Magistratura democratica

Donne e uomini davanti alla giustizia penale: un’indagine empirica presso il Tribunale di Milano

di Claudia Pecorella e Massimiliano Dova

Il contributo intende focalizzare la variabile di genere anche come fattore esplicativo della criminalità, perché se la questione criminale viene da sempre concepita, anch’essa, come un universo essenzialmente maschile, una lettura dei dati statistici in materia criminale alla luce della prospettiva di genere evidenzia, invece, significative differenze tra uomini e donne in relazione alla tipologia dei reati commessi, così come in relazione ai contesti sociali di riferimento e alle profilature personologiche delle persone imputate. Distinguere in modo consapevole la criminalità maschile da quella femminile è anche utile per cogliere la peculiarità di quei fenomeni criminali, come la violenza domestica, sessuale e di genere, che invece vedono le donne quasi esclusivamente in posizione di vittima e che, contrariamente a molti altri reati violenti, non hanno evidenziato negli ultimi decenni un trend di decrescita progressiva, ma hanno al contrario mantenuto un livello costante di incidenza statistica.

1. Il campione analizzato / 2. La tipologia di reati: uno sguardo d’insieme / 2.1. Donne e uomini rispetto a singole tipologie di reato / 3. Imputazioni plurime e concorso di persone nel reato / 4. Una conclusione provvisoria

 

1. Il campione analizzato

La dottrina penalistica italiana ha in larga parte trascurato la variabile di genere come fattore esplicativo della criminalità, poiché la questione criminale viene da sempre concepita come un universo essenzialmente maschile. Questo difetto di prospettiva sembra aver condizionato l’intera architettura del sistema penale, che è stato edificato sul modello maschile, dando origine a un insieme di disposizioni e di prassi interpretative che, pur sembrando formalmente in grado di adattarsi a una realtà complessa, non prendono in considerazione le differenze di genere. Individuare queste differenze nel sistema della giustizia penale può rendere consapevoli sulla necessità di adeguare i parametri di giudizio della realtà, anziché applicare indiscriminatamente regole generali e astratte costruite in funzione del gruppo maggioritario. 

Per avere un’idea più precisa delle caratteristiche della criminalità femminile e portare ad emersione la eventuale inadeguatezza di disposizioni del sistema penale vigente e/o della loro applicazione nella prassi[1], abbiamo svolto un’indagine sui provvedimenti definitori adottati dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Milano nel triennio 2015-2017, principalmente a seguito di giudizio abbreviato oppure di patteggiamento[2]. Sono state considerate le posizioni di 9930 imputati, dei quali solo 1482 (il 15%) erano donne: un dato che risulta in linea con quello nazionale raccolto dall’Istat – peraltro relativo anche a fasi processuali diverse –, secondo il quale le donne nei confronti delle quali è stata esercitata l’azione penale sono il 19% del totale e quelle condannate corrispondono al 16%. 

Prima di analizzare la tipologia e le caratteristiche dei reati commessi, soffermiamoci brevemente sulle caratteristiche di imputati e imputate, cominciando innanzitutto dall’età.

 

Tabella n. 1 – Terzili d’età alla sentenza[3] 

 

Come ci mostra la Tabella n. 1, gli uomini commettono più frequentemente reati in età giovanile rispetto alle donne: la percentuale di imputati nella fascia 18-36 anni è pari al 35,5%, mentre quella delle donne è pari al 31,2%. Se si escludono i reati stradali, questa differenza aumenta ulteriormente: gli imputati giovani sono il 31,6%, mentre le imputate sono il 25,2%.

Il rapporto tra i generi si inverte in tutte le altre fasce di età: sia nel secondo terzile (37-49 anni), nel quale le donne sono maggiormente rappresentate, con una differenza di più di tre punti percentuali (31,6% contro il 34,9% delle donne), sia nell’ultimo (età superiore ai 50 anni), nel quale peraltro il divario si riduce a un punto percentuale (32,8% contro il 33,9% delle donne). Può essere interessante notare, tuttavia, a conferma della sostanziale differenza che intercorre su questo piano tra uomini e donne, che se si considera l’età superiore ai 55 anni, utilizzando una suddivisione in quartili anziché in terzili delle fasce di età, quel divario tra i generi è più ampio (22,3% di uomini contro il 24,0% delle donne) risultando inferiore solo a quello che si registra tra i più giovani. Nel primo quartile (18-34 anni), infatti – non diversamente da quanto emergeva nella suddivisione in terzili – gli uomini sono presenti in una percentuale superiore al 4% (30,8%) rispetto alle donne (26,5%). Si dovrebbe concludere, quindi, che le donne arrivano a commettere reati più tardi rispetto agli uomini e che una parte di quei reati è peraltro commessa a un’età più avanzata rispetto ad essi[4]

In relazione alla nazionalità, si può osservare nella Tabella n. 2 come gli uomini e le donne del campione siano in larga maggioranza italiani (il 78% delle donne e il 75,2% degli uomini); le altre nazionalità più rappresentate sono, per gli uomini, quella africana (9,4%) – che non trova invece grande riscontro tra le donne (solo il 4%) – e quella europea per le donne (8,8%).

 

Tabella n. 2 – Aree geografiche di nascita

 

Vi è un’altra caratteristica che merita di essere messa in rilievo, perché aggiunge un’informazione preziosa per tracciare, a grandi linee, il profilo degli imputati e delle imputate: il dato sui precedenti penali che, pur costituendo una stima per difetto, poiché non sempre emerge dalla sentenza, consente di stabilire se le persone coinvolte nel sistema della giustizia penale siano delinquenti primari oppure abbiano una carriera criminale più o meno strutturata. 

