Cittadinanza, sangue e patriarcato: note per una critica femminista
La cittadinanza e la sua rivendicazione rappresentano, sin dagli studi arendtiani sugli apolidi, una meta-tematica della ricerca sociologica e giuridica, così come dell’impegno civile. Gli importanti studi di Seyla Benhabib, con cui si apre questo scritto, propongono una revisione del concetto di cittadinanza anche alla luce di quelle prassi di “iterazione democratica” con le quali gli individui e le individue delle società complesse e multietniche cercano di riappropriarsi di una dimensione di riconoscimento e di protezione sociale. Una ricerca che il presente contributo persegue mantenendo sempre accesa la lente di genere come chiave di lettura delle dinamiche di esclusione della cittadinanza e delle dinamiche discriminatorie attuate dagli Stati nazionali per mantenere saldo un ordine gerarchico fondato su base etnica, censitaria e sessuale.
1. L’attualità della rivendicazione di cittadinanza / 2. Cittadinanza e patriarcato / 3. L’uguaglianza che sovverte l’ordine
1. L’attualità della rivendicazione di cittadinanza
Nelle pagine iniziali di un libro considerato una pietra angolare per il dibattito sul cosmopolitismo nel confronto con il presente, Seyla Benhabib descrive il dilemma con cui si scontrano le argomentazioni etico-normative a giustificazione dei confini: «una caratteristica comune a tutte le norme di appartenenza, incluse le norme di cittadinanza (ma non solo), è che coloro sui quali ricadono le conseguenze di tali norme, e soprattutto dei criteri di esclusione, non possono per definizione prendere parte alla loro formulazione»[1].
Guardata sotto questa lente, ogni legge sulla cittadinanza è inevitabilmente antidemocratica poiché le sue regole sono formulate e decise da chi ha la cittadinanza, a spese di chi non la ha. Vi è, poi, una caratteristica ulteriore legata ai confini come «condizione non-democratica della democrazia», per utilizzare un’efficace espressione con la quale li ha indicati Étienne Balibar[2]. Per mezzo dei confini – strumenti e oggetti privilegiati della politica poiché in grado di alludere al medesimo tempo all’utopia della società compiuta (chiusa e dunque protetta) e a quella del cosmopolitismo (nell’apertura suggerita dall’attraversare i confini stessi) –, ogni società produce i suoi stranieri seguendo «sue proprie, inimitabili modalità»[3]. I due aspetti, della non-democraticità e della produttività delle leggi che regolano i confini delle comunità politiche, vanno tenuti insieme anche per comprendere e contestualizzare il portato discriminatorio delle legislazioni sulla cittadinanza. Le loro regole di esclusione non vanno infatti solo a scapito di chi non ha la cittadinanza, ma anche di chi, secondo quelle regole, non la avrà perché sarà prodotto come straniero.
Se si prende ad esempio il caso italiano, dove sulla base della legge n. 91 del 1992 la cittadinanza è trasmessa in via prevalente per diritto di sangue, è facile ricondurre queste osservazioni alle condizioni sia materiali sia di diritto vissute da chi, nato o cresciuto in Italia, è comunque escluso dallo status di cittadina o cittadino. Negli ultimi quindici anni, la popolazione straniera regolarmente residente in Italia è pressoché duplicata, passando da circa 2,6 milioni di unità al 1° gennaio 2006 a 5,2 milioni al 1° gennaio 2021, e raggiungendo così quasi il 9% della popolazione totale[4]. L’affermazione ricorrente secondo la quale la legge sulla cittadinanza attualmente vigente rifletterebbe un’epoca in cui l’Italia era un Paese di emigranti è retorica non solo perché astorica, ma soprattutto perché ogni legge sulla cittadinanza non incide solo sul presente, ma disegna la propria comunità a venire. In altre parole, le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi nati o cresciuti in Italia durante gli ultimi decenni, e che oggi rivendicano uguaglianza anche attraverso l’accesso alla cittadinanza, sono stranieri perché sono stati prodotti come tali dalle sue regole di esclusione. Seppure in Italia, al 1 gennaio 1992, fossero presenti solo 649.000 stranieri regolarmente residenti, la non-democraticità della legge sulla cittadinanza non è da riferirsi meramente alla quota di coloro che sono stati esclusi dalla possibilità di partecipare alla sua formulazione, ma va rapportata a come la cittadinanza funzioni da freno per la trasformazione in senso egualitario della società nonché da incentivo per la conservazione dei suoi privilegi odiosi.
