 2007, n.140, che ha ridimensionato la figura dei diritti costituzionalmente garantiti, ignorando che il nucleo di un diritto é definito anche dagli strumenti per la sua tutela giurisdizionale, e che ha prospettato una separazione tendenziale fra il livello delle situazioni soggettive e il livello delle giurisdizioni, come se in realtà il processo amministrativo non avesse una sua identità costruita proprio sugli interessi legittimi.
Rispetto a questo quadro la possibilità di sovrapposizione di giurisprudenze e di soluzioni diverse rispetto a questioni identiche diventa un rischi sempre più concreto, con effetti non adattabili alla fisiologia di un sistema. D’altra parte già la tendenza formalmente riconosciuta dalla legge (ma tutt’altro che radicata in profondità nell’ordinamento) per una intensa contaminazione fra diritto amministrativo e diritto privato rende più concreta la sovrapposizione delle giurisprudenze.
2. Il ruolo della Cassazione nell’articolo 111 Costituzione
I problemi sollevati da questa sovrapposizione non sono risolti dalle disposizioni sull’ambito della giurisdizione esclusiva: si tratta infatti di disposizioni che individuano una linea del reparto (diversa da quella generale), ma non stabiliscono nulla sulle modalità di esercizio della giurisdizione amministrativa. Una soluzione non può essere rappresentata neppure dalla tesi che ammette, in ipotesi peraltro non ben definite, uno spostamento della giurisdizione per ragioni di connessione: prescindendo qui dalla considerazione che le giurisdizioni superiori continuano a negare formalmente la possibilità di un tale spostamento (altro discorso, a ben vedere, è se esso non venga comunque praticato in vari casi), va osservato che anche una soluzione del genere finirebbe col risultare non decisiva. Anzi, nella misura in cui l’unificazione delle giurisprudenze verrebbe attuata in presenza di una circostanza contingente (rappresentata dalla connessione fra più domande), si determinerebbe un’estensione dei margini di incertezza e non un loro ridimensionamento.
Il problema attiene, a ben vedere, all’interpretazione del ruolo della Cassazione ai sensi dell’art. 111, 7° comma, Cost. Si tratta, come è noto, di uno dei profili già sottoposti alla Corte costituzionale in riferimento all’art. 7 della legge n. 205/2000 e che la Corte, nella sentenza del 2004 già richiamata, preferì eludere (cfr.§ 3.3 della sentenza). Da allora si è assistito alla elaborazione di ipotesi ricostruttive che ampliano il sindacato della Cassazione sulle pronunce del Consiglio di Stato in tema di diritti. Alcune di queste proposte sembrano aver fatto breccia nella giurisprudenza della Cassazione, per lo meno a far tempo dalla estensione della nozione di ‘diniego di giustizia’ operata dalla Sezioni Unite in occasione del dibattito sulla cd pregiudizialità amministrativa[4]. È stato obiettato che in questo modo viene forzata la portata della disposizione costituzionale, che assicura al Consiglio di Stato (e alla Corte dei conti) una immunità dagli indirizzi della Cassazione in tema di interpretazione della legge. L’obiezione è senz’altro fondata, ma ciò non toglie che l’ampliamento della giurisdizione esclusiva abbia modificato anche l’equilibrio stesso su cui si reggeva l’art. III Cost., rendendo molto più frequente situazioni che invece, all’epoca di elaborazione del testo costituzionale, sembravano destinate a rimanere sporadica, e cioè che il Consiglio di Stato si pronunciasse su questioni propriamente di diritto civile.
3. Giurisprudenze discordanti sui diritti e difficoltà di coordinamento
Il quadro attuale ammette dunque che sulle questioni di diritto civile, nell’ambito delle rispettive giurisdizioni, si possano pronunciare, quali giudici di ultima istanza, la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato. Nessuno strumento istituzionale consente di assicurare un coordinamento fra le due giurisprudenze. Nello stesso tempo il rapporto fra le due giurisprudenze si svolge secondo modelli non agevolmente decifrabili.
Va subito dato atto che, nella maggior parte dei casi, la giurisprudenza del Consiglio di Stato su questioni di diritto civile si attiene agli indirizzi della Cassazione civile. In questo modo viene circoscritto il peso del diritto civile ‘speciale’ dell’amministrazione, con un esito che non può essere risolto in termini meramente descrittivi, ma che contribuisce a rafforzare la convinzione che il diritto speciale sia di problematica compatibilità con il principio costituzionale d’eguaglianza, o per lo meno richieda una giustificazione concreta e apprezzabile. Da un punto di vista diverso, ma non meno significativo, il richiamo alla giurisprudenza della Cassazione consente al Consiglio di Stato di inserire la sua pronuncia in un circuito motivazionale più ampio, che rende superfluo un approfondimento critico. Si tratta di considerazioni che toccano un altro livello, quello della motivazione della pronuncia giurisdizionale nel nostro sistema giuridico e al rilievo che riveste in una pronuncia il riferimento a precedenti conformi.
Queste considerazioni rendono ancora più significativi i casi in cui il giudice amministrativo si discosta, nell’interpretazione di regole civilistiche, dalla giurisprudenza del giudice civile. In queste occasioni, infatti, emerge una posizione autonoma della giurisprudenza amministrativa che sarebbe improprio e riduttivo ricondurre al modello del diritto civile ‘speciale’, costruito a beneficio dell’amministrazione pubblica.
Per esempio, la giurisprudenza amministrativa esclude che possano maturare a carico del debitore principale le sanzioni previste per il ritardo nel pagamento del contributo di costruzione, ove l’amministrazione non abbia cercato preventivamente di escutere il fideiussore[5]. In questo modo, però, si finisce con l’introdurre surrettiziamente in onere di preventiva escussione del fideiussore che non trova fondamento nella legge. La soluzione accolta dal giudice amministrativo, comunque, non va a beneficio degli interessi della parte pubblica, ma va piuttosto a beneficio del privato.
