Compatibilità del contratto a tutele crescenti con il diritto europeo
Gli strumenti internazionali pongono vari principi rilevanti in materia di tutela del lavoratore avverso i licenziamenti illegittimi, imponendo da un lato il rispetto del principio di parità di trattamento, dall’altro lato il principio di adeguatezza ed effettività della tutela, aspetti questi che implicano una valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti in relazione alla situazione concreta, tenuto conto di situazioni comparabili.
Il saggio esamina la compatibilità delle novità normative dettate dal Jobs Act con le varie fonti internazionali e verifica le conseguenze ipotizzabili di un contrasto tra norme, sia in termini di legittimità costituzionale delle norme interne sia in relazione alla loro (dis)applicazione.
1. Rimodulazione verso il basso delle tutele
Il contratto a tutele crescenti introdotto dal cd Jobs Act (ossia dal d.lgs n. 23 del 2015) non è altro che un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con una speciale disciplina del recesso datoriale. E due sono le principali novità della disciplina sui licenziamenti rispetto a quella applicabile ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato: il definitivo superamento della correlazione automatica tra illegittimità del licenziamento e sanzione reintegratoria e la previsione di quest’ultima quale sanzione residuale e marginale; la forfetizzazione e riduzione del danno risarcibile in caso di licenziamento illegittimo e la previsione di somme modeste dovute al lavoratore per un atto datoriale che è e resta illegittimo.
Sotto il primo profilo, passa ormai definitivamente il principio della sostanziale monetizzazione del posto di lavoro, benché esso sia incongruo alla luce della funzione del lavoro e del posto che ha nel nostro ordinamento anche costituzionale; viene positivizzato addirittura (art. 3) il superamento del principio di proporzionalità, principio fondamentale nella disciplina legale (art. 2106 cc) e nell’elaborazione giurisprudenziale ultraquarantennale in materia disciplinare, e si stabilisce l’esclusione espressa di un giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, affermandosi espressamente che «resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento», sicché il costo del recesso illegittimo viene determinato in chiave puramente economica e senza riferimento all’entità dello scostamento dell’atto illegittimo dal modello legale; infine, la nuova disciplina ha espressamente abbandonato il vincolo della sanzione reintegratoria in ragione delle previsioni conservative della contrattazione collettiva (che possono rilevare solo per il giudizio di legittimità del licenziamento ex art. 30 collegato lavoro, ma non per l’individuazione della sanzione applicabile al licenziamento illegittimamente irrogato).
Sotto il secondo profilo, sul piano della sanzione, il decreto predetermina legalmente e riduce l’indennità risarcitoria dovuta, prevedendo una severance pay forfetizzata in base all’anzianità di servizio, sottratta a qualsiasi determinazione a misura della concreta fattispecie ad opera del giudice, il cui ruolo viene ridotto ad un elementare computo dell’anzianità: si può così estinguere illegittimamente un rapporto di lavoro con un piccolo costo fisso, già preventivato e probabilmente assorbito con traslazione sui prezzi delle merci, un costo nel cui calcolo non ha nessun rilievo l’entità dell’accusa rivolta, gli effetti prodotti, la mancanza di colpevolezza, ma solo l’anzianità di servizio dell’accusato.
Va qui sottolineata la complessiva contrazione della misura delle indennità risarcitorie, indennità addirittura inferiori all’indennità sostitutiva del preavviso mediamente prevista dai contratti collettivi di categoria, ma anche alla tutela obbligatoria in precedenza disciplinata e financo alle indennità previste per l’abuso del termine dall’art. 32 co. 4 collegato lavoro 183/00 (che a loro volta non avevano soddisfatto Cass. ord. n.2112/11).