Il portato discriminatorio della cittadinanza va dunque contestualizzato in riferimento a una società che muta, così come la radicalità delle rivendicazioni che hanno ad oggetto l’accesso alla cittadinanza va rapportata ai diversi orizzonti politici con cui si confronta. Quando Benhabib pubblicava The Rights of Others, nel 2004, non erano poche le studiose e gli studiosi che consideravano la cittadinanza nazionale come un istituto ormai moribondo, che avrebbe perso progressivamente d’importanza a fronte di forme di appartenenza post-statuali[5]. Anche quando la cittadinanza era denunciata come il residuo di un privilegio di status[6], il suo potenziale escludente sembrava destinato ad affievolirsi di fronte ai diritti fondamentali, la cui titolarità è, invece, universalistica. Sul piano istituzionale, poi, il processo di allargamento europeo dava corpo e contenuti a un orizzonte politico che avrebbe disegnato un modello diverso di partecipazione: la libertà di circolazione si stagliava come una promessa di inclusione destinata ad allargarsi al di là degli allora cittadini europei; mentre i confini, pur nella contraddizione che delimitava la “fortezza Europea”, alludevano all’utopia cosmopolita del proprio superamento attraverso l’inclusione di nuovi Paesi membri.
A due decenni di distanza dall’allargamento europeo – e dal fallimento del progetto di una Costituzione europea – la cittadinanza nazionale non sembra affatto aver perso di importanza, ma anzi il suo portato discriminatorio è ancora più profondo. Se il caso italiano lo mostra bene in numeri assoluti, poiché i discriminati della cittadinanza aumentano proporzionalmente all’aumentare degli stranieri residenti, la battuta d’arresto al processo di integrazione sovranazionale derivata dai nuovi sovranismi e dalla Brexit segnala che anche i diritti acquisiti attraverso la cittadinanza europea non sono garantiti una volta per tutte. In un mondo globalizzato, il diverso peso che passaporti diversi hanno per la possibilità di viaggiare si traduce in un accesso ineguale alle opportunità e alle risorse. Le «vittime della cittadinanza»[7], ovvero coloro per i quali la cittadinanza si presenta come un groviglio di ostacoli e limiti, sono di gran lunga la maggioranza della popolazione mondiale e le loro istanze revocano in dubbio la tradizionale lettura della cittadinanza come paniere di diritti in espansione e come condizione necessaria della partecipazione democratica. Su questa lettura non pesa solo l’esclusione di fasce di popolazione dai pieni diritti politici, ma anche la violenza dispiegata a difesa delle frontiere contro i migranti che, dal 2015 a oggi, ha causato oltre 25.000 morti nel solo Mar Mediterraneo, e che fa da sfondo alla violenza epistemica entro cui viene compreso il valore della vita di chiunque sia prodotto come straniero o straniera dalle regole dell’esclusione.
In questo quadro, non vi è dubbio che la rivendicazione di cittadinanza acquisisca una nuova radicalità che si misura, da un lato, con il portato di discriminazione che la cittadinanza comporta per chi ne è escluso; dall’altro, con la necessità di mettere a critica la cittadinanza stessa come istituzione di esclusione. Coniugare la critica della cittadinanza alla richiesta di estenderla esplicita un’ambivalenza che, come hanno da tempo messo in luce sia il femminismo giuridico sia la “Critical Race Theory”, accomuna le rivendicazioni di accesso ai diritti portate avanti in nome di “differenze” fondate su pratiche sociali, giuridiche e politiche che, a loro volta, necessitano di essere decostruite. In Italia, la rivendicazione di cittadinanza è fatta propria soprattutto dalle cosiddette “seconde generazioni”, figlie delle migrazioni, le quali pagano il prezzo delle sue regole di esclusione[8]. Negli anni più recenti, inoltre, questa rivendicazione ha incrociato sia gli slogan e le proteste del movimento “Black Lives Matter” sia i riferimenti culturali del femminismo intersezionale[9]. Ed è soprattutto nel femminismo che la critica della cittadinanza ha radici profonde.