Non vanno dunque generalizzate le conclusioni in merito a una giurisprudenza amministrativa molto ‘comprensiva’ delle ragioni dell’amministrazione, che sono suggerite invece dall’esame della medesima giurisprudenza in altri contesti, come in tema di riconoscimento del trattamento economico corrispondenti all’esercizio di mansioni superiori nel periodo precedente all’entrata in vigore del d. lgs 29 ottobre 1998, n.387[6]. Nel caso della fideiussione per il contributo di costituzione, il rigore dell’interpretazione giurisprudenziale appare opinabile, ma ciò non deve giustificare generalizzazione: semmai induce a riflettere più in profondità sulla concezione del rapporto fra giudice e legge che è espressa in queste posizioni. Il peso che assumono considerazioni equitative appare diverso, rispetto all’una e all’altra giurisprudenza, e ciò pone in luce concezioni differenti del ruolo del giudice e del significato della funzione giurisdizionale. In ultima analisi anche il carattere cogente della legge rispetto alla giurisdizione sembra essere interpretato, almeno in alcuni casi, con accenti non omogenei.
L’espressione più evidente di queste giurisprudenze ‘parallele’ riguarda la responsabilità dell’amministrazione per lesione di interessi legittimi. Come è noto, la soluzione accolta dalle Sezioni Unite nel 1999 esprimeva anche un bilanciamento operato dal giudice rispetto all’assetto ricavabile dal quadro civilistico, e ciò era manifesto non solo attraverso il rilievo assegnato alla nozione del cd bene della vita, ma anche (e soprattutto) nella ricostruzione dell’elemento soggettivo. Il modello elaborato egli anni successivi dalla giurisprudenza amministrativa risulta significativamente diverso: pur essendo invocato sempre l’art. 2043 cc (come è reso evidente, per esempio, dalle soluzioni accolte rispetto alla disciplina della prescrizione), l’assetto elaborato dalla giurisprudenza appare sempre più lontano dal testo della legge. Si pensi, in particolare, alla rilevanza attribuita al tema dell’errore scusabile[7], che è un elemento non rilevante nella disposizione del codice invocata anche dal giudice amministrativo, e la cui introduzione rispecchia la convinzione del giudice di poter definire direttamente l’equilibrio primario degli interessi contrapposti in gioco, e cioè di occupare uno spazio che, in un sistema come il nostro, dovrebbe essere ricoperto tipicamente dalla legge. Naturalmente, poi, rispetto a questo quadro, caratterizzato da iniziative ardite del giudice che hanno un fondamento ideologico ben più diretto del fondamento normativo, l’intervento di giudici sovranazionali può essere molto più invasivo, proprio perché l’ideologia del giudice è un fattore che rileva soprattutto secondo linee interne e che può difficilmente si comunica a giudici di ordini così diversi. Le soluzioni che hanno un fondamento ideologico sono le prime a cadere sotto la scure del giudice europeo, come appunto evidenzia la vicenda recente della responsabilità dell’amministrazione in tema di appalti pubblici.
Conclusioni
Le considerazioni che ho esposto non implicano in alcun modo un giudizio negativo sul merito della giurisprudenza in materia civile del Consiglio di Stato che si distacchi da quella della Cassazione.
Almeno in alcuni casi la giurisprudenza amministrativa ha saputo argomentare le sue soluzioni divergenti in termini ben più convincenti di quanto non abbia fatto la Cassazione per giustificare le soluzioni da essa stessa adottate (si pensi, in materia processuale, alla giurisprudenza del Consiglio di stato sulla sospensione volontaria del giudizio). Viene quindi naturale ipotizzare anche un effetto virtuoso della possibilità di due giurisprudenze ‘parallele’, effetto virtuoso rappresentato, per i giudici di ultima istanza, dal confronto ineludibile con una giurisprudenza diversa, non espressa però da un organo inferiore, e perciò oggettivamente molto autorevole.
In realtà rimane senza risposta l’interrogativo centrale, che induce a ritenere insostenibile la soluzione che ammetta che una stessa disposizione possa valere in due modi diversi solo per il fatto che le vertenze pendono davanti a giurisdizioni diverse. Una soluzione del genere è inaccettabile a maggior ragione perché nel caso della giurisdizione amministrativa una parte in causa è in genere un soggetto pubblico, con la conseguenza che la distinzione sul piano soggettivo finirebbe col determinare anche la regola applicabile, e che per l’amministrazione si profilerebbe, in ambito civilistico, un regime sostanziale se non ‘privilegiato’, per lo meno ‘differenziato’.
Il tema, nei suoi termini generali, sollecita una rimeditazione dell’assetto attuale, articolato su giurisdizioni diverse e però, nello stesso tempo, sempre più vicine e ‘interferenti’. Altrimenti il sistema della tutela giurisdizionale dovrà continuare a tollerare deroghe non marginali alle ragioni della uniformità nell’interpretazione della legge.
[1] d.lgs 31 marzo 1998, n. 80, e l. 21 luglio 2000, n. 205.
[2] Corte cost. 6 luglio 2004, n. 204.
[3] Corte cost. 11 maggio 2006, n. l. 91.
[4] Cass. sez. un. 13 giugno 2006, n. 13659.
[5] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 21 novembre 2014, n. 5734; Cons. Stato, sez. I, 17 maggio 2013, n. 11663/12; ecc..
[6] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2014, n.2528.
[7] Su cui cfr., in senso critico, Trimarchi Banfi, La responsabilità civile per l’esercizio della funzione amministrativa, Torino 2009.