Da un punto di vista generale, emerge che solo il 5,9% delle donne ha precedenti penali, mentre nella popolazione maschile questo dato è più che triplicato (19,7%). Se si effettua la medesima analisi in relazione alle varie categorie di reato, si traggono ulteriori indicazioni: le donne sono quasi esclusivamente imputate per la prima volta (non solo nel caso dei reati stradali, ma anche per quelli d’impresa e contro la persona), con la sola eccezione dei reati a scopo di lucro, in relazione ai quali una donna su otto ha precedenti penali. Il dato è in questo caso influenzato dalla presenza di donne rom all’interno del campione, di cui è noto l’alto tasso di recidiva rispetto, peraltro, a reati di modestissimo valore (furti e tentati furti), che integrano talvolta gli estremi della rapina impropria in conseguenza del tentativo della donna di sottrarsi al vigilante che la ferma all’uscita dell’esercizio commerciale. Un tasso più alto di recidiva si riscontra invece tra gli uomini: nel caso, in particolare, delle imputazioni per reati a scopo di lucro, un uomo su tre risulta avere precedenti penali.

Un cenno, infine, all’esito che ha avuto, in prima battuta, il procedimento penale nel quale quei 9930 imputati sono stati coinvolti. Il dato che riportiamo è stato elaborato avendo come punto di riferimento un solo reato (cd. “primo reato”) anche nel caso, non infrequente (il 28,6% dei casi tra gli uomini e il 16,4% tra le donne), in cui vi fossero più capi d’imputazione a carico dell’uomo o della donna: tale reato è stato individuato in quello più grave (quanto a trattamento sanzionatorio) oppure in quello che appariva caratterizzante la singola vicenda penale (così, ad esempio, l’associazione per delinquere è stata sempre considerata come primo reato).

 

Tabella n. 3 – Esito del primo reato

 

La Tabella n. 3 mostra in modo molto chiaro che le donne sono condannate in una percentuale (56,6%) inferiore agli uomini (68,5%) e che le condanne dipendono in prevalenza – come per gli uomini – dal patteggiamento (33,5% per le donne e 38,5% per gli uomini). Per togliere ogni dubbio sulla presenza di una eventuale maggiore benevolenza dei giudici uomini nei confronti delle donne – come possibile spiegazione della (solo apparente?) scarsa attività criminale delle donne[5] –, abbiamo indagato anche questa variabile nell’ambito dei procedimenti analizzati: ne è emerso, con riguardo ai procedimenti aventi come imputata una donna, che pressoché uguale è la percentuale di condanne e assoluzioni da parte dei giudici, con una lievissima prevalenza delle condanne pronunciate dagli uomini (56,5% a fronte del 55,6% di giudici donne). Solo sul piano del trattamento sanzionatorio si nota una qualche differenza a seconda del genere del giudice: non tanto rispetto alla concessione delle attenuanti generiche ex art. 62-bis cp (pressoché uniforme e oscillante tra il 41,3% e il 41,9% dei casi), quanto piuttosto nella inflizione delle pene che abbiamo definito più “elevate” (superiori ai 3 anni di reclusione), alle quali le giudici donne sembrano più propense (le hanno inflitte nel 10,9% dei casi, mentre i giudici uomini solo nel 7,0%).

 

2. La tipologia di reati: uno sguardo d’insieme

Per rendere più agevole l’indagine, i reati attribuiti ai singoli imputati (rectius, il reato cui abbiamo ritenuto di dare maggiore rilevanza tra i diversi eventualmente contestati ad essi) sono stati raggruppati in cinque categorie: 1) i “reati d’impresa”, che includono tutti quelli commessi nello svolgimento di un’attività imprenditoriale; 2) i “reati stradali”; 3) i “reati contro la persona”; 4) i “reati a scopo di lucro”, tra i quali abbiamo considerato anche i reati in materia di sostanze stupefacenti; 5) la categoria residuale degli “altri reati”, che comprende principalmente le violazioni della disciplina dell’immigrazione, i reati di falso e contro l’amministrazione della giustizia, quelli in materia di armi e l’associazione per delinquere[6].

 

Tabella n. 4 – Classificazione dei reati

 

Dalla Tabella n. 4 emerge che i reati a scopo di lucro – che sono i più frequenti all’interno del campione (il 30,6% di tutti i reati) – sono per gli uomini quelli con la maggiore incidenza percentuale (il 31,4% contro il 26,3% per le donne); viceversa, e in maniera sorprendente, i reati di impresa, che si collocano al secondo posto all’interno del campione (rappresentando il 25% di tutti i reati), sono quelli più frequentemente presenti tra le donne (arrivano ad essere il 32,7% dei loro reati), con una differenza di ben nove punti percentuali rispetto agli uomini (per i quali costituiscono il 23,6%), ossia quasi il doppio rispetto al divario esistente tra i reati a scopo di lucro.

Anche tra i reati contro la persona – comunque meno frequenti (14,7%) – emerge un netto divario tra uomini e donne: questi reati si confermano essere più tipicamente maschili, risultando anche in questo caso una sensibile differenza tra i due generi (costituiscono il 15,5% dei reati contestati agli uomini e il 10,5% di quelli contestati alle donne)[7]

Se i reati stradali sembrano infine costituire una categoria del tutto neutra rispetto al genere (la differenza di incidenza tra uomini e donne è intorno all’1%), maggiormente popolata è tra le donne la categoria residuale degli “altri reati” che, pur nella loro eterogeneità, sono per lo più espressione di una ribellione alle regole (due punti percentuali di differenza rispetto agli uomini). 