La predeterminazione legale dell’indennità non ne esclude l’iniquità, non solo perché l’indennità è ancorata a fattore (anzianità di servizio) estranea al disvalore del comportamento datoriale ed ad ogni valutazione giudiziale delle particolarità del caso concreto, ma anche per la disciplina del tetto massimo dell’indennità, corrispondente a 12 anni di servizio, ma applicabile quale costo (modesto) per licenziare (illegittimamente, è sempre il caso di rimarcarlo) lavoratori anche con quarant’anni di servizio.
Come efficacemente detto[1], si potrà estinguere in modo illegittimo ogni rapporto di lavoro, pagando una somma modesta con offerta di conciliazione esentasse che la stessa legge prevede: «una potente arma di ricatto che eserciterà un influsso moderatore su tutto il rapporto. Gli effetti di questa normativa non vanno perciò riguardati solamente in relazione alla tutela irrisoria, e persino offensiva, che è stata introdotta nell’ordinamento a proposito dei licenziamenti; ma in relazione agli effetti perniciosi che essa genera su tutto il sistema di legalità del lavoro, con una nuova ulteriore marginalizzazione del giudice del lavoro, al quale il lavoratore non ha più alcun interesse per doversi rivolgere».
2. Nuove ingiustizie e disparità
È inevitabile un disorientamento derivante da una disciplina del tutto sfavorevole al lavoratore dettata da un governo di sinistra, un governo che ha fatto ciò che nemmeno vent’anni di destra (per di più aziendalista) al potere avevano fatto, financo dettando una disciplina più regressiva di quella ex lege Fornero (che pure già aveva “massacrato”, per dirla con Romagnoli, l’art. 18, superando l’equilibrio che per decenni la norma aveva garantito[2], e dettato una disciplina confusa e tecnicamente eccepibile sotto vari profili).
Certo, si è consapevoli che la reintegra (che peraltro si applica da tempo –per volontà parlamentare e popolare- solo a metà della forza lavoro in Italia) non ha copertura costituzionale (C. Cost. 46/00), né si vuole qui correre il rischio di difendere “con le unghie e con i denti e fino all’ultima virgola le vecchie posizioni degli insiders, indicate come oggetto di un diritto fondamentale dei lavoratori, abbandonando al proprio destino centinaia di migliaia di collaboratori autonomi continuativi, in forma di lavoro a progetto e di partita IVA, in situazioni di monocommittenza ed a basso reddito, tutti soggetti che di questi diritti fondamentali possono fare a meno”[3].
Si vuole solo sottolineare che i profili di ingiustizia della nuova disciplina sono notevoli, mentre gli effetti economici della maggiore flessibilità in uscita sulle nuove assunzioni restano del tutto indimostrati ed anzi smentiti[4], e comunque va rilevato che il precario assunto a tempo indeterminato vede nell’immediato una notevole riduzione delle tutele.
Le nuove regole urtano, invero, la sensibilità di chi è abituato a pensare da decenni che solo in presenza di una reale, proporzionata e comprovata giustificazione causale il licenziamento possa produrre effetti estintivi del rapporto di lavoro (di un rapporto che ha forti implicazioni esistenziali, essendo intimamente connesso con la persona), e si fa fatica a concepire che –a fronte di un inadempimento di esigua importanza o anche di un atto del lavoratore non costituente adempimento- un atto unilaterale invalido della parte più forte possa provocare effetti dirompenti nella vita di una persona, affatto compensati da indennità anche irrisorie e financo offensive.
Resta però in ogni caso paradossale l’esclusione nel rapporto di lavoro -in netta controtendenza rispetto alla natura del rapporto ed alle esigenze di protezione della parte debole che la giurisprudenza in blocco, anche a livello costituzionale, ha da sempre salvaguardato e promosso- dell’applicazione delle regole operanti per tutta la disciplina dei contratti, con particolare riferimento sia al principio di rilevanza dell’inadempimento contrattuale (che l’art. 5 l. 604/66 declinava, anche ai fini della applicazione della sanzione, in chiave derogatoria –ma in senso opposto- rispetto a quanto disposto dall’art. 1455 cc), sia all’applicabilità del rimedio generale della tutela in forma specifica (che costituisce la regola per il risarcimento del danno ex art. 2058 cc, essendo quella per equivalente l’eccezione).
