I licenziamenti collettivi dopo le controriforme
Proprio sul fronte della disciplina del licenziamento collettivo la controriforma attuata nelle due tappe del 2012 e del 2015 finisce per scaricare le sue più evidenti contraddizioni e incoerenze sistematiche. Lo sdoppiamento del regime delle conseguenze della ritenuta illegittimità del licenziamento, a seconda della data di assunzione dei lavoratori coinvolti, secondo l’alternativa fra reintegra e tutela meramente indennitaria, presenta un evidente deficit di razionalità e solleva legittimi dubbi di incostituzionalità .
È difficile, e forse impossibile, individuare oggi una ratio unitaria nella disciplina dei licenziamenti collettivi. Già la legge n. 92 del 2012, nel ridisegnare l’apparato rimediale apprestato contro i licenziamenti collettivi illegittimi per armonizzarlo alla nuova formulazione dell’art. 18 St. lav., aveva significativamente incrinato la possibilità di continuare a fare affidamento sulla sistemazione della materia faticosamente raggiunta da dottrina e giurisprudenza in oltre venti anni di esercizi interpretativi e applicativi sulla riforma del 1991[1]. Ma oggi quella possibilità di unitaria sistemazione sembra venire senz’altro meno a seguito della assai discussa scelta compiuta dal d.lgs n. 23 del 2015 di sdoppiare la disciplina dei licenziamenti collettivi (ancora una volta sotto il solo profilo rimediale), differenziandola, senza alcuna adeguata giustificazione sostanziale, a seconda della data di assunzione dei lavoratori coinvolti (se anteriore o successiva a quella di entrata in vigore del decreto attuativo della delega conferita dalla legge n. 183 del 2014, comunicata al largo pubblico con l’ormai celebre americanismo, di dubbia ascendenza obamiana, del «Jobs Act»).
La figura – notoriamente composta, nell’originaria costruzione della legge n. 223 del 1991, dalle due fattispecie del collocamento in mobilità (cioè del licenziamento di uno o più dipendenti sospesi per intervento della Cassa integrazione guadagni straordinaria, ai quali l’impresa non possa garantire il rientro in azienda) e del licenziamento collettivostricto sensu(cioè del licenziamento di un certo numero di lavoratori in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, ovvero in caso di cessazione di attività) –, ha subìto una nominale reductio ad unum con la legge n. 92 del 2012, che ha però scomposto, come già fatto in via generale per il licenziamento individuale dal nuovo art. 18, i rimedi attivabili a seconda della natura del vizio di illegittimità. Soppressa, almeno sul piano formale, la fattispecie del collocamento in mobilità, attraverso un’opera di revisione lessicale che fa scomparire dalle varie disposizioni della legge del 1991 i riferimenti letterali a tale sintagma, la legge n. 92 è intervenuta in profondità, oltre che sulle sanzioni, sulla disciplina della procedura del licenziamento collettivo. Ed ora il d.lgs n. 23 del 2015 si giustappone alla disciplina risultante dal combinato disposto della legge n. 223 del 1991 e della legge n. 92 del 2012, limitandosi a prevedere un regime sanzionatorio differenziato (i.e., fortemente attenuato e indebolito) per i soli nuovi assunti con il contratto di lavoro a cosiddette «tutele crescenti».
Nelle pagine che seguono daremo prima conto dei principali problemi applicativi della nuova disciplina dei licenziamenti collettivi, nel doppio regime parallelo derivante dalla giustapposizione delle due recenti riforme, per poi suggerire, nelle conclusioni, qualche considerazione critica sull’assetto incoerente e frammentato che ne è conseguito.
2. La revisione dei profili procedurali e sanzionatori del licenziamento collettivo nella legge n. 92 del 2012
Già le previsioni contenute nell’art. 1, commi 44-46, della legge n. 92 del 2012 hanno inciso in profondità sul consolidato assetto regolativo del licenziamento collettivo, alterando in maniera potenzialmente significativa gli equilibri (tra il momento collettivo e quello individuale della tutela) che si erano andati faticosamente costruendo dopo la riforma del 1991. Il potenziale innovativo della legge n. 92 del 2012 – come si è già avuto modo di osservare in precedente occasione[2] – può essere in tal senso apprezzato a due distinti livelli.
Ad un primo livello, che potremmo definire generale o «sistemico»[3], la legge Fornero – in specie laddove assorbe gradualmente nella (già nuova) assicurazione sociale per l’impiego (ASPI), ed ora nella NASPI di cui al d.lgs n. 22 del 2015, la tutela previdenziale di mobilità, nelle sue diverse proiezioni – ha modificato il contesto normativo entro il quale la legge n. 223 situava la disciplina delle riduzioni di personale, incidendo sullo strumentario messo a disposizione del sindacato, che ha visto nel complesso ridotte le capacità di scambio di cui nel previgente sistema disponeva nei confronti della controparte imprenditoriale, quantomeno nei settori coperti dalla cassa integrazione guadagni straordinaria. Oggi questo potere di scambio – certamente quello offerto dalla possibilità del ricorso alla risorsa pubblica della tutela previdenziale di mobilità – si è significativamente contratto[4], senza essere adeguatamente compensato né dalla nuova disciplina della NASPI, che è sotto diversi profili più rigorosa e restrittiva di quella dell’ASPI, né dal variegato panorama di strumenti di solidarietà mutualistico-collettiva, pure ridisegnati dalla legge n. 92, che hanno tutti lo svantaggio di essere interamente rimessi all’auto-finanziamento delle stesse imprese in crisi[5]. E se già tale mutamento – per quanto ineludibile nella prospettiva, invocata da decenni, di una complessiva razionalizzazione del frammentato e diseguale sistema corporativo degli ammortizzatori sociali italiani – non favorisce, di per sé, una gestione negoziata dei processi di riduzione del personale, ad irrigidire ulteriormente la dialettica degli interessi interviene ora, in potenza, lo stesso d.lgs n. 23 del 2015, visto che il rischio di cadere nel nuovo regime dimidiato del contratto a tutele crescenti indurrà quanti possono ancora invocare l’art. 18 St. lav., pur ridimensionato dalla legge Fornero, ad opporre una tenace resistenza ad ogni licenziamento che non sia congruamente incentivato.