 

2.1. Donne e uomini rispetto a singole tipologie di reato

Se si focalizza ora l’attenzione all’interno delle diverse categorie di reato, si colgono ulteriori differenze interessanti tra uomini e donne. 

a) Partendo dalla prima categoria, quella dei reati di impresa, si è già detto che in questo ambito si osserva una cospicua presenza di donne imputate, soprattutto con riguardo ai reati fallimentari e ai reati tributari, che costituiscono l’87% dei reati di impresa contestati alle donne e l’85% di quelli ascritti agli uomini. Come l’indagine condotta sul campione femminile ha già messo in evidenza[8], le donne coinvolte in questi reati non sono imprenditrici disinvolte e incuranti degli interessi dei terzi, bensì donne che ricoprono quasi sempre posizioni di responsabilità del tutto fittizie, a fianco di uomini – di solito familiari – che hanno in mano davvero la gestione dell’impresa e le sue sorti. 

Nell’ambito dei reati tributari, del resto, alle donne è stato contestato in modo prevalente (rappresenta il 25,2% dei reati di impresa ad esse contestati) il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali (art. 2, comma 1-bis, l. n. 638/1983, depenalizzato dal d.lgs n. 8/2016): si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di piccole imprese travolte dalla crisi economica, che non sono più state in grado di far fronte a versamenti di quanto in precedenza fedelmente dichiarato. Al contrario, i reati tributari connotati dalla fraudolenza sono stati più spesso attribuiti a uomini; per le donne essi incidono nella misura del 14,5%. Per il resto, i dati relativi a uomini e donne non mostrano in questo settore significative differenze con riguardo all’età degli imputati, registrandosi per entrambi un forte incremento a partire dal secondo terzile, così come rispetto alla percentuale di condanne, che è solo di un punto percentuale superiore tra le donne (il 51,6% a fronte del 50,4% tra gli uomini). Rispetto alle aree geografiche di nascita di uomini e donne imputati di questi reati, il confronto dei dati mostra, accanto a una costante prevalenza di italiani, una sensibile diversità nella maggiore presenza percentuale di donne europee (soprattutto dell’Est Europa) rispetto agli uomini e, viceversa, una notevole prevalenza di uomini tra gli imputati di origine asiatica e africana.

b) Tralasciando i reati stradali, privi di aspetti rilevanti nell’ambito di questa indagine, e passando quindi ai reati contro la persona, ritroviamo in prevalenza (il 72,3% di quelli contro la persona contestati alle donne e il 79,5% di quelli attribuiti agli uomini) i reati di lesioni e omicidio, i reati sessuali, quelli contro la libertà morale, i maltrattamenti contro familiari e conviventi, i reati in materia di prostituzione e omicidio e lesioni colpose.

Gli ambiti nei quali la criminalità delle donne è più presente sono caratterizzati da una componente decisamente minore di violenza. Si tratta infatti dei reati in materia di prostituzione (19,8%), dei delitti di omicidio e lesioni colpose (16,5%) e di quelli contro la libertà morale (14%); in assoluta prevalenza tra questi ultimi vi sono i casi di stalking (il 65% del totale), che riguardano in misura paritaria vittime di sesso maschile e femminile mentre, quando a commetterli sono gli uomini, le donne sono in misura pressoché esclusiva (oltre il 90% dei casi) le destinatarie del comportamento persecutorio[9].

Molto marginale è invece il coinvolgimento delle donne nelle forme di criminalità più violenta nei confronti della persona: le donne sono accusate di omicidio, lesioni dolose e maltrattamenti in una percentuale che oscilla tra il 6% e il 7% di tutte le contestazioni formulate per questi reati; nessun reato sessuale è stato invece contestato alle donne, a fronte di 182 capi di imputazione riguardanti gli uomini. Con riguardo, in particolare, ai casi di omicidio, emerge che quelli realizzati dalle donne, in prevalenza italiane, trovano origine per lo più nell’ambito di una relazione affettiva con un partner abusante (senza, peraltro, che sia stata mai applicata la legittima difesa) o comunque sono stati commessi in danno di un familiare o di un conoscente e all’interno delle mura domestiche. Lo stesso non può dirsi per gli omicidi imputati agli uomini, in prevalenza stranieri e che, al di fuori dei casi di femminicidio, riguardano spesso persone sconosciute, sono collegati all’attività di spaccio di sostanze stupefacenti e si realizzano, spesso in gruppo, in luoghi diversi, anche pubblici come la strada.

È interessante anche notare la diversa rilevanza che ha l’età, per gli uomini e per le donne, nella commissione di questo reato: la stragrande maggioranza degli uomini (il 58,8%) ha commesso il reato in giovane età (tra i 18 e i 36 anni); per le donne il numero più elevato di omicidi (4) è stato commesso nell’ultimo terzile di età, ossia quando avevano già superato i 50 anni (una di esse aveva 76 anni al momento del fatto, realizzato nei confronti del marito dal quale era separata di fatto).