L’esclusione (quasi completa) della tutela reale trova applicazione in relazione ai nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti ed altresì in relazione ai vecchi assunti (art. 1 co. 3) nel solo caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, stat. lav.; a tutti gli altri dipendenti privati si applicano le vecchie norme della legge Fornero e per i dipendenti pubblici [5] il vecchio testo dell’art. 18 Stat. lav.. La disciplina dunque sancisce una differenziazione nel trattamento normativo garantito a lavoratori, senza che però ne sia individuabile la ratio giustificatrice della deroga all’art. 3 Cost., pesando solo la natura del datore o il mero dato formale inerente la data di assunzione, aspetti questi estrinseci rispetto alla prestazione lavorativa (pur in presenza del medesimo tipo contrattuale) ovvero rispetto al fatto posto alla base del licenziamento (oggettivo o soggettivo, individuale o collettivo che sia).
La fattuale coesistenza all’interno della stessa organizzazione del lavoro di dipendenti diversamente tutelati evidenzia una disparità di trattamento difficilmente giustificabile: e non basta affermare (come taluno fa, pur richiamando Corte cost. 254/14)[6] che il «fluire del tempo possa costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche», in quanto rispetto al fatto disciplinarmente rilevante o al fatto alla base di un licenziamento economico la situazione dei lavoratori soggetti a diverse tutele è in tutto identica ed il fluire del tempo non riguarda la situazione posta a base del recesso (ma solo il momento genetico del rapporto, irrilevante ai fini della valutazione del fatto).
3. Il contrasto con il principio di eguaglianza dell’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
L’equiparazione di situazioni dissimili contrasta con l’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce il principio di eguaglianza («tutte le persone sono eguali dinanzi alla legge»).
Il contrasto con l’art. 20 è ben più evidente rispetto a quello – più difficilmente ipotizzabile - con l’art. 30 della Carta, che – nel prevedere che «Ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario ed alla legislazione e prassi nazionale») postula una tutela effettiva, ma non precisata.
La norma dell’art. 20 ha invece un contenuto preciso e contiene un principio immediatamente precettivo, munito di efficacia diretta orizzontale (e qui la giurisprudenza comunitaria, specie nella materia antidiscrimnatoria, che della parità è applicazione, è ampia).
Certo, la norma -pur contenuta in un atto che, ex art. 6 TUE, è vincolante avendo il medesimo valore dei Trattati-, ai sensi dell’art. 51 co. 1, si applica agli Stati membri esclusivamente nell’«attuazione del diritto dell’Unione» (cfr. pure sentenza Corte di giustizia Akerberg Fransson, par. 21-23); ciò implica che la protezione offerta dalla Carta viene in rilievo ogni qualvolta la misura nazionale oggetto della controversia presenta un collegamento con una disposizione di diritto Ue che è rilevante nella fattispecie, ma diversa dal diritto fondamentale che si pretende leso, non avendo i diritti fondamentali della Carta[7].
Non sembra però potersi dubitare che nella materia dei licenziamenti si operi nel cd cono d’ombra del diritto europeo.
Quanto ai licenziamenti collettivi[8], viene in gioco la direttiva 1998/59 relativa al «Ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi»: la circostanza che la disciplina non preveda norme sul tipo di tutela assicurato ai lavoratori non è rilevante ai fini del problema in disamina, poiché non è questione di applicazione della tutela prevista da fonti europee ma di applicazione del principio di uguaglianza in materia genericamente disciplinata dal diritto europeo.
Con riferimento ai licenziamenti individuali, va richiamato l’art. 153.1.d) del Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE) che attribuisce alla Ue il potere di dettare agli Stati membri regole comuni in materia di licenziamento individuale, prevedendo la competenza di adottare direttive di armonizzazione (ovvero di definire standard minimi comuni di tutela) in relazione alla «protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro».