Ad un secondo livello, che potremmo definire di «microsistema», che nella legge n. 92 si concretizza in una qualche semplificazione della disciplina procedurale del licenziamento collettivo e soprattutto nella attenuazione delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla sua violazione, l’effetto della riforma, già di quella voluta per l’appunto dalla legge Fornero, va nella direzione di un significativo depotenziamento delle tutele del lavoratore coinvolto in una riduzione di personale. Il d.lgs n. 23 del 2015 – dettando una disciplina unitaria dei licenziamenti economici, nella quale anche quelli collettivi sono senz’altro assorbiti nella regola generale del mero rimedio indennitario, applicabile quindi anche in caso di violazione dei criteri di scelta ex art. 5 della legge n. 223 – porta a compimento, o se si vuole a perfezionamento, tale processo di riduzione e arretramento (sistemico) delle tutele.
A tale livello di analisi, già il quadro normativo delineato dalla legge n. 92 del 2012 realizza una qualche contrazione degli spazi del controllo giudiziale e, comunque, una rilevante riduzione dello spessore dei rimedi attivabili da parte del lavoratore licenziato nell’ambito di una riduzione di personale. La legge n. 92, infatti, da un lato alleggerisce o comunque semplifica gli obblighi procedurali e di comunicazione gravanti sul datore di lavoro ex art. 4, legge n. 223 del 1991, e, dall’altro, riconnette alla loro inosservanza, in luogo di quella reintegratoria (piena), la tutela di tipo meramente indennitario-risarcitorio (sia pure nella sua variante «forte») rintracciabile nell’ambito della scomposizione dei rimedi ricadenti sotto l’ombrello applicativo del nuovo art. 18 St. lav.[6].
2.1. Vizi procedurali e potere sanante del contratto collettivo
La prima innovazione di rilievo introdotta dalla legge n. 92 del 2012 rafforza, peraltro, almeno in astratto, le prerogative sindacali nell’ambito della procedura (già) di mobilità, incentivando indirettamente l’imprenditore a raggiungere un accordo collettivo. Codificando un orientamento della giurisprudenza[7], l’art. 1, comma 45, legge n. 92 del 2012, nell’integrare il testo dell’art. 4, comma 12, legge n. 223 del 1991, stabilisce, infatti, che gli eventuali vizi della comunicazione di apertura della procedura, di cui al secondo comma della stessa disposizione, «possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo».
L’ambito di applicazione della disposizione (ed il consequenziale effetto sanante da essa visualizzato) risulta formulato in termini volutamente ampi. Qualunque vizio della comunicazione di apertura[8] (purché, evidentemente, un minimo sostrato informativo sia comunque rintracciabile) è all’apparenza sanabile – ad ogni effetto di legge – in presenza di un accordo collettivo concluso nell’ambito della procedura.
Si è discusso del problema degli accordi sindacali stipulati soltanto da alcune organizzazioni sindacali, con l’opposizione di altre, essendosi contrapposta alla tesi secondo la quale l’accordo collettivo gestionale avrebbe efficacia soggettiva generalizzata per tutti i dipendenti quella che, al contrario, considera l’accordo vincolante per i soli sindacati stipulanti ed i lavoratori ad essi iscritti. Sembra preferibile ritenere, anche alla luce di quanto è dato desumere dalla lettera della norma[9], che l’effetto sanante si produca anche ove l’accordo collettivo sia raggiunto separatimda una parte soltanto degli interlocutori sindacali[10], ai quali l’imprenditore deve indirizzare le informazioni di cui all’art. 4, comma 3, legge n. 223. La legge pare chiaramente implicare l’efficacia generale dell’accordo sindacale, che vedrebbe all’evidenza compromesso il proprio effetto, e la sua stessa specifica funzione, ove non precludesse a tutti i (e a ciascuno dei) lavoratori licenziati la possibilità di far valere in giudizio i vizi di comunicazione che esso intende per l’appunto sanare. Il che solleva, però, anche la consueta problematica circa la giustificazione d’una siffatta efficacia, la quale rimane tuttora risolvibile essenzialmente con il richiamo alla nota elaborazione giurisprudenziale in tema di contratti collettivi gestionali[11].
Gli esigenti requisiti di forma-contenuto dettagliatamente prescritti per la comunicazione con la quale il datore deve avviare la procedura rimangono perciò immutati, ma eventuali lacune o carenze non inficiano la legittimità del licenziamento – già espressamente considerato come propriamente inefficace, in tale evenienza, dall’art. 4, comma 12, della legge n. 223 – tutte le volte in cui, nell’ambito della procedura stessa, sia stato concluso un accordo sindacale di «sanatoria».
L’opportunità di stipulare o meno un siffatto accordo, come anche la determinazione del concreto contenuto del relativo effetto sanante, sono interamente rimesse alla negoziazione tra le parti. Nulla dice la norma sulle caratteristiche dell’accordo sindacale avente efficacia sanante, cosicché si è dibattuto se debba trattarsi di un accordo ad hoc, o se la sanatoria dei vizi possa essere inclusa nell’accordo di chiusura della procedura di mobilità. In realtà, la legge sembra solo implicare che l’accordo raggiunto nell’ambito della procedura esprima specificamente una siffatta volontà delle parti stipulanti. Onde è da condividere la tesi che non un accordo qualsiasi, comunque raggiunto all’esito della procedura, ma solo un accordo che sia (anche) specificamente ed espressamente diretto a sanare gli eventuali vizi della comunicazione datoriale ex art. 4, comma 2, legge n. 223 del 1991, sia idoneo a produrre l’effetto che ad esso ricollega ora l’art. 1, comma 45, legge n. 92 del 2012[12].