Per un verso, il pensiero femminista ha infatti assunto a proprio obiettivo polemico sia la pretesa universalistica della cittadinanza sia la sua supposta neutralità di genere, mettendo in luce la natura sessuata del contratto sociale che ne fonda i presupposti moderni[10], a partire dalla distinzione tra pubblico e privato e le sue ripercussioni per l’accesso delle donne ai diritti. Per altro verso, le donne sono state storicamente un soggetto paradossale della cittadinanza[11], autorizzate a far parte della nazione, e addirittura ad assumerne il ruolo di corpo biologico, ma a lungo disconosciute come corpo politico e, dunque, escluse dal voto. Nel solco tracciato da queste riflessioni, l’obiettivo meno ambizioso delle note qui presentate è quello di contestualizzare, attraverso la lente del genere, il portato discriminatorio che accompagna oggi la cittadinanza in Italia e, al contempo, di rivendicare la lotta per l’accesso alla cittadinanza come una battaglia che deve essere fatta propria in una prospettiva femminista intersezionale.
2. Cittadinanza e patriarcato
In tema di cittadinanza, il principio di uguaglianza tra donne e uomini sancito dalla Costituzione è stato a lungo inattuato. Come noto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 87 del 1975, ha dapprima stabilito l’illegittimità delle disposizioni che comportavano la perdita automatica della cittadinanza per la donna che contraeva matrimonio con uno straniero e, successivamente, con la pronuncia n. 30 del 1983, ha dichiarato incostituzionali gli artt. 1 e 2 della legge n. 555 del 1912 in ragione della mancata previsione della trasmissione della cittadinanza ai figli per via materna. Solo con la riforma del 1992, giunta ben ottant’anni dopo la precedente legge sulla cittadinanza, è stata infine ottenuta per via legislativa l’equiparazione tra uomini e donne nel trasmettere la cittadinanza ai figli.
Il traguardo dell’uguaglianza formale tra uomini e donne in tema di cittadinanza, raggiunto in buona parte del mondo cd. “occidentale”[12], spiega probabilmente perché la critica allo ius sanguinis si sia concentrata principalmente sugli elementi etno-nazionalistici dell’istituto, piuttosto che sulla sua struttura patriarcale, la quale mette al centro un modello di famiglia gerarchico ed eteronormato. Quest’ultimo aspetto è venuto alla ribalta, più di recente, in relazione alle tecnologie procreative, in casi in cui la mancata trasmissione della cittadinanza da parte dei genitori non biologici ha impedito il rilascio dei documenti di viaggio ai figli[13]. Seppure quelle ora evidenziate possano sembrare problematiche di natura settoriale, esse svelano in realtà alcuni aspetti centrali attorno ai quali si è sedimentata la struttura giuridico-politica della cittadinanza. Anche quando la trasmissione della cittadinanza ius sanguinis mette sullo stesso piano uomini e donne, il nesso tra legame parentale e cittadinanza si riflette, infatti, sull’appartenenza politica, stabilendo una gerarchia che privilegia la famiglia sull’individuo.
D’altro canto, che struttura etero-patriarcale della famiglia, sessismo ed etno-nazionalismo si accompagnino l’una agli altri non è certo una novità. Contrariamente a quanto l’equiparazione formale tra uomini e donne porterebbe a ritenere, si tratta di una triangolazione che non si è affatto allentata con il tempo e che, anzi, è andata per alcuni versi rafforzandosi. È significativa, al riguardo, la traiettoria che ha seguito il parametro dell’integrazione nella giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di naturalizzazione, secondo la quale lo straniero che voglia diventare cittadino deve essere «detentore di uno status illesae dignitatis morale e civile, nonché di un serio sentimento di italianità» (cfr. sez. III, 3 marzo 2021, n. 1826). In una pronuncia di poco successiva a quella indicata, lo stesso Consiglio di Stato ha specificato che il parametro della illesa dignitas morale non va inteso come irreprensibilità morale, e va bilanciato con una «disamina che tenga conto dei legami familiari del cittadino straniero, della sua attività lavorativa, del suo reale radicamento al territorio, della sua complessiva condotta» (sez. II, 31 maggio 2021, n. 4151). Ciò nonostante, non si può tacere che il requisito della «convinta adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento di cui [lo straniero] chiede di far parte con il riconoscimento della cittadinanza» (ibid.) non sia richiesto ai cittadini per nascita, e porti con sé il rischio evidente di una eticizzazione dell’appartenenza politica.