Il vero nodo interpretativo risiede nel significato dell’“attuazione” del diritto dell’Unione, e in particolare se questa debba intendersi come attuazione diretta e necessitata del diritto europeo, come nell’ipotesi classica di una legge che recepisce una direttiva, ovvero se sia sostenibile un concetto più generico ed ampio di “attuazione”, secondo la quale per l’applicazione dei precetti della Carta è sufficiente che la fattispecie esaminata cada per qualche suo aspetto nel “cono d’ombra” del diritto dell’Unione anche indirettamente, sicché anche in tal caso il diritto interno può essere considerato “applicativo“ di quello sovranazionale e quindi può essere esaminato alla luce dei diritti della Carta.
Né mi pare rilevante il mancato esercizio della potestà legislativa prevista dal Trattato: sarebbe infatti illogico applicare la Carta ove il legislatore – europeo o nazionale – abbia dato attuazione (male) al diritto comunitario, e non invece nei casi in cui, ferma la competenza comunitaria, il legislatore – europeo e nazionale – sia rimasto inerte.
La portata espansiva e promozionale dei principi della Carta è talora emersa in modo specifico nella giurisprudenza di Lussemburgo, che nell’applicare la Carta ha ritenuto rientrante nella sua giurisdizione ogni normativa direttamente o indirettamente collegata al diritto dell’Ue[9].
La Corte di giustizia, in particolare, ha precisato che l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali opera non solo nel momento in cui il legislatore nazionale dà attuazione al diritto europeo, ma anche ove comunque si lavora nel campo di applicazione del diritto dell’Unione (sentenza Akerberg Fransson), nonché nelle fattispecie, pur estranee all’area comunitaria, che incidono su una delle condizioni di godimento dei diritti tutelati dall’ordinamento comunitario (K.B. C-117/2001; Richards).
In alcune pronunce comunitarie si assiste dunque ad un allargamento dell’ambito di intervento sulla base della Carta: si richiamano qui la sentenza Fuβ, in tema di trasferimento del lavoratore; la sentenza Mangold, con riferimento alla parità di trattamento in ragione dell’età prima della scadenza del termine di recepimento della direttiva in materia; la sentenza Kucukdéveci, ai fini del calcolo del termine di preavviso di licenziamento; la sentenza Del Cerro Alonso, in ordine alla retribuzione dei lavoratori a tempo determinato ed, in generale, alle condizioni di impiego.
Altre volte, invece, la stessa Corte ha optato per la soluzione opposta, evidenziando un self-restraint[10] quando si tratta di tutelare diritti sociali, specie se di natura collettiva, previsti dalla Carta ma estranei alle tradizioni comunitarie: si pensi alla sentenza Polier sul Contrat nouvelles embauches (CNE), o alla sentenza Nisttahuz Poclava, ove la Corte esclude l’applicazione diretta dell’art. 30 ai fini del sindacato sulla previsione del patto di prova, e ciò in quanto la fattispecie è priva di nesso con l’attuazione del diritto europeo (ma nella soluzione del problema ha certo pesato il carattere non autosufficiente della disposizione della Carta invocata, l’art. 30).
In relazione a quanto detto opera la possibilità di un’applicazione del principio di uguaglianza, destinata ad operare al di là dei divieti discriminatori, ma limitatamente a violazioni che ridondino in ingiustificate differenze di trattamento di situazioni identiche delle persone coinvolte: ad esempio, due dipendenti (illegittimamente) licenziati per il medesimo fatto in concorso, sottoposti a regimi diversi relativi alla sanzione avverso il licenziamento illegittimo; ovvero, due (gruppi di) dipendenti assunti prima e dopo il Jobs Act, licenziati per motivo economico comune, con applicazione di tutele diverse.