2.2. La nuova disciplina delle comunicazioni finali della procedura di licenziamento collettivo
Investe nuovamente il profilo procedurale della disciplina del licenziamento collettivo, con riferimento stavolta alle comunicazioni conclusive della procedura, la previsione contenuta nel comma 44 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012, che ha novellato il testo dell’art. 4, comma 9, legge n. 223 del 1991. La disposizione allenta il rigore degli obblighi procedurali gravanti sul datore di lavoro, stabilendo che questi possa effettuare la comunicazione finale alle organizzazioni sindacali e agli uffici pubblici indicati dall’art. 4, comma 9, legge n. 223, non più, come prima, «contestualmente» alla intimazione dei licenziamenti ai singoli lavoratori coinvolti nella riduzione di personale, ma nel termine perentorio di sette giorni dalla comunicazione dei recessi.
La modifica è senz’altro opportuna e del resto da tempo auspicata da molti osservatori[13], in quanto la rigoristica interpretazione del requisito della contestualità da parte della dominante giurisprudenza aveva finito per irrigidire eccessivamente tale vincolo formale[14], ben oltre quanto richiesto dalla pur essenziale esigenza, cui la norma è funzionale, di consentire (ai singoli lavoratori, oltre che ai soggetti sindacali e pubblici destinatari diretti della comunicazione) il controllo sulla «puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta» di cui all’art. 5, comma 1, della stessa legge n. 223. La fissazione di un ragionevole termine di sette giorni non indebolisce tale funzione, ma si limita a bilanciarla in modo più appropriato con le esigenze organizzative del datore di lavoro[15], senza consegnare a quest’ultimo un eccessivo spazio temporale – come pure si è paventato – «per un adattamento dei criteri a misura delle scelte già compiute»[16].
È nondimeno innegabile come anche tale innovazione incida – ridimensionandolo – sul peso vincolante degli obblighi procedurali, sui quali si è tradizionalmente concentrato il controllo del giudice, che, per consolidata giurisprudenza, investe, unitamente al profilo del rispetto dei criteri di selezione ex art. 5, legge n. 223 del 1991, soltanto il quomodo del licenziamento collettivo[17].
2.3. Il nuovo regime sanzionatorio nella legge n. 92 del 2012
Il ridimensionamento del rilievo delle forme procedimentali – essenziali in vista del corretto esercizio dei poteri di controllo affidati ex ante al sindacato – si estende, del resto, anche al profilo sanzionatorio. Non meno incisive, nel disegno complessivo della legge Fornero, risultano, infatti, le previsioni (contenute nell’art. 1, comma 46) che, nel raccordare la disciplina del licenziamento collettivo alla nuova articolazione delle tutele offerte dall’art. 18 St. lav., riscrivono il regime sanzionatorio applicabile anche in subiecta materia, declassando proprio il rilievo delle violazioni delle regole procedimentali[18].
Ai sensi dell’art. 5, comma 3, legge n. 223 del 1991, come novellato dalla richiamata disposizione della legge n. 92 del 2012, la violazione delle procedure[19] viene ora sanzionata con l’obbligo del pagamento della indennità risarcitoria onnicomprensiva da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione, così come prevista dal quinto comma del nuovo art. 18. Solo per la violazione della forma scritta rimane, come per il licenziamento individuale, la previsione dell’applicazione della tutela reintegratoria piena, quale regolata dal primo comma del nuovo testo dell’art. 18 St. lav. (giusta il rinvio ad esso operato dall’art. 5, comma 3, legge n. 223 del 1991, come novellato dall’art. 1, comma 46, legge n. 92 del 2012)[20].
La previsione del solo rimedio indennitario-risarcitorio – sia pure nella sua versione forte – è senz’altro coerente con la linea di «discutibile svalutazione dei vizi di carattere formale (licenziamento orale a parte) o procedurale rispetto a quelli di carattere sostanziale»[21], che impronta nel suo complesso la legge n. 92 del 2012. Ed è vero che i vizi procedurali del licenziamento collettivo vengono sanzionati più severamente, proprio in considerazione del superiore rango degli interessi protetti, di quanto non accada per quelli relativi al licenziamento individuale, cui è riservata la indennità risarcitoria nella misura dimidiata regolata dal comma 6 del nuovo art. 18 St. lav.; onde – come è stato osservato – «la sanzione del vizio procedimentale del licenziamento collettivo è equiparata a quella del vizio di ingiustificatezza semplice del licenziamento individuale»[22].
Sennonché tale osservazione sottovaluta il rilievo essenziale che i vincoli procedimentali hanno tradizionalmente rivestito nel licenziamento collettivo, che – diversamente da quanto accade per il licenziamento individuale (ora anche per giustificato motivo oggettivo, ai sensi del nuovo testo dell’art. 7, legge n. 604 del 1966) – nella sistematica della legge n. 223 del 1991 svolge un ruolo assorbente nel sindacato giudiziale, dal quale la giurisprudenza ha sostanzialmente espunto il profilo causale della fattispecie. Ne consegue che la svalutazione del rilievo dei vizi (e, a monte, degli obblighi) procedimentali è potenzialmente suscettiva di un’incidenza decisamente maggiore sul licenziamento collettivo, forse non adeguatamente compensata dalla opzione per la tutela indennitaria nella misura piena di cui all’art. 18, comma 5 (nuovo testo). A rigore, si potrebbe anzi dire che la sanzione della inefficacia – in senso proprio (i.e., dell’inidoneità dell’atto a produrre l’effetto estintivo del rapporto) – del licenziamento collettivo proceduralmente viziato fosse l’unica coerente con quella impostazione sistematica, l’asserita essenzialità del controllo sindacale risultando evidentemente contraddetta dalla scelta di collegare alla sua violazione conseguenze meramente indennitarie[23].
Resta invece ferma – nell’impianto della legge n. 92 del 2012 – la tutela reintegratoria (seppure nella versione «depotenziata regolata dall’art. 18, comma 4»)[24] per il caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori licenziati ex art. 5 della legge n. 223 del 1991. In tal caso, è a quanto sembra l’analogia con l’ipotesi della ingiustificatezza «qualificata» del licenziamento individuale ex art. 18, comma 4, St. lav., ad aver correttamente suggerito al legislatore – in quella occasione – di fare ancora ricorso alla tutela reale, sia pure nella versione attenuata sul piano degli effetti risarcitori. Ed invero, il licenziamento che sia intimato in violazione dei criteri (contrattuali o legali) di scelta, sia pure all’esito di una procedura svoltasi nel pieno rispetto degli obblighi di cui all’art. 4 della legge n. 223, si risolve, a ben vedere, in un atto di recesso individuale effettivamente ingiustificato[25].