I legami familiari come vettori di integrazione sono al centro di molti provvedimenti decisori in tema di naturalizzazione e non vengono valorizzati solo in senso positivo. Un recente provvedimento (21 luglio 2022) del Ministero dell’interno ha, per esempio, negato la cittadinanza a una donna dell’Ecuador che ne aveva fatto richiesta in ragione dei reati commessi dal figlio maggiorenne convivente. Nelle motivazioni del provvedimento, si legge che «il rapporto di parentela o affinità indica l’esistenza di un legame stabile, e quindi duraturo nel tempo, che fonda le proprie radici nella famiglia e nei suoi connessi aspetti affettivi, con la conseguenza che proprio la stabilità parentale e affettiva potrebbe indurre l’interessato ad agevolare, anche soltanto per ragioni affettive, comportamenti ritenuti in contrasto con l’ordinamento giuridico». A conferma che si tratta di una prassi decisoria diffusa, il provvedimento prosegue richiamando l’orientamento del Tar Lazio, secondo il quale «il comportamento penalmente rilevante di persone conviventi legate da vincoli di affectio può essere preso in considerazione al fine di motivare il diniego della cittadinanza italiana dell’istante in quanto esso è indice della integrazione del nucleo familiare». In altre parole, nonostante la donna non fosse coinvolta nelle condotte criminose del figlio, secondo l’Amministrazione il vincolo affettivo avrebbe potuto indurla a un atteggiamento connivente, e questo è sufficiente per escluderne l’integrazione. Al di là del giudizio su quale dovrebbe essere il comportamento di una buona madre, che emerge dal provvedimento in maniera malcelata, l’argomentazione che vede nella famiglia un vettore di integrazione desta più di qualche perplessità nella misura in cui subordina il destino individuale ai rapporti di parentela e affinità. Si pensi ai casi di donne imprigionate in relazioni coniugali volente o a quelli di ragazze e ragazzi che adottano comportamenti di ribellione verso la famiglia: condizionare l’accesso alla cittadinanza alla valutazione dell’ambiente familiare trasforma la cittadinanza stessa da possibile vettore di integrazione a strumento che rafforza le relazioni di oppressione. L’etno-nazionalismo della cittadinanza si salda, così, alla struttura patriarcale della famiglia per inchiodare gli individui al destino ascritto loro per nascita.
Quando si adotti una lente di genere, la struttura patriarcale della cittadinanza va ben oltre la questione dell’uguaglianza formale tra uomini e donne nel trasmettere la nazionalità ai figli, così come va oltre lo stesso etno-nazionalismo dello ius sanguinis. Come hanno più volte sottolineato le organizzazioni femministe che intervengono sul tema della violenza di genere[14], all’interno dei contesti familiari il mancato accesso delle donne alla cittadinanza perpetua l’oppressione maschile sulle mogli, sulle figlie e sui figli, e limita i percorsi di autonomia volti alla fuoriuscita da relazioni di abuso e maltrattamenti domestici. In aggiunta, non si possono tacere le difficoltà che incontrano le donne nei percorsi di accesso alla residenza stabile sul territorio e alla cittadinanza in ragione del mancato controllo sulle risorse reddituali della famiglia che, di frequente, risultano attribuite nominalmente ai mariti, ai padri o ai fratelli maggiori. Il lavoro riproduttivo svolto dalle donne tra le mura domestiche, dalla cura dei figli a quella dei mariti, degli anziani, dei fratelli minori, non trova alcun riconoscimento nelle procedure di accesso alla cittadinanza[15], dove a contare sono solo i redditi da lavoro (salariato) e la titolarità formale dell’abitazione, indipendentemente da chi se ne prenda cura tenendola pulita e in ordine. Fermarsi all’uguaglianza formale tra uomini e donne in tema di accesso alla cittadinanza significa non tenere in alcuna considerazione il fatto che le donne svolgono una mole enorme di lavoro a titolo non retribuito, o in condizioni di precarietà e informalità, e che la divisione sessuale del lavoro, che assegna prioritariamente le donne a quello riproduttivo e gli uomini a quello produttivo, si ripercuote fortemente sull’appartenenza politica riproponendo, sotto altre vesti, la distinzione tra un corpo biologico e un corpo politico della nazione.