c) Rispetto ai reati a scopo di lucro – che, come si ricorderà, costituiscono per gli uomini la tipologia di reati più frequentemente contestata e per le donne la seconda in ordine di grandezza dopo i reati d’impresa – le fattispecie più rappresentative per entrambe le categorie (il 93,8% per le donne e il 95% per gli uomini) sono le violazioni della legge in materia di sostanze stupefacenti, furti e rapine, frodi, ricettazione e riciclaggio e reati contro la p.a. Tra questi reati sono le frodi ad essere in prevalenza attribuite alle donne (più di 1/4 di tutte le contestazioni per questa tipologia di reati riguarda donne): può trattarsi del delitto previsto dall’art. 640 cp, ma anche di abusi delle carte di pagamento elettroniche (oggi art. 493-ter cp) così come, e in larga maggioranza, della frode assicurativa (art. 642 cp)[10]. Tra gli uomini prevalgono invece reati violenti come la rapina e l’estorsione, che rappresentano da sole 1/3 di tutti i reati a scopo di lucro a loro attribuiti e, viceversa, solo il 6,1% di quelli imputati alle donne. È importante segnalare, a questo proposito, che le rapine commesse dalle donne sono per lo più rapine cd. improprie, nelle quali cioè la violenza (qui rappresentata, come già si è detto, da strattonamenti nei confronti di vigilanti o dipendenti dell’esercizio commerciale intervenuti per recuperare la refurtiva) è esercitata «immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé (…) il possesso della cosa sottratta» (art. 628, comma 2, cp)[11].

D’altra parte, anche con riguardo ai furti – attribuiti alle donne per una quota pari al 16% del loro numero complessivo – il giudizio cui le donne vanno incontro è particolarmente pesante. Si consideri, ad esempio, questo caso emblematico di furto pluriaggravato (inizialmente qualificato come rapina impropria), commesso da cinque giovani donne rom (alcune delle quali minorenni) all’interno di una stazione della metropolitana, per il misero profitto di 40 euro in contanti. In sede di commisurazione della pena, il giudice afferma che «la gravità delle modalità di esecuzione della condotta» (un furto con destrezza realizzato da cinque persone, alcune delle quali minori dei 14 anni) «evidenziano una particolare pericolosità dell’imputata (l’unica giudicata in questa sentenza) che non ha esitato a delinquere nonostante il suo stato interessante ed il fatto che portasse in braccio un bambino di 10 mesi». Per queste ragioni, e per la presenza di numerosi precedenti della stessa tipologia, viene negata l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche e viene applicata l’aggravante della recidiva. Ciò che si rimprovera alle donne rom – al di là del fatto concretamente commesso – è un aspetto della loro cultura del quale loro stesse sono le prime vittime (quale donna vorrebbe andare in giro per le strade in cerca di denaro, essendo in stato di gravidanza e con un figlio di 10 mesi in braccio?); eppure, dopo essere cresciute in un clima di degrado e di violenza già a partire dall’infanzia e dimenticate da qualsiasi intervento di sostegno sociale da parte delle istituzioni, si ritrovano a cumulare un numero elevato di sentenze e di pene da scontare per fatti in sé bagatellari, e finiscono per trascorrere lunghi periodi della loro vita nell’unica istituzione che vuole accoglierle: il carcere, senza che la loro precedente esperienza di vittimizzazione abbia assunto alcun rilievo nel momento in cui vengono giudicate[12].

d) Infine, nella categoria residuale degli altri reati vengono soprattutto in rilievo i reati di falso, le violazioni della legge sull’immigrazione, l’associazione per delinquere (nelle sue diverse forme), la violazione della legislazione in materia di armi e reati contro l’amministrazione della giustizia, come calunnia, falsa testimonianza, simulazione di reato. Di tutte queste tipologie, quelle più ricorrenti tra le donne sono proprio queste ultime: quasi un reato contro l’amministrazione della giustizia su tre è contestato a una donna; in molti casi, tuttavia, si tratta di reati di cui sono accusate donne che avevano in precedenza accusato i propri partner di aver usato violenza nei loro confronti[13]. Coerentemente con quanto visto in precedenza a proposito dei reati (fraudolenti) a scopo di lucro, anche i reati di falso inseriti in questa categoria residuale vedono una diffusa presenza tra le donne: essi rappresentano il 20,5% di tutte le imputazioni per questa tipologia di reati, inferiore solo ai reati contro l’amministrazione della giustizia, che alle donne sono attribuiti nel 30,9% dei casi. Altrettanto coerente con quanto si è detto sin qui in merito alle caratteristiche delle forme di criminalità più specificamente maschili, è il dato sulle violazioni in materia di armi: queste costituiscono per gli uomini le contestazioni più frequenti all’interno di questa categoria residuale, cui corrisponde invece una percentuale minima di casi in capo alle donne (il 5,1% del totale). Anche le associazioni per delinquere sono largamente dominate da uomini (nessuna associazione esclusivamente femminile è emersa e il 75% delle imputazioni per il delitto di cui all’art. 416 cp ha riguardato gli uomini) e le poche donne che vi partecipano hanno ruoli estremamente marginali. Inoltre, quasi sempre il loro coinvolgimento nell’associazione dipende da un legame di parentela o sentimentale con chi riveste un ruolo chiave nell’organizzazione[14]

 