3. Contratto a tutele crescenti e licenziamento collettivo nel d.lgs n. 23 del 2015
Se già la legge n. 92 del 2012 aveva incrinato, per quanto appena osservato, la tenuta della lettura sistematica della disciplina del licenziamento collettivo ex lege n. 223 del 1991 fatta propria da dottrina e giurisprudenza prevalenti, ad esiti del tutto irriducibili a una qualche possibilità di unitaria ricostruzione dogmatica della fattispecie conduce invece la più recente innovazione di cui all’art. 10 del d.lgs n. 23 del 2015.
La disposizione completa la disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti – di attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 7, lettera c), legge n. 183 del 2014 –, stabilendo che, in caso di licenziamento collettivo ai sensi degli artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991, intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio previsto dall’art. 2 dello stesso decreto, ovvero la tutela reintegratoria piena corrispondente a quella prevista dal primo comma dell’art. 18 St. lav. Salvo il caso di scuola del licenziamento collettivo intimato in forma orale, l’art. 10 del d.lgs n. 23 del 2015 espunge la reintegrazione nel posto di lavoro dal novero dei rimedi consentiti ai lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, prevedendo che – tanto in caso di violazione delle regole procedurali di cui all’art. 4, quanto in quello di inosservanza dei criteri di scelta di cui all’art. 5 della legge n. 223 del 1991 – si applichi sempre e soltanto il regime introdotto dall’art. 3, comma 1, del medesimo decreto delegato.
Pertanto, in ogni caso di licenziamento collettivo illegittimo, perché viziato nella procedura o nell’utilizzo dei criteri di scelta, il giudice si limiterà a dichiarare estinto il rapporto a tutele (o meglio a indennizzi) crescenti alla data del recesso, condannando il datore di lavoro al pagamento di una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità[26]. Il d.lgs n. 23 del 2015 ha – certamente sul punto qui in esame – almeno il pregio della chiarezza, per cui sembra davvero inutile svolgere considerazioni di natura esegetica su disposizioni che appaiono così precise e nette anche nelle trasparenti motivazioni di politica del diritto[27].
La norma appare coerente con i principi stabiliti dalla legge delega 183 del 2014, il cui articolo 1, comma 7, lettera c esplicitamente esclude la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro per i «licenziamenti economici», essendo difficilmente revocabile in dubbio – come pure sostenuto da varie parti – che i licenziamenti collettivi rientrino in tale, sia pur atecnica, espressione. Ma, come si è avuto modo di sottolineare altrove[28], queste disposizioni ci appaiono, al contempo, anche sicuramene incoerenti col principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., visto che questa secca disparità di trattamento – tra lavoratori assunti prima o dopo l’entrata in vigore del decreto – non può trovare una adeguata giustificazione in ragione del solo fattore temporale[29], la discrepanza nella intensità dei rimedi sostanziali e processuali in favore degli uni e degli altri potendosi infatti perpetuare – connotando una diversità strutturale di statuto protettivo tra lavoratori subordinati dipendenti dallo stesso datore – in un orizzonte di tempo molto lungo, anche di anni, in fattispecie che per l’appunto sono, sotto ogni profilo, del tutto identiche e sovrapponibili.
3.1. L’abolizione del rito speciale per l’impugnazione dei licenziamenti
Un’importante novità è prodotta dall’art. 11 del d.lgs n. 23 del 2015, è che ai licenziamenti regolati dal decreto attuativo non si applicano le disposizioni di cui ai commi da 48 a 68 della legge n. 92 del 2012, ovvero il rito speciale introdotto dalla riforma Fornero. È appena il caso di ricordare come il «rito Fornero» sia applicabile a tutte le «controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300» e, secondo l’opinione assolutamente prevalente, debba considerarsi obbligatorio[30].
L’applicabilità del rito speciale all’impugnazione dei licenziamenti collettivi è stata oggetto di alcune discussioni, ma la maggior parte della dottrina e della giurisprudenza[31] si è espressa in senso positivo, sia per ragioni testuali (stanti i numerosi richiami operati dall’art. 1, comma 46 della l. 92 del 1992 alle tutele dell’art. 18), sia per ragioni di applicazione analogica (atteso che le medesime esigenze acceleratorie sono presenti anche nell’ipotesi di impugnativa del licenziamento collettivo).
A carico del famigerato «rito Fornero» sono state sollevate critiche praticamente unanimi per i molteplici dubbi interpretativi ed applicativi da esso causati, ed è difficile credere che qualcuno possa rammaricarsi della sua prematura dipartita. La quale, tuttavia, è a sua volta foriera di alcune problematiche processuali.
Non sembra revocabile in dubbio che, con l’abolizione del rito speciale, le future impugnazioni dei licenziamenti (fermi restando i comuni oneri di impugnazione stragiudiziale e giudiziale) ritorneranno ad essere assoggettate alle regole dell’ordinario processo di cognizione previsto dal codice di rito per le controversie in materia di lavoro. Sennonché, la rinnovata espansione del processo di cognizione ordinario non riguarderà tutti i licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore del d.lgs n. 23 del 2015, ma soltanto i licenziamenti disciplinati dal medesimo decreto, cioè quelli relativi a rapporti di lavoro costituiti con il cosiddetto contratto di lavoro a tutele crescenti. Per un periodo transitorio, quindi, dovremo assistere all’introduzione di cause secondo una duplice forma procedimentale: da un lato, quella speciale prevista dai commi da 48 a 68 della legge n. 92 del 2012, che seguiterà ad essere applicabile a tutte le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione di licenziamenti (anche collettivi) intimati dopo il 18 luglio 2012, purché riferibili a rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015; dall’altro lato, quello ordinario previsto dal codice di procedura civile per i licenziamenti riferibili a rapporti di lavoro instaurati dopo tale data. Con il che il legislatore, pur avendo preso atto, dopo neanche tre anni di vigenza, del sostanziale fallimento del rito Fornero, con inutile accanimento terapeutico ha deciso di tenerlo in vita ancora per un tempo prevedibilmente lungo, così complicando ulteriormente la già sofferente condizione del contenzioso lavoro[32].