Ma ciò dovrebbe valere non solo in relazione ad una fattispecie concreta, ossia con riferimento alla situazione di due lavoratori nella medesima situazione, ma anche in relazione ad una mera comparazione tra la situazione concreta di un lavoratore e quella astrattamente applicabile ad altro lavoratore, pur se quest’ultimo non abbia contenzioso in corso né addirittura sia stato licenziato.
L’intera giurisprudenza comunitaria antidiscriminatoria infatti ha sempre postulato una verifica del rispetto del principio di non discriminazione non in relazione a casi concreti comparati, ma in relazione alla situazione giuridica applicabile -astrattamente dunque, secondo le previsioni positive delle norme- ad altri soggetti per i quali non ricorre il fattore protetto dalla disciplina europea: è infatti rispetto al trattamento giuridico astratto previsto per tali soggetti che va verificata la legittimità del trattamento deteriore attribuito al soggetto appartenente a gruppo sociale svantaggiato o comunque possessore della caratteristica personale considerata fattore di discriminazione. In tali casi si potrà ipotizzare anche una disapplicazione della legge nazionale nel caso singolo, anche se sembra opportuno che comunque sia sollecitata prima la Corte di Giustizia al fine di chiarire la portata dal principio comunitario nei rapporti interprivati.
Analoghe considerazioni valgono in relazione alla misura dell’indennità risarcitoria, che nell’escludere ogni adeguamento della sanzione al fatto concreto e nel predeterminare la sanzione sulla base del dato formale dell’anzianità di servizio, dato estraneo alla natura della prestazione lavorativa come alle ragioni del licenziamento, equipara ingiustificatamente lavoratori che possono essere in situazioni completamente diverse, mentre per altro verso, con il prevedere un tetto risarcitorio massimo piuttosto basso, equipara un lavoratore con 12 anni di anzianità ad uno con 40 anni.
4. Violazioni di diritti umani fondamentali
L’esclusione di un tutela forte avverso i licenziamenti illegittimi si espone sul piano internazionale ad altri profili di criticità ove l’atto illegittimo di recesso datoriale incide su diritti fondamentali della persona protetti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In relazione a tali aspetti, in ragione del valore della Convenzione Edu sul piano delle fonti, il contrasto non consente la disapplicazione della norma interna contrastante, ma solo una questione di legittimità costituzionale della norma ex art. 117 Cost. (salve in ogni caso le misure accordate dalla Corte Edu, che possono consistere sia in indennizzi alla parte lesa, sia in misure più strutturali per il carattere sistemico della violazione riscontrata).
Vi sono infatti nella Convenzione varie norme poste a protezione dei diritti della persona che possono essere lesi da un atto datoriale di recesso: si pensi al licenziamento disciplinare per opinioni espresse dal lavoratore o per l’iscrizione a determinate associazioni o per fatti della vita privata, ove vengono in gioco il diritto del lavoratore alla libera manifestazione del pensiero (art. 10 Conv.) o il diritto di associarsi liberamente (art. 11 Conv.), o il diritto al rispetto alla vita privata (art. 8 Conv.) o, in connessione con gli anzidetti diritti, il divieto di discriminazioni di cui all’art. 14 Conv.
E la giurisprudenza della Corte è intervenuta varie volte a sanzionare atti datoriali illegittimi (come in Heinisch c. Germania 2011, o in Schuth c. Germania, 2010), accordando al lavoratore un indennizzo [11].
È bene precisare peraltro che innanzi alla Cedu, che non è giudice di quatrième instance, non viene direttamente in gioco il comportamento o l’atto del datore di lavoro, bensì l’interferenza del godimento di diritti da parte dello Stato, che risponde delle pronunce giurisdizionali dei propri giudici del lavoro e delle norme del suo legislatore: in altri termini, la Corte valuta se la previsione normativa di una tutela avverso il licenziamento sia o meno inadeguata e se ciò implichi un’interferenza non proporzionata sul godimento dei diritti protetti dalla Convenzione; questo spiega come, in caso di accoglimento del ricorso del lavoratore, la condanna riguarda lo Stato e non il datore di lavoro privato.