3. Imputazioni plurime e concorso di persone nel reato

Qualche considerazione merita l’eventualità, tutt’altro che infrequente, come già si è detto, che a donne e uomini siano contestati più reati in concorso: in linea generale, questa situazione si realizza, nell’ambito della criminalità sia femminile che maschile, quando è contestato un reato a scopo di lucro, e principalmente la rapina o una violazione in materia di sostanze stupefacenti (nel 26% dei casi per le donne e nel 28% per gli uomini), ovvero quando il capo di imputazione ha ad oggetto reati contro la persona (qui il divario è maggiore: nel 25,8% dei casi per le donne e nel 34,4% per gli uomini). Andando a esaminare la fattispecie “satellite” più frequentemente contestata, si nota che nell’ambito delle imputazioni per “reati contro la persona” essa è rappresentata da un altro reato contro la persona (così nel 67,5% dei casi per le donne e nel 63% dei casi per gli uomini). Quando, invece, si tratta di un “reato a scopo di lucro”, il reato in concorso è diverso per uomini e donne: per i primi è il delitto di lesioni personali (21,7%) oppure un reato in materia di armi (19,7%); per le seconde, invece, è l’associazione per delinquere (35,5%) oppure un delitto di falso (32,7%). Ciò sembra confermare alcuni tratti caratterizzanti abbozzati in precedenza: all’interno della categoria dei reati a scopo di lucro, che può ritenersi molto rappresentativa del fenomeno che stiamo analizzando, essendo quella prevalente tra gli uomini e molto presente anche tra le donne (seconda solo a quella dei reati d’impresa), gli uomini conseguono le proprie finalità attraverso l’uso della violenza (lesioni e impiego di armi) mentre le donne ricorrono a mezzi fraudolenti (frodi e falsi) oppure delinquono in quanto (si ipotizza) sono parte, con ruoli per lo più marginali, di un’associazione per delinquere gestita da uomini (spesso partner o familiari).

Anche l’incidenza delle contestazioni di reati commessi in concorso con altre persone risulta interessante ai nostri fini: da un punto di vista generale, se si escludono dall’analisi i reati stradali e ci si basa sulla imputazione del primo reato (vds. supra, par. 1), si rileva che, per le donne, l’ipotesi della partecipazione di più persone ricorre nel 39,3% dei casi, mentre per gli uomini nel 35,7%. Volendo poi distinguere in base alle diverse categorie di reati, emerge come il dato – sempre più elevato per le donne rispetto agli uomini – appare altissimo, ma comunque sostanzialmente uniforme, quando si tratti di reati a scopo di lucro (50,3% per gli uomini e 54,3% per le donne)[15] e, invece, significativamente diverso quando si tratti di reati contro la persona, per i quali la partecipazione altrui apparirebbe per le donne presente nel 35,7% dei casi e per gli uomini dimezzata al 18,5% dei casi. Ciò significa che non solo le donne sono chiamate a rispondere di un solo reato contro la persona ogni dieci contestati, ma quel reato appare commesso con altre persone (in gran parte uomini) in un buon numero di casi e attraverso un contributo di solito atipico rispetto al reato contro la persona realizzato dall’uomo. 

Può essere utile, a questo riguardo, conoscere la diversa incidenza tra uomini e donne della (ipotizzata) realizzazione in concorso dei principali reati contro la persona, come mostrato nella Tabella n. 5.

 

Tabella n. 5 – Reati contro la persona e concorso di persone (%)

 

Il dato che più sorprende, oltre a quello relativo alle lesioni personali dolose, del quale le donne vengono chiamate a rispondere molto meno frequentemente degli uomini (un reato su 16 a loro attribuiti), riguarda i reati in materia di prostituzione: l’altissima percentuale di (ipotetici) concorrenti nel reato, anche nel caso delle donne (63,2% dei casi), non solo conferma come questa forma di criminalità sia gestita da gruppi criminali, ma induce anche a riflettere sulla dimensione della responsabilità delle donne, che ne sono imputate nel 19,8% dei casi (un reato su 5 sarebbe cioè - anche - a loro addebitabile) e che, tuttavia, non solo non risultano avere alcun precedente penale, ma appaiono di regola essere state loro stesse, in precedenza, vittime di tratta e di sfruttamento della prostituzione; un aspetto, quest’ultimo, che i giudici non sempre tengono nella dovuta considerazione[16]. Emblematica, di come i percorsi di vittimizzazione si mescolino, nel corso del tempo, con il coinvolgimento diretto all’interno dell’attività criminale, è la vicenda di una donna nigeriana, ventenne al momento della commissione del fatto e inserita all’interno di un’organizzazione criminale che gestiva lo sfruttamento della prostituzione di giovanissime ragazze nigeriane: nell’arco temporale di un mese, la sua condotta era consistita nell’andare a prendere la persona offesa alla stazione del bus, accompagnarla all’appartamento dove avrebbero convissuto, comprarle abiti succinti, mostrarle la strada sulla quale si sarebbe prostituita e spiegarle cosa chiedere ai clienti (prezzo e modalità delle prestazioni), prospettandole i guai che avrebbe passato se si fosse rifiutata o non avesse pagato il debito contratto con l’organizzazione. Come si legge nella sentenza, l’imputata aveva una storia personale del tutto simile a quella della vittima di sfruttamento della prostituzione nel caso qui esaminato: sia l’imputata che la persona offesa erano state, sia pure in tempi diversi, vittime di tratta. Tuttavia, la giudice, nel condannare l’imputata, si limita a tenere in considerazione «la toccante testimonianza del vissuto altamente drammatico dell’imputata» per «apprezzare la valenza del contributo confessorio» e per la concessione delle attenuanti generiche (art. 62-bis cp). È difficile non pensare che nei confronti di questa donna sia stata realizzata un’ulteriore violenza, questa volta istituzionale, che culmina nel tentativo di mandare questa donna al paese d’origine; il passato, le traiettorie di vita individuali, le caratteristiche personali, in questo caso legate alla variabile di genere, restano per lo più trascurate, concentrandosi l’attenzione di chi giudica esclusivamente sul fatto, avulso dal suo contesto. 