Peraltro, con particolare riferimento alla materia dei licenziamenti collettivi, è possibile che una stessa procedura di mobilità riguardi alcuni lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del cosiddetto contratto a tutele crescenti ed altri assunti dopo, con la conseguenza che, magari a fronte delle medesime cause di illegittimità, i primi dovranno impugnare il licenziamento con il rito speciale e potranno invocare la tutela dell’art. 18 (ovviamente nella versione modificata dalla legge n. 92 del 2012), mentre i secondi dovranno accontentarsi di chiedere, con ricorso ordinario, l’applicazione dell’esangue apparato rimediale del nuovo decreto[33]. Un doppio regime – non soltanto sostanziale, ma anche processuale – che conferma, e amplifica, i già forti dubbi di legittimità costituzionale più sopra sollevati.
3.2. Il licenziamento collettivo dei dirigenti
Ulteriori criticità prodotte dalla nuova normativa riguardano la disciplina del licenziamento dei dirigenti. Infatti, l’art. 1 del d.lgs n. 23 del 2015, nel definire il campo di applicazione del nuovo regime di tutele nel caso di licenziamento illegittimo, lo limita espressamente ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti, con esclusione, dunque, dei dirigenti. Con il che, per tale categoria di lavoratori, si viene paradossalmente a creare una situazione di maggiore favore rispetto al radicale arretramento dei rimedi attuato con il Jobs Act: in generale, il dirigente può contare, di regola (in forza della disciplina del preavviso e dell’indennità supplementare, prevista dalla contrattazione collettiva applicabile al rapporto di lavoro), di una tutela economica più intensa contro i licenziamenti privi di giustificazione.
Tuttavia, con specifico riferimento al nostro tema, occorre tenere nella debita considerazione le novità apportate dalla legge 30 ottobre 2014, n. 161. A seguito del noto esito condannatorio della procedura d’infrazione aperta dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana[34], il legislatore nazionale è infatti intervenuto includendo i dirigenti nella disciplina dei licenziamenti collettivi. Più in particolare, l’art. 16 della legge n. 161 del 2014 ha modificato l’art. 24 della legge n. 223 del 1991, stabilendo che i dirigenti debbono essere computati sia nella soglia dimensionale aziendale dei quindici dipendenti, sia nel numero dei lavoratori interessati dalla riduzione di personale.
La comunicazione di avvio della procedura dovrà pertanto indicare anche le posizioni dirigenziali interessate ed essere inviata anche alle rappresentanze sindacali dei dirigenti o alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative della categoria del settore; all’esame congiunto della posizione dei dirigenti eccedenti si procederà in «appositi incontri»[35]. Inoltre, si prevede espressamente che, quando risulti accertata la violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1, il datore di lavoro sia tenuto al pagamento, in favore del dirigente, di un’indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura e alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni della contrattazione collettiva. Peraltro, il nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro dei dirigenti industriali, in vigore dal 1° gennaio 2015, ha espressamente stabilito che le indennità supplementari in esso previste per il caso di recesso del datore di lavoro non si applichino nel caso di licenziamento collettivo, ipotesi in cui, pertanto, troverà applicazione soltanto la tutela risarcitoria prevista dalla legge n. 161 del 2014.
Ma si tratta – evidentemente (e paradossalmente) – di una tutela risarcitoria più favorevole di quella applicabile ai lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, giacché, da un lato, risulta decisamente più elevata la misura minima dell’indennizzo risarcitorio (dodici, anziché quattro mensilità) e, dall’altro, la concreta commisurazione della somma dovuta a tale titolo, entro il comune tetto massimo delle 24 mensilità, non è determinata – nel caso dei dirigenti – dal rigido automatismo meccanicistico correlato alla sola anzianità di servizio, ma deve essere decisa dal giudice facendo applicazione – si deve ritenere – dei più ampi criteri discrezionali di valutazione stabiliti dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966. Onde anche sotto questo profilo traspare la irrazionalità di una scelta legislativa che – capovolgendo, paradossalmente, la logica dell’art. 3, comma 2, Cost. – finisce per dare una tutela maggiore alla categoria più forte, che – anche in virtù della più elevata capacità di auto-protezione contrattuale della quale dispone – è stata tradizionalmente esclusa dalla disciplina limitativa dei licenziamenti di fonte legale.
Conclusioni
Preme svolgere qualche sintetica considerazione conclusiva sull’incidenza che questo diversificato sistema di tutela contro il licenziamento collettivo illegittimo ha sulla possibilità di rintracciare una qualche ratio unitaria nella costruzione della fattispecie. In tale ottica, se si assume che il momento rimediale ha un sicuro rilievo nella ricostruzione sistematica della fattispecie, è anche necessario concludere che, soprattutto con la forte innovazione e differenziazione del regime sanzionatorio introdotta dal d.lgs n. 23 del 2015, ma in realtà già in forza delle innovative previsioni della legge n. 92 del 2012, una tale possibilità risulta oggi del tutto incompatibile con il frammentato assetto normativo dell’istituto.
Superata, almeno formalmente, la distinzione, peraltro del tutto priva di conseguenze sul piano dei rimedi invocabili, tra collocamento in mobilità e licenziamento collettivo, il legislatore introduce ora una forte differenza di regime sanzionatorio interna alla fattispecie, unicamente in ragione della data di assunzione del lavoratore. Una tale scelta rende semplicemente vano qualunque sforzo di razionalizzazione e di lettura unitaria del licenziamento collettivo: che, se rimane lo stesso in termini di disciplina sostanziale e procedurale, imbocca poi strade diversissime (con ovvia tensione con i principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost.) allorché vengano in rilievo i rimedi attivabili da «vecchi» e «nuovi» assunti in caso di violazione di quella stessa disciplina. Ma già la legge n. 92 aveva incrinato la coerenza delle ricostruzioni prevalenti in dottrina e recepite dalla giurisprudenza, laddove ha escluso la tutela reintegratoria in ipotesi di mera violazione delle regole procedimentali, evidentemente ignorando che su quelle regole – dopo la riforma del 1991, e sviluppando la nota intuizione ricostruttiva di Massimo D’Antona[36] – è stato edificato il baricentro del controllo di legittimità (ex ante del sindacato ed ex post del giudice) sul licenziamento collettivo.