In tale contesto, la mancata previsione normativa di una tutela reintegratoria non può portare alla reintegra del lavoratore, ma solo alla valutazione della mancata reintegra quale indice di inadeguatezza della protezione del diritto fondamentale, fermo restando che la pronuncia riguarderà solo lo Stato e non il datore di lavoro (e ciò anche quando la Corte Edu non accordi solo un indennizzo alla parte ma, essendo la violazione ritenuta sistemica, ed inviti il legislatore a porre rimedio alla criticità riscontrata, se del caso modificando la legge nazionale).
Se dunque una delle più significative novità del Jobs Act è consistita nella esclusione del potere valutativo del giudice in ordine alla proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti, il principio di proporzionalità ritorna in relazione alla verifica della adeguatezza della tutela in ambito Cedu, implicando ciò una valutazione del rimedio complessivo offerto dall’ordinamento al lavoratore in relazione al caso concreto ed a tutte le sue particolarità, tenuto conto anche del trattamento riservato a situazioni analoghe: ciò può portare a ritenere non adeguata la tutela nazionale che escluda la tutela reale (o che preveda risarcimenti insufficienti) per violazioni dei diritti protetti dalla Convenzione.
5. Ineffettività ed inadeguatezza della tutela risarcitoria
Con specifico riferimento all’indennità risarcitoria si pone dunque non solo un problema di parità di trattamento, ma anche un diverso problema di adeguatezza della tutela: una tutela che, anche ove possa legittimamente esaurirsi tutta dentro una logica puramente monetaria, è del tutto inidonea a garantire, non dico una efficacia sanzionatoria e dissuasiva nei confronti del recesso datoriale illegittimo, ma almeno una minima effettività risarcitoria, come prescritta dalle fonti internazionali.
Oltre che alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nei termini sopra indicati, va fatto riferimento alle Convenzioni stipulate nell’ambito dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che sono dei trattati vincolanti per gli Stati. Tra queste, oltre alle convenzioni che proibiscono il licenziamento discriminatorio e quello per gravidanza e maternità o per motivi sindacali, ratificate dall’Italia, va richiamata la Convenzione n. 158 del 1982, sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro, adottata nel 1982 ed entrata in vigore nel 1985: questa, oltre alla valid reason per il recesso, si occupa dei rimedi a disposizione del lavoratore illegittimamente estromesso lasciando agli Stati un ampio margine di discrezionalità, prevedendo in caso non vi sia la reintegra, una “adeguate compensation” o un “other relief”, dunque un indennizzo adeguato o ogni altra forma di riparazione considerata come appropriata.
La fonte ha rilevanza sul piano internazionale: ciò vuol dire da un lato che le Corti internazionali possono ben far riferimento alla stessa nell’interpretazione di altre norme vincolanti; dall’altro lato, che l’Italia ha firmato la Convenzione e sul piano dei rapporti con gli altri Stati si è così impegnata a ratificarla (fino a tale momento, però, resta esclusa una portata precettiva delle norme della convenzione all’interno del nostro ordinamento).
Il principio dell’adeguatezza ed effettività della tutela avverso i licenziamenti illegittimi, infine, è contenuto nell’art. 24 della Carta sociale europea (trattato del Consiglio d’Europa, che garantisce i diritti umani sociali ed economici, adottato nel 1961, firmata dall’Italia nel 1996 e ratificata nel 1999), che prevede il diritto ad una tutela in caso di licenziamento ed enuncia tre principi: causalità del licenziamento, congruo indennizzo al lavoratore illegittimamente licenziato, diritto del lavoratore ad impugnare il provvedimento davanti ad un organo imparziale.