Interessante è infine, nell’ambito della riflessione sul concorso di persone nei reati contro la persona, la differenza significativa che intercorre tra donne e uomini con riguardo ai reati contro la libertà morale e i maltrattamenti (art. 572 cp): solo nell’1,2% e nel 2,5% dei casi, rispettivamente, gli uomini avrebbero agito in concorso con altre persone, mentre le donne nel 28,1% dei reati contro la libertà morale e nel 26,9% dei casi di maltrattamenti ad esse attribuiti. È questo, verosimilmente, il riflesso della volenza di genere che anche attraverso quei reati gli uomini realizzano nei confronti delle donne, mogli o compagne, presenti o passate. Nello stesso senso, del resto, anche se in maniera inversa per i due generi, si può leggere il dato relativo agli omicidi: in quelli delle donne l’(ipotetico) coinvolgimento di terze persone è limitato (nel 25% dei casi) e decisamente inferiore rispetto a quello degli uomini (47,9%), perché si tratta per lo più di fatti che si realizzano all’interno di relazioni affettive o familiari, che sono per la donna fonte di grave sofferenza.

Volgendo infine lo sguardo ai reati di impresa, merita altresì di essere messo in rilievo che, nel 66% dei casi, le donne (rispetto al 47,2% degli uomini) sono state imputate del reato di bancarotta in concorso con altre persone: un dato che rispecchierebbe il ruolo solo formale di amministratrici rivestito dalle donne all’interno di imprese, nelle quali sono in realtà altre persone (gli uomini, di regola) a svolgere il ruolo di amministratori di fatto. Anche in questo ambito, dunque, si conferma che la commissione del fatto di reato insieme ad altri è una caratteristica qualificante della criminalità femminile, e ciò non solo in relazione ai reati violenti, ma anche per quelli che sono spesso realizzati nell’ambito di una, sia pur minima, struttura organizzativa, sia essa illecita, come i delitti in materia di sostanze stupefacenti e di prostituzione, oppure lecita, come quelli di bancarotta. 

 

4. Una conclusione provvisoria

La ricerca empirica, purtroppo trascurata dagli studi penalistici, ha consentito di mettere in luce aspetti della giustizia penale prima sconosciuti e forse nemmeno immaginabili, quantomeno dall’osservatore esterno. Le informazioni che si possono trarre dai dati che abbiamo raccolto sono, tra l’altro, molte di più di quelle presentate in questa sede e ulteriori elaborazioni essi dunque meritano. Tuttavia, già questo primo livello di analisi consente di svolgere qualche considerazione conclusiva che, più che riguardare eventuali ipotesi di discriminazione indiretta cui le donne possono andare incontro nel nostro ordinamento, perché la neutralità apparente di alcune disposizioni penali potrebbe tradursi in un trattamento per loro deteriore[17], avrà ad oggetto l’interpretazione giurisprudenziale delle disposizioni vigenti, così come è emersa dai provvedimenti analizzati.

Una prima riflessione, già abbozzata in precedenza e, tuttavia, da rimarcare per l’estrema importanza che ci sembra rivestire, riguarda la mancata o comunque insufficiente considerazione che riceve, nell’ambito del giudizio sul fatto, il contesto nel quale è avvenuto: un profilo senz’altro da valorizzare sia per gli uomini che per le donne, ma che nell’ambito della criminalità femminile pare assumere particolare rilevanza. Il carattere tendenzialmente sporadico e occasionale della loro attività delinquenziale induce a interrogarsi – e quindi accertare di volta in volta – su cosa abbia indotto una donna a ricorrervi, dal momento che nella stragrande maggioranza dei casi le donne trovano risposte diverse e alternative ai problemi che il ricorso al reato ha generato.

È l’attenzione rivolta al contesto che può portare a non condannare una donna nigeriana già vittima di tratta per l’attività penalmente rilevante realizzata obbedendo ai suoi aguzzini, applicandole ad esempio la norma sullo stato di necessità (art. 54 cp), come suggerito dalla Cassazione; allo stesso modo, il contesto culturale delle donne (così come dei minori) di etnia rom non può essere ignorato nel momento in cui si devono valutare le loro responsabilità per reati che di quel contesto sono tipica espressione; ancora, e più in generale, qualsiasi forma di violenza già subita delle donne nel corso della loro vita andrebbe tenuta in considerazione[18], dandole il giusto rilievo sul piano della colpevolezza.

Entrando nello specifico di singole interpretazioni giurisprudenziali che sono apparse poco sensibili alle peculiarità che può presentare il reato quando è commesso da una donna, qualche osservazione può farsi con riguardo alla nozione di violenza fisica impiegata per contestare alle donne la rapina impropria, alla luce anche del fatto che l’ordinamento ne parifica il trattamento sanzionatorio a quello della rapina propria e si tratta di una pena elevata: la reclusione da 5 a 10 anni. Lo strattonamento realizzato dalla donna per “liberarsi” del vigilante (che, in un caso, è stato sostituito da uno schiaffo) poco si concilia con quella «energia fisica rivolta contro un soggetto fino al punto di annullarne o limitarne la capacità di autodeterminazione e di azione»[19] che sola pare giustificare l’entità di quella pena. E se è vero che l’orientamento rigoroso della giurisprudenza colpisce indifferentemente uomini e donne, è anche innegabile che forme così blande di violenza sono senz’altro tipiche delle donne: emerge infatti, dai dati della ricerca, la scarsa propensione delle donne verso forme di criminalità violente.