Possiamo dunque concludere che è proprio sul fronte della disciplina del licenziamento collettivo che la controriforma attuata nelle due tappe del 2012 e del 2015 finisce per scaricare le sue più evidenti contraddizioni e incoerenze sistematiche.
[1] A partire dai contributi raccolti nel commentario curato da M. Persiani, 1994 (a cura di) Legge 23 luglio 1991, n. 223. Norme in materia di Cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro e altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, in Nuove leggi civili commentate, 884 ss., nel quale spicca la seminale ricostruzione di M. D’Antona, 1994 (anticipata in Id., 1993), Art. 5, in M. Persiani (a cura di), Legge 23 luglio 1991, n. 223. Norme in materia di Cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro e altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, in Nuove leggi civili commentate, 922 ss., destinata come noto ad avere una profonda influenza sulla stessa elaborazione giurisprudenziale successiva. Per una felice sintesi dello stato dell’arte in materia prima delle riforme del 2012 e del 2015, v. L. Galantino Licenziamenti collettivi, in P. Lambertucci (a cura di), Diritto del lavoro – Dizionari di diritto privato promossi da N. Irti, Giuffré, Milano,2010, 443 ss., e O. Mazzotta, Licenziamento collettivo, in Enciclopedia del diritto – Annali, V, Giuffré, Milano, 2012,766 ss., con ampi riferimenti dottrinali.
[2] Cfr. U. Carabelli, S. Giubboni, Il licenziamento collettivo, in P. Chieco (a cura di), Flessibilità e tutele nel lavoro. Commentario della legge 28 giugno 2012, n. 92, Cacucci, Bari,2013 391 ss..
[3] Per usare il criterio di lettura suggerito nella relazione con la quale il ministro del Lavoro dell’epoca aveva enfaticamente presentato il primo abbozzo della riforma: cfr. La riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, presentata dal ministro del Lavoro e delle politiche sociali, prof.ssa Elsa Fornero, di concerto con il ministro dell’Economia e delle finanze, prof. Mario Monti, al Consiglio dei ministri del 23 marzo 2012 e approvata dallo stesso nella medesima seduta.
[4] E ciò, «tanto più ove si consideri che la progressiva abolizione dell’indennità di mobilità si va ad intersecare con la crescente elevazione progressiva dell’età pensionabile», come giustamente sottolineato da G. Ferraro, Ammortizzatori sociali e licenziamenti collettivi nella riforma del mercato del lavoro, WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, IT, 2012, 11, 143.
[5] Cfr. in generale, tra i primi e per tutti, M. Cinelli, Gli ammortizzatori sociali nel disegno di riforma del mercato del lavoro, in Riv. Dir. Sic. Soc., 2012, 227 ss.
[6] Nella vasta letteratura fiorita sul nuovo art. 18, e limitando i riferimenti ai commenti dedicati al licenziamento collettivo, v. per tutti F.P. Luiso, R. Tiscini, A. Vallebona, La nuova disciplina sostanziale e processuale dei licenziamenti, Giappichelli, Torino, 2013, 25 ss.; P. Albi, I licenziamenti collettivi, in M. Cinelli, G. Ferraro, O. Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Giappichelli, Torino, 2013, 301 ss.;A. Sitzia, Licenziamenti collettivi, in C. Cester (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, CEDAM, Padova, 2013, 315 ss.; S. Maretti, I licenziamenti collettivi, in G. Pellacani (a cura di), I licenziamenti individuali e collettivi, Giappichelli, Torino, 2013, 707 ss..
[7] La quale aveva, peraltro, per lo più escluso l’efficacia sanante dell’eventuale accordo collettivo concluso nell’ambito della procedura di mobilità, consentendo di converso al singolo lavoratore interessato di far valere giudizialmente l’illegittimità (nella forma propria dell’inefficacia) del licenziamento intimatogli all’esito di una procedura viziata dall’inosservanza degli obblighi di comunicazione e informazione sindacale. Cfr., tra le altre, Cass., 18.11.1997, n. 11465; Cass., 11.1.2008, n. 528; Cass. 5.4.2001, n. 7744; Cass., 21.9.2001, n. 19233; Cass. 15.10.2002, n. 14616; Cass., 6.4.2012, n. 5582; contra, per la efficacia sanante dell’accordo sindacale, si veda Cass. 19.1.2009, n. 1181. Per ulteriori ragguagli, anche sul diverso orientamento cui è andato il favore del legislatore, cfr. la puntuale rassegna di A. Ferruggia, Riduzioni di personale ed esuberi definitivi, in M. Pedrazzoli (a cura di), Licenziamenti e sanzioni nei rapporti di lavaro, CEDAM, Padova, 2011, 127 ss.. Per completezza, si segnala che l’orientamento giurisprudenziale maggioritario era stato bersaglio di numerose osservazioni critiche in dottrina, parte della quale riteneva che le eventuali carenze della comunicazione di apertura della procedura potessero essere sanate durante le consultazioni sindacali sfociate in un accordo (cfr. O. Mazzotta, 2012, cit.).
[8] Non, però, in ragione dell’espresso richiamo del solo comma 2 dell’art. 4, legge n. 223 del 1991, di altri vizi, riferibili alle successive fasi e, in specie, alla conclusione della procedura, i quali non risultano sanabili dall’accordo collettivo cui fa riferimento la norma in commento. Cfr. in tal senso anche A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. It. Dir. Lav., I,in 2012, 415 ss..
[9] In particolare dall’uso discreto, ma nient’affatto casuale, dell’articolo indeterminativo «un» prima della parola «accordo».