3. L’uguaglianza che sovverte l’ordine
La rivendicazione di accesso alla cittadinanza delle generazioni figlie delle migrazioni è, in primo luogo, una richiesta di uguaglianza volta a sovvertire le gerarchie e i privilegi imposti dall’ordine sociale. È in questa cornice di significato che va letta la richiesta di estendere la cittadinanza, e non certo come una richiesta che, assieme all’istituzione della cittadinanza, legittima l’esclusione che questa inevitabilmente porta con sé. E ancora, nella misura in cui ogni ordine sociale stabilisce e perpetua posizioni di sovra e sotto-ordinazione, e dunque gerarchie, l’uguaglianza non può che esserne l’antitesi: l’uguaglianza, prima che un nuovo ordine, è lo spazio in cui ogni gerarchia e ogni privilegio sono messi in discussione. In questo senso, la rivendicazione di accesso alla cittadinanza non può che alludere a un’uguaglianza incompiuta, ma non per questo meno legittima e radicale. In una bella presa di posizione sulle migrazioni come pratica de-coloniale, la giurista internazionalista Tendayi Achiume ha sostenuto che la mobilità attraverso i confini, anche quella non autorizzata, quando è spinta dalla richiesta di maggiore uguaglianza, dev’essere intesa come «un’azione politica radicale delle persone del Terzo Mondo volta a formalizzare il loro status di co-sovranità al Primo Mondo attraverso l’accesso alla cittadinanza»[16]. Allo stesso tempo, la migrazione in sé dovrebbe essere compresa come una «potente tecnologia per creare, consolidare e riformare la comunità politica»[17].
Le proposte di riforma della legge sulla cittadinanza presentate durante le ultime legislature sono state ben lontane dall’interpretare una richiesta radicale di uguaglianza, e hanno invece scelto apertamente strade di compromesso, mantenendo la trasmissione della cittadinanza iure sanguinis come modalità prioritaria e introducendo, accanto a questa, procedure di acquisizione che fanno perno sulla frequenza scolastica. Sia la proposta di legge cd. ius culturae, naufragata durante la XVII legislatura, che quella cd. ius scholae, approdata senza successo alla discussione parlamentare nel giugno 2022, prevedevano infatti, accanto ai più tradizionali ius sanguinis e ius soli, modalità di acquisizione della cittadinanza che valorizzavano le relazioni costruite sul territorio attraverso la scuola. Se questo è sicuramente un pregio comune ad entrambe le proposte di riforma, molti dei rilievi critici hanno sottolineato il rischio di un’impostazione meritocratica della cittadinanza che va a detrimento, ancora una volta, dei soggetti più fragili e svantaggiati. Entrambe le proposte condizionavano, inoltre, l’acquisizione della cittadinanza da parte dei figli nati o cresciuti in Italia sia alla regolarità del soggiorno dei genitori sia alla loro dichiarazione di volontà, riproponendo un modello familistico della cittadinanza di cui si sono già sottolineati i limiti.
Se alcuni rilievi critici sulle proposte di legge che sono state discusse di recente sono necessari, è però doveroso posizionarsi rispetto all’urgenza di una riforma della legislazione attualmente in vigore. Non riconoscere la profonda discriminazione che comporta il mancato accesso alla cittadinanza significa non comprendere il senso della cittadinanza come istituzione che non agisce solo sul presente, ma disegna la società a venire. Da questo punto di vista, la cittadinanza ha un interesse prioritario per la critica femminista, poiché investe direttamente i processi di riproduzione della società e delle relazioni che la sostengono. Proprio come la famiglia, alla quale inesorabilmente si lega per diritto di sangue, la cittadinanza è infatti una di quelle istituzioni attraverso le quali la società riproduce le proprie relazioni, di uguaglianza e partecipazione, così come di dominio, oppressione e sfruttamento[18]. Se il genere è dunque una lente indispensabile all’analisi della cittadinanza, altrettanto lo sono le categorie di “razza” e di “classe” che fanno da complemento all’intersezionalità[19]. Sarebbe, certo, miope non vedere nella centralità riservata alla famiglia nelle procedure di accesso alla cittadinanza un meccanismo che non solo conferisce priorità alle relazioni parentali rispetto all’individuo ma che, allo stesso tempo, stabilisce un vincolo di condizione sociale difficile da sciogliere (e da scalare).