Infine, un ulteriore aspetto che merita di essere segnalato, per l’impatto che produce in modo trasversale sulla valutazione giudiziaria di gran parte dei reati imputati alle donne, concerne il ruolo delle donne quali concorrenti nel reato commesso materialmente da altri (come si è detto, di solito un uomo e anche una persona con cui intercorre un legame affettivo): anche nell’interpretazione di alcune disposizioni che regolano il concorso di persone nel reato non sembra che si tenga sempre in adeguata considerazione la variabile di genere nella modulazione del giudizio. La tendenza, infatti, a dilatare i confini della responsabilità penale fino a comprendere qualsiasi tipo di condotta agevolatrice o di rinforzo produce effetti sfavorevoli soprattutto nei confronti delle donne, poiché sono queste ultime a offrire, nella stragrande maggioranza dei casi, contributi concorsuali di agevolazione o di rinforzo. 

A ciò si aggiunge una discutibile interpretazione dell’attenuante della minima importanza del contributo causale prevista dall’art. 114 cp: una disposizione che è stata autorevolmente definita «la chiave di volta del sistema»[20] per il dosaggio delle pene nell’ambito del concorso di persone nel reato, per la cui disciplina si è scelto di adottare un modello unitario e non differenziato per ruoli. Anche in questo caso, la riduzione degli spazi applicativi dell’attenuante a casi nei quali si potrebbe arrivare a dubitare della stessa efficacia causale della condotta colpisce in modo sproporzionato le donne, che non vedono riconosciuta la minima rilevanza del contributo prestato alla realizzazione del reato. Così, ad esempio, nessuna mitigazione di pena ex art. 114 cp è stata concessa a una donna – condannata alla pena di 3 anni, 4 mesi e 800 euro di multa – che si era limitata a svolgere il ruolo di “palo” durante il furto di una borsetta in un ristorante, trasformatosi poi in rapina impropria per i calci sferrati agli agenti dal concorrente durante la fuga. L’unico caso in cui l’attenuante ha trovato applicazione riguardava una donna sorpresa, insieme al convivente, all’interno di un’auto nel cui cruscotto erano contenute numerose dosi di sostanza stupefacente: l’apporto causale è stato ritenuto dal giudice, in linea con i requisiti stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità, così lieve da apparire quasi trascurabile, del tutto marginale e facilmente sostituibile attraverso l’opera di altri soggetti. 

La strada da percorrere per arrivare a cogliere la specificità femminile anche nell’ambito dei comportamenti criminali delle donne è ancora lunga e piena di ostacoli. Nell’attesa che sia il legislatore a renderla più agevole, c’è da augurarsi che la magistratura voglia dare il suo contributo. 

 

 

1. La ricerca è stata autorizzata da Roberto Bichi, allora presidente del Tribunale di Milano, ed è stata resa possibile dalla collaborazione innanzitutto del personale della cancelleria della IX sezione penale, che ha fornito i dati, e poi del prezioso contributo di colleghi e giovani dottorandi della Cattedra di diritto penale e di demografia dell’Università di Milano-Bicocca. A tutti loro va il nostro più sentito ringraziamento.

2. Come già evidenziato in occasione della pubblicazione dei primi dati analizzati, relativi alla sola criminalità femminile, nel volume di C. Pecorella (a cura di), La criminalità femminile. Un’indagine empirica e interdisciplinare, Mimesis, Milano, 2020, p. 16, l’enorme numero di dati disponibili (circa 40.000 sentenze) ha reso necessaria una delimitazione del campo di indagine. 

3. Tutte le tabelle inserite nel testo sono frutto di nostre elaborazioni, sui dati del Tribunale di Milano.

4. Ciò si spiega, forse, con l’alto numero di reati di impresa di cui, come si vedrà, le donne sono state imputate e nei quali, in gran parte dei casi, si sono trovate coinvolte in occasione della crisi dell’impresa familiare, di cui erano fittiziamente presidenti o amministratrici uniche, benché a gestirla fossero il marito e/o i figli. Ma lo stesso potrebbe dirsi per i pur rari casi di omicidio, soprattutto quando si tratti della uccisione dell’uomo che le ha maltrattate per tutta la vita.

5. Cfr., in proposito, L. Ravagnani, Adamo, Eva e il frutto proibito, e R. Dameno, La percezione della criminalità al femminile, entrambi in C. Pecorella, (a cura di), La criminalità femminile, op. cit., risp. pp. 225 ss. e 265 ss.

6. In precedenza, abbiamo fatto riferimento a questa categoria di reati con l’espressione (atecnica) di «reati contro l’ordine pubblico»: vds. C. Pecorella (a cura di), La criminalità femminile, op. cit.

7. Va segnalato, ai fini di una corretta lettura del fenomeno in esame, che, rispetto a questa categoria di reati, l’inclusione degli ulteriori reati contestati (e non ricompresi nella tabella, che fotografa solo il reato più grave o più significativo tra quelli presenti nel capo di imputazione) modificherebbe sensibilmente il rapporto tra i diversi reati riconducibili, in particolare, agli uomini: il numero delle imputazioni per reati contro la persona salirebbe infatti a 2054 (rispetto ai 1308 indicati), superando così di gran lunga i reati stradali (1310). Per le donne, invece, anche tenendo conto di tutte le contestazioni ricevute, i reati contro la persona a loro ascritti (210 complessivamente) resterebbero comunque inferiori ai reati stradali (che sono 214). A partire dal par. 2.1., volgendo lo sguardo ai reati e non più alle persone imputate, faremo riferimento all’insieme dei reati contestati (per un totale di 12.403 capi di imputazione).