[10] Le rappresentanze sindacali aziendali, ovvero quelle unitarie, operanti nelle unità produttive interessate e le rispettive associazioni di categoria oppure, in mancanza, le associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (art. 4, comma 2, legge n. 223 del 1991).
[11] Cfr., per prima, Corte cost., 30.6.1994, n. 268, e, nella giurisprudenza di legittimità, tra le tante, Cass., 11.5.1999, n. 4666.
[12] V. in tal senso, tra i primi, A. Vallebona, 2012, 66; A. Maresca, 2012, 453-454; P. Albi, La Riforma Monti-Fornero e i licenziamenti collettivi, WP C.S.D.LE. Massimo D’Antona, IT- 161, 2012, 2 ss.
[13] V., volendo, già S. Giubboni, La motivazione del licenziamento collettivo, in Dir. prat. Lav. n. 39, 1993, 2553 ss..
[14] La giurisprudenza aveva puntualizzato che, in mancanza di contemporaneità della comunicazione, l’inefficacia dei recessi fosse da escludersi solo se dovuta a giustificati motivi di natura oggettiva comprovati dal datore di lavoro (cfr. Cass. 23.1.2009, m. 1722; Cass., 28.1.2009, n. 2166; Cass. 17.7.2009, n. 16776; Cass., 1.12.2010, n. 24341).
[15] In questo senso anche A. Vallebona, la riforma del lavoro, Giappichelli, Torino, 2012, 67 e 68; l’Autore, peraltro, non manca di rimarcare una certa ambiguità dell’innovazione legislativa, laddove il termine viene fatto decorrere dalla comunicazione dei recessi, che difficilmente avvengono contestualmente. In una «logica di semplificazione» ritiene condivisibile l’innovazione anche G. Ferraro (2012, 494, cit), il quale sottolinea – giustamente – come l’invalidazione dell’intera procedura per la non perfetta coincidenza temporale delle comunicazioni finali fosse da ritenere sproporzionata.
[16] Come invece ritiene C. Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in Arg. Dir. Lav., 2012, 584. La disposizione in commento lascia piuttosto in ombra il problema del raccordo della disciplina della motivazione del licenziamento collettivo con il nuovo testo dell’art. 2, comma 2, legge n. 604 del 1966 (novellato dall’art. 1, comma 37, legge n. 92 del 2012), alla cui stregua la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato. Occorre ritenere, in linea con l’interpretazione già consolidata (v. solo Cass., sez. un., 11.5.2000, n. 302, e Cass., 28.8.2000, n. 11258), che l’art. 2 della l. n. 604 del 1966, ferma ovviamente la necessità della forma scritta della comunicazione del recesso, sia inapplicabile al licenziamento collettivo nella parte in cui regola gli obblighi datoriali di motivazione, prevedendone ora la contestualità. È evidente, infatti, sotto tale profilo, la specialità della disciplina del licenziamento collettivo, rispetto al quale il legislatore ha optato per l’abbandono di quel requisito di contestualità che il nuovo art. 2 della legge n. 604 viceversa impone per il licenziamento individuale. Un altro aspetto lasciato in ombra dal nuovo testo dell’art. 4, comma 9, legge n. 223 investe la questione, dibattuta in passato, della possibilità per il datore di lavoro di rinnovare l’atto di recesso proceduralmente viziato (per la soluzione positiva v. Cass., sez. un., 13.6.2000, n. 419). Peraltro, oggi tale problematica è destinata a perdere di rilievo, dovendo essere inquadrata nel diverso assetto sanzionatorio previsto per i vizi procedurali, che non contempla più l’applicazione dell’ordine di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ma soltanto il pagamento di una indennità risarcitoria (seppur diversamente commisurata dalla legge n. 92 del 2012 e dal d.lgs 23 del 2015).
[17] È appena il caso di ricordare che la rigorosa procedimentalizzazione della materia dei licenziamenti collettivi introdotta dalla legge n. 223 del 1991 ha fatto arretrare alla fase sindacale il controllo in ordine alle ragioni della scelta imprenditoriale di riduzione del personale, cosicché i residui spazi di controllo devoluti ex post al giudice riguardano esclusivamente il corretto esperimento della procedura e dell’applicazione dei criteri di scelta legali o contrattuali (cfr., tra le tante, Cass., 14.6.2007, n. 13876; Cass., 6.10.2006, n. 21541; Cass., 6.7.2000, n. 9045; Cass., 12.10.1999, n. 11455; Trib. Cosenza, 20.3.2014; Trib. Milano, 3.7.2013; in dottrina R. Del Punta, Il licenziamento collettivo: problemi e questioni, in Questione Lavoro, vol. 1, 2010, 7; ma già M. D’Antona, Riduzione di personale e licenziamenti collettivi: la rivoluzione copernicana della legge 223/91, in Foro it., I,1993, I, 2028 ss.).
[18] Come noto, il legislatore del 1991, pur avendo formalmente distinto i vizi attinenti alla procedura di messa in mobilità, che ne determinavano l’inefficacia, dalla violazione dei criteri di scelta, che ne determinavano l’annullabilità, aveva stabilito in entrambi i casi l’applicazione della tutela reale, quale unitariamente concepita dall’art. 18 St. lav. allora vigente.
[19] L. Angiello, I licenziamenti collettivi nella riforma Fornero, in Lav. Giur., 2012, 919 ha rilevato come l’espressione normativa «violazione delle procedure richiamate dall’art. 4 comma 12» appaia poco felice, dovendosi comunque intendere come riferita a tutti i vizi della procedura disciplinata dall’art. 4, a partire dalla comunicazione iniziale, per passare alla consultazione sindacale (con l’eventuale intervento dell’autorità pubblica) sino alle comunicazioni finali.
[20] Deve ritenersi che l’unica comunicazione da formalizzare per iscritto, pena l’applicazione del rimedio reintegratorio, sia quella contenente l’intimazione del recesso al singolo lavoratore coinvolto nella procedura di riduzione del personale ai sensi dell’art. 4, comma 9, legge n. 223 del 1991.
[21] C. Cester, 2012, 561, cit..
[22] A. Vallebona, 2012, 68, cit..