Nonostante il loro carattere apertamente moderato, le proposte di legge di riforma della cittadinanza, presentate sotto le etichette di ius culturae e ius scholae, sono state affossate da una retorica reazionaria, che nega priorità politica al tema sminuendo il portato discriminatorio della cittadinanza. Non a caso, si tratta di una strategia che si ritrova anche nel discorso sulla disuguaglianza di genere, troppo spesso declassata da problema strutturale a questione di buona o cattiva volontà, di merito o demerito individuale. Prendere l’una o l’altra parte rispetto alla riforma della legge sulla cittadinanza significa, pertanto, posizionarsi criticamente anche rispetto al portato discriminatorio che questa porta con sé. Nemmeno tra i giuristi il tema dell’accesso alla cittadinanza per le generazioni figlie delle migrazioni appare, a ben guardare, prioritario, per esempio quando lo si confronti con l’attenzione ricevuta da altre tematiche come quella della cittadinanza europea. D’altro canto, in Italia, è difficile che a insegnare diritto nelle aule universitarie si incontrino giuristi e giuriste la cui provenienza rivela percorsi migratori personali o delle famiglie di origine. La domanda da porsi è se questo stato di cose rifletta una società ancora in divenire o restituisca, piuttosto, la fotografia di una discriminazione che si perpetua anche in ragione del mancato accesso alla cittadinanza.
1. S. Benhabib, 2004, The Rights of Others. Aliens, Residents, Citizens, Cambridge University Press, Cambridge – trad. it.: I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Raffaello Cortina, Milano, 2006, p. 12.
2. É. Balibar, At the Borders of Citizenship, in European Journal of Social Theory, vol. 13, n. 3/2010, pp. 315-322.
3. Ivi, p. 318.
4. Dati Istat (https://noi-italia.istat.it/pagina.php?L=0&categoria=4&dove=ITALIA).
5. Per una ricostruzione del dibattito, si consenta il rimando a E. Rigo, Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione allargata, Meltemi, Roma, 2007.
6. L. Ferrajoli, 1994, Dai diritti del cittadino ai dritti della persona, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 263-292.
7. L’espressione è di Dimitry Kochenov: vds. Id., Victims of Citizenship: Feudal Statuses for Sale in the Hypocrisy Republic, working paper n. 156, Centre for Migration Policy and Society, Università di Oxford, 2021 (https://ssrn.com/abstract=3975851; https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3975851).
8. Sul punto, vds. M. Ghebremariam Tesfaù e G. Picker, The Italian Postracial Archive, in Ethnic and Racial Studies, vol. 44, n. 2/2020, pp. 195- 214. Vds. anche La cittadinanza a 18 anni, dossier curato da Black Lives Matter Roma e Rete G2 - Seconde Generazioni, giugno 2021 (cfr. www.meltingpot.org/2021/06/dossier-la-cittadinanza-ai-18-anni/).
9. Si vedano le introduzioni di R. Sereke (Luoghi di possibilità) e M. Ghebremariam Tesfaù (Aspettando Gloria) alla traduzione italiana di bell hooks (G.J. Watkins), Teaching to Transgress: Education as the Practice of Freedom, Routledge, New York, 1994: Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Meltemi, Milano, 2020.
10. C. Pateman, The Sexual Contract, Polity Press, Cambridge, 1988.
11. J.W. Scott, Only Paradoxes to Offer. French Feminists and the Rights of Man, Harvard University Press, Cambridge (MA), 1996.
12. Sul tema, si rinvia alla “Global Campaign for Equal Nationality Rights”: https://equalnationalityrights.org/.
13. C. Dumbrava, Kick off contribution: Bloodlines and belonging: Time to abandon ius sanguinis?, in C. Dumbrava e R. Bauböck (a cura di), Bloodlines and belonging: Time to abandon ius sanguinis?, working paper (RSCAS 2015/80), European University Institute, Fiesole, novembre 2015.
14. Vds., ad esempio, la sezione dedicata al genere nel dossier La cittadinanza a 18 anni, op. cit.
15. Per una discussione, si consenta il rimando a E. Rigo, La straniera. Migrazioni, asilo, sfruttamento in una prospettiva di genere, Carocci, Roma, 2022.
16. E.T. Achiume, Migration as Decolonization, in Stanford Law Review, vol. 71, giugno 2019, p. 1567.
17. Ibid.
18. Il dibattito sulla centralità della categoria di riproduzione sociale per il femminismo è molto ampio, per un’introduzione recente al tema, vds. T. Bhattacharya (a cura di), Social Reproduction Theory: Remapping Class, Recentering Oppression, Pluto Press, Londra, 2017; per una discussione su riproduzione sociale, migrazioni e diritto si rimanda a E. Rigo, La straniera, op. cit.
19. La necessità di leggere le discriminazioni secondo un approccio intersezionale di genere, razza e classe è stata sostenuta negli studi giuridici da K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, in University of Chicago Legal Forum, n. 1/1989, pp. 139-167.