8. Su questi aspetti, vds. C. Pecorella, Uno sguardo sulla criminalità femminile attraverso le sentenze del Tribunale di Milano, in Ead. (a cura di), La criminalità femminile, op. cit., pp. 27 ss.

9. Rispetto a questo reato, il confronto tra generi è già presente nel contributo di V. Maina, Donne e stalking: l’altra faccia della medaglia, in C. Pecorella (a cura di), La criminalità femminile, op. cit., pp. 67 ss.

10. La sovra-rappresentazione di questo tipo di frode all’interno del campione esaminato dipende dal fatto che le società assicuratrici che ne sono vittime hanno, per lo più, la sede legale a Milano e in questa città si concentra quindi la competenza per fatti che sono realizzati in diverse regioni d’Italia.

11. Per queste ipotesi, vds. M. Miedico, La criminalità femminile e i reati a scopo di lucro, in C. Pecorella (a cura di), La criminalità femminile, op. cit., pp. 35 ss.

12. L’inclusione dei rom è da tempo oggetto di attenzione da parte del Consiglio d’Europa, che sul tema ha adottato la raccomandazione 2013/C 378/01 su misure efficaci per l’integrazione dei rom negli Stati membri e, da ultimo, il 12 marzo 2021, l’ulteriore raccomandazione 2021/C 93/01 sull’uguaglianza, l’inclusione e la partecipazione dei rom. Ad essa ha fatto seguito, a livello nazionale, la pubblicazione – lo scorso 23 maggio – della nuova Strategia nazionale elaborata dall’«Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali» (Unar).

13. Cfr. in proposito, M. Dova, Vittime o carnefici? Quando le donne ritrattano le accuse di violenza subita da uomini, in C. Pecorella (a cura di), La criminalità femminile, op. cit., pp. 27 ss.

14. In questo senso, all’esito di un’analisi estesa anche al campione maschile, G. Pepè, La partecipazione delle donne alle associazioni a delinquere, in C. Pecorella (a cura di), La criminalità femminile, op. cit., pp. 81 ss.

15. Merita di essere sottolineato solo il fatto che particolarmente elevata è la percentuale di contestazioni del concorso di persone (art. 110 cp) rispetto ai delitti di rapina ed estorsione, imputati alle donne solo nel 6% di tutti i casi: quella piccola minoranza sarebbe stata realizzata nel 73,5% dei casi in concorso con altre persone.

16. A questo riguardo, e con particolare riferimento alle donne vittime di tratta, si vedano le osservazioni della CEDAW, «General Recommendation N. 38 (2020) On trafficking in women and girls», nonché Cass. pen., sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, che ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’appello di Roma, la quale, confermando la pronuncia di primo grado, aveva condannato per il reato di atti osceni in luogo pubblico – consistiti nell’aver consumato un rapporto sessuale sulla pubblica via – una donna rumena già riconosciuta dalla Corte d’assise d’appello di Roma, con sentenza passata in giudicato, vittima di riduzione in schiavitù a fini di sfruttamento sessuale posto in essere da suoi connazionali. Più in generale, sulla condanna di persone vittime di tratta, per i reati oggetto del loro sfruttamento, si veda la sentenza della Corte Edu nel caso V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, del 16 febbraio 2021.

17. È questo un aspetto sul quale stiamo lavorando e che, a titolo di esempio, mette in discussione le conseguenze della mancata tipizzazione delle condotte concorsuali, che finirebbe col pregiudicare le donne, più spesso condannate per condotte considerate “di rinforzo” del proposito criminoso del loro compagno (e della sua esclusiva traduzione in atto); allo stesso modo, discutibile appare la disciplina contenuta nell’art. 47-quinquies o.p., che prevede la detenzione domiciliare speciale per le donne madri di figli fino a 10 anni, ma che di fatto è raramente applicata alle donne rom, che restano recluse nelle sezioni nido (fino ai 3 anni del figlio) o nei (pochi) Icam esistenti sul territorio. 

18. Si ricorda, a questo proposito, la risoluzione del Parlamento europeo 2007/2116(INI) del 13 marzo 2008 («sulla particolare situazione delle donne detenute e l’impatto dell’incarcerazione dei genitori sulla vita sociale e familiare»), che, sia pure con riguardo alle donne detenute, muove dalla premessa di partenza che «gran parte delle donne detenute è stata vittima di episodi di violenza, abusi sessuali, maltrattamenti nell’ambito della famiglia e della coppia e si trovano in una situazione di forte dipendenza economica e psicologica», così come del «rapporto diretto di tali episodi con la loro fedina penale». La stessa consapevolezza che è alla base della previsione, contenuta nelle regole per il trattamento per le donne detenute (cd. “Bangkok Rules”) approvate dall’Assemblea generale dell’Onu il 16 marzo 2011, secondo la quale è necessario che gli operatori penitenziari tengano conto, assumendo le relative informazioni, del vissuto delle donne rispetto alle violenze subite, ai disturbi mentali o a forme di dipendenza (Rules 6 e 7).

19. Così C. Baccaredda Boy, in E. Dolcini e G. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, tomo III, sub art. 628, § 15, Wolters Kluwer, Milano, 2021 (V ed.).

20. Così C. Pedrazzi, Il concorso di persone nel reato, Priulla, Palermo, 1952, ora in Id., Diritto penale, Scritti di parte generale, vol. I, Giuffrè, Milano, 2003, p. 136.