[23] L’inadeguatezza di una tutela obbligatorio-indennitaria a garantire l’effettività di un modello regolativo che poggia sul controllo e la partecipazione sindacale alla gestione delle eccedenze di personale è stata rilevata anche da A. Minervini, 2014, I controlli nei licenziamenti economici dopo la Riforma Fornero, in Lav. Giur., 757. L’Autrice evidenzia come la legittimazione del datore di lavoro a licenziare sia prevista, nella legge n. 223 del 1991, solo a seguito del puntuale adempimento delle procedura, cosicché, sul piano tecnico, non può verificarsi un effetto estintivo del rapporto di lavoro, che sarebbe in contraddizione con l’applicabilità della tutela indennitaria a fronte di un licenziamento invalido. In questa prospettiva, la riforma viene stigmatizzata come un fuorviante passaggio dal piano collettivo a quello individuale, che mette in discussione la centralità stessa della procedura sindacale e si traduce in una privazione della tutela dei diritti dei lavoratori.
[24] A. Maresca, 2012, 429, cit..
[25] È stato osservato come la grande discrezionalità valutativa in materia di individuazione ed applicazione dei criteri di scelta comporti lo spostamento dei problemi dal piano collettivo a quello individuale, esponendo il datore di lavoro ad una situazione di incertezza e ad azioni dei singoli lavoratori licenziati, cosicché è assai probabile che venga perpetuata la prassi di aggiungere alla procedura di mobilità un’appendice costituita da una conciliazione individuale raggiunta in sede sindacale (cfr. L. Angiello, I licenziamenti collettivi nella riforma Fornero, in Lav. Giur., 2012, 920).
[26] È stata posta la questione se, in caso di violazioni procedurali da parte del datore di lavoro che integrino gli estremi della condotta antisindacale, vi sia ancora oggi la possibilità di rimuoverne gli effetti ai sensi dell’art. 28 St. lav. anche disponendo la reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati (per una discussione di tale profilo cfr. M. Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, in Arg. Dir. Lav., 2015, 301 ss. e M. De Luca, Contratto di lavoro a tutele crescenti e sistema sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi, in Lav, giur. 2015, 557 ss.). In senso affermativo si è esplicitamente espresso L. Verde, Il reintegro nei licenziamenti collettivi dopo il Jobs Act, in fiba.it, 2015, il quale non ha mancato di sottolineare come, in tal modo, si possa recuperare un residuo spazio per la tutela reale, anche in funzione del rafforzamento del potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e del mandato fiduciario tra le stesse e i lavoratori.
[27] Giova ricordare come il legislatore delegato abbia confermato, nella versione definitiva del d. lgs. n. 23 del 2015, l’estensione ai licenziamenti collettivi della regola della tutela meramente indennitaria ignorando il contrario parere (non vincolante) espresso da entrambe le Commissioni parlamentari competenti. In particolare, la Commissione lavoro della Camera aveva evidenziato come tale estensione avrebbe determinato un indebolimento del ruolo della contrattazione collettiva e delle procedure di confronto con le organizzazioni sindacali, rendendo maggiormente difficoltosa la gestione concordata dei processi di ristrutturazione aziendale. D’altra parte, tutto l’impianto del Jobs Act sembra orientato ad un depotenziamento dei cosiddetti corpi intermedi in generale e delle organizzazioni sindacali in particolare (quello che i sociologi chiamano «disintermediazione sociale»). Cfr. sul punto C. Romeo, Il dilemma delle tutele nel nuovo diritto del lavoro: i campi esclusi dalla riforma del Jobs Act, in Arg. dir. lav., 2015, 285 SS..
[28] Cfr. S. Giubboni,Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in Costituzionalismo.it, fasc. 1, 2015.
[29] Per una diversa valutazione, v. R. Pessi, C. Pisani, G. Proia, A. Vallebona, Jobs Act e licenziamento, Giappichelli, Torino, 2015.
[30] In tal senso, appare decisivo l’argomento testuale del secco disposto dell’art. 1, comma 48, l. n. 92/2012, secondo cui la domanda «si propone» con ricorso. Cfr. ad es. Trib. Taranto 30.11.2012; Trib. Milano 25.10.2012; Trib. Roma 28.11.2012; Trib. Perugia 23.10.2012. L’obbligatorietà del rito appare d’altra parte coerente con la finalità perseguita dal legislatore di evitare che i lunghi tempi della decisione comportino, per il caso di accoglimento del ricorso, un eccessivo vulnus ai diritti del datore di lavoro, costretto ad un enorme esborso per retribuzioni e relativi contributi previdenziali ed assistenziali, nonché versamenti fiscali, senza usufruire della prestazione lavorativa.
[31] In giurisprudenza, cfr. Trib. Roma 12.11.2012; Trib. Reggio Calabria 5.11.2012; Trib. Roma 21.1.2014. Per ampi riferimenti dottrinari, cfr. N. Frasca, Applicabilità ai licenziamenti collettivi del rito Fornero e delle tutele previste dall’art. 18 Stat. Lav., in Arg. Dir. lav. 2014, 1195 ss...
[32] In questi termini si è espresso anche Romeo, 2015, cit..
[33] È facilmente ipotizzabile che, per questa seconda categoria di lavoratori, la prospettiva di un allungamento dei tempi processuali, unitamente alla consapevolezza di poter conseguire alla fine soltanto una tutela economica depotenziata, li spingerà ad accettare, nella maggior parte dei casi, l’offerta di conciliazione di cui all’art. 6, comma 1, d.lgs n. 23 del 2015.
[34] La Corte di giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 13.2.2014 (C-596/2012), ha come noto censurato il nostro Paese per avere escluso i dirigenti dalla normativa nazionale sulla riduzione collettiva del personale, in violazione della direttiva 98/59/Ce.
[35] È stato giustamente osservato che ciò potrebbe comportare uno sdoppiamento della consultazione su due binari paralleli, con il rischio di uno sfasamento dei tempi di conclusione delle due fasi sindacali e che una si possa concludere con un accordo e l’altra no (cfr. D. Colombo, Licenziamento collettivo dei manager, in Dir. prat. Lav., 2015, 285 ss.).
[36] V. supra, nota 1.