La giurisprudenza del Comitato europeo dei diritti sociali (che vigila sull’osservanza delle disposizioni della Carta da parte degli Stati) ha affermato il principio di effettività (effectiveness), per il quale la sanzione per la violazione di un diritto deve avere il carattere dell’“adeguatezza, effettività e dissuasività” ovvero essere tale da costituire un reale deterrente per il datore di lavoro.
In ogni caso, va evidenziato che una norma di legge nazionale che contrasti con la Carta espone l’Italia a procedura di infrazione ed è affetta da vizio di legittimità costituzionale ex art. 117 Cost.
6. Leggi nazionali ed impegni internazionali dell’Italia
In conclusione, gli strumenti internazionali stabiliscono vari principi rilevanti in materia di tutela del lavoratore avverso i licenziamenti illegittimi, imponendo da un lato il rispetto del principio di parità di trattamento, dall’altro lato il principio di adeguatezza ed effettività della tutela, aspetti questi che implicano una valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti in relazione alla situazione concreta, tenuto conto di situazioni comparabili.
L’applicazione di questi principi potrà portare, a seconda delle fonti, ad un sindacato più o meno penetrante sulle norme nazionali, con conseguenze sia sulla valutazione di legittimità costituzionale di queste ex art. 117 Cost., sia sulla valutazione della compatibilità comunitaria (e dunque dell’applicabilità) delle norme interne, fermi restando, in ogni caso, gli impegni dell’Italia sul piano dei rapporti con gli altri Stati e la responsabilità internazionale dello Stato per le relative violazioni.
[1] R. Riverso, I licenziamenti disciplinari tra Jobs Act e riforma Fornero. (Basta un poco di fatto materiale e la reintegra va giù?), in Questione Giustizia online, 2015, http://questionegiustizia.it/articolo/i-licenziamenti-disciplinari-tra-jobs-act-e-riform_23-02-2015.php.
[2] R. Sanlorenzo, Il licenziamento nullo tra tutela antidiscriminatoria e casi espressamente previsti dalla legge, relazione al corso La disciplina dei licenziamenti: un primo bilancio, organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, 13-15 aprile 2015
[3] P. Ichino,Nuova disciplina dei licenziamenti: property e liability rule, in Dir. Prat. Lav., 2012, pag.1545
[4] V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, in Riv. Giur. Lav., 2014, 2.
[5] F.Carinci, Il licenziamento disciplinare all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, relazione al corso La disciplina dei licenziamenti: un primo bilancio, organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, 13-15 aprile 2015
[6] C. Celentano, La tutela indennitaria e reintegratoria: compatibilità costituzionale e comunitaria, relazione al corso La disciplina dei licenziamenti: un primo bilancio, organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, 13-15 aprile 2015
[7] G. Orlandini, Il licenziamento individuale nell’Unione Europea, in atti del Convegno Nazionale organizzato dal Centro studi D. Napoletano, Il licenziamento individuale tra diritti fondamentali e flessibilità del lavoro, Pescara-Montesilvano, 10-12 maggio 2012
[8] R. Cosio, La tutela dei licenziamenti nel diritto primario dell’Unione Europea, relazione al convegno Rapporti tra le fonti e rapporti tra le Corti nel diritto europeo. I licenziamenti collettivi, Roma, 27 aprile 2015
[9] G. Bronzini, Rapporto di lavoro, diritti sociali e Carte europee dei diritti. Regole di ingaggio, livello di protezione, rapporti fra le due Carte, in WPCS 118/2015.
[10] M. Dalfino, La Corte e la Carta: un’interpretazione “utile” dei diritti e dei principi sociali fondamentali. Considerazioni a partire dal caso Association de médiation sociale, in WP CSDLE 103/2014.
[11] N. Bruun – K. Lorcher, Innovazione sociale: la nuova giurisprudenza della Corte di Strasburgo sui diritti fondamentali del lavoro, in Riv. Giur. Lav., 2012, pag. 312.