Genere e diritto penale. Il crimine d’odio misogino
Il contributo tratta del rapporto fra genere e diritto penale, assumendo la misoginia, fondata sull’odio verso le donne, quale motivo che sta alla base della violenza di genere nella sua specifica – e prioritaria – manifestazione di violenza maschile contro vittime femminili. Ripercorso il processo di affermazione del concetto di genere nelle discipline criminologiche e penalistiche, nonché nello scenario internazionale, il saggio tematizza altresì il femminicidio, affrontando il problema della possibile valorizzazione del motivo d’odio misogino nell’ambito della legislazione penale, sotto forma di gender hate crime, anche alla luce del dato vittimologico.
1. Il concetto di genere approda alle scienze penalistiche / 2. La violenza di genere nello scenario internazionale / 3. La criminologia femminista e l’affermazione del “genere” nella letteratura criminologica / 4. Femminicidio e diritto penale / 5. Il crimine d’odio misogino
1. Il concetto di genere approda alle scienze penalistiche
È un dato di fatto: il concetto di genere si è ormai affermato a pieno titolo nell’ambito delle scienze criminologiche e penalistiche. Può essere utile ripercorrere il cammino che ha condotto sino a questo punto.
I dati statistici più recenti e gli accertamenti attuali sulla violenza contro le donne – che, come emerge dalle inchieste di polizia, nei resoconti giudiziari, negli articoli di giornale e nell’effettività dell’opinione pubblica, è un fenomeno in allarmante crescita – inducono all’indagine diacronica. Rispetto al passato, infatti, le denunce per episodi di violenza subiti dalle donne, per quanto ancora in numero contenuto, sono aumentate. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla forma di violenza più estrema (dopo l’omicidio) perpetrata contro la donna, la violenza sessuale: si può dire che, «passato da un relativo silenzio a una chiassosa visibilità», tale reato è quanto mai presente nella realtà sociale[1].
Come ben noto, è l’evoluzione culturale che spiega la diversa sensibilità verso la violenza perpetrata nei confronti di soggetti femminili e i diversi contenuti giuridici che tale violenza ha assunto nel tempo. Soprattutto, la storia della violenza commessa ai danni di soggetti femminili, di cui la storia della violenza sessuale costituisce un ampio capitolo[2], va di pari passo con l’immagine della donna: «in essa i cambiamenti sono paralleli a quelli dei sistemi di oppressione esercitati sulla donna, alla loro permanenza, al loro affinamento, ai loro spostamenti»[3]. La violenza contro le donne è dunque, storicamente, “violenza di genere”.
Se il concetto di genere (derivato dall’originario termine anglosassone “gender”) deve essere inteso, in un’accezione minima e preliminare, pur nella complessità dell’analisi di genere e femminista, come «definizione sociale dell’appartenenza di sesso»[4], è facile comprendere come esso consenta di inquadrare dogmaticamente una forma di violenza che affonda le sue radici nell’immagine sociale della donna così come evolutasi storicamente. Non solo. Come abbiamo avuto modo di sottolineare in altra sede, il concetto di genere si rivela uno strumento di analisi assai efficace anche sul terreno penalistico e criminologico, consentendo di disvelare alcune delle più gravi forme di discriminazione, di genere appunto, riscontrabili nell’ambito della storia della giustizia penale[5].
Tanto che oggi (mutuando dalla tradizione della criminologia sudamericana, che avremo modo di ricordare nel prosieguo) si parla, con riferimento a tale forma radicata di violenza, di “femminicidio”, inteso come violenza rivolta contro la donna «in quanto donna»[6]. In particolare, secondo Barbara Spinelli, autrice del primo lavoro monografico di taglio socio-giuridico sul tema, tale violenza assume forme anche diverse: oltre che fisica, violenza psicologica, economica e istituzionale. «Femminicidio si ha in ogni contesto storico e geografico, ogni volta che la donna subisce violenza fisica, psicologica, economica, normativa, sociale, religiosa, in famiglia e fuori, quando non può esercitare “i diritti fondamentali dell’uomo”, perché donna, ovvero in ragione del suo genere»[7]. Tutto ciò, secondo la studiosa, avverrebbe soprattutto laddove la donna si ribelli al ruolo sociale attribuitole all’interno di una società patriarcale.
È evidente che tale definizione, per quanto incapace di indicare con precisione al giurista i confini della tutela da apprestare – segnatamente, sul terreno penalistico – per arginare la violenza sulle donne, e benché individui un termine (“femminicidio”) sulla cui indeterminatezza si potrebbe dibattere e di cui diremo[8], dimostra la sua valenza sul terreno storico, oltre che – è evidente – politico. Come acutamente osservato di recente, «nelle società moderne, in una certa fase storica, il monopolio della violenza è passato dal singolo individuo allo Stato; però questo non è successo per quanto ha riguardato il monopolio del controllo della violenza sulle donne, che è rimasto all’interno della famiglia patriarcale, con consequenziale diritto per il pater familias, o per il marito, di praticarla»[9].
Senza guardare alla storia più antica, e limitandoci alla storia europea, l’Ancien Régime rappresenta l’esempio di un’epoca di tolleranza del fenomeno della violenza contro le donne. Si pensi, ancora una volta, alla violenza sessuale. Benché severamente punito dai testi giuridici del tempo, il reato di violenza sessuale viene poco perseguito dai tribunali. Soprattutto, i giudici dell’Ancien Régime mostrano un atteggiamento di indulgenza e di comprensione rispetto agli episodi di stupro[10]. Ogni forma di violenza, sia essa fisica o sessuale, viene trattata con incuria, quasi con indifferenza: la sensibilità verso la brutalità è attenuata. La giustizia penale settecentesca, è ben noto, si caratterizza per una crudeltà, un arbitrio e una ferocia che non hanno pari: l’arte del supplizio, ben descritta da Foucault, costituisce una costante nell’amministrazione quotidiana della giustizia e coinvolge anche la donna[11].
Nella visione degli stessi illuministi, s’impone l’idea che la donna non debba essere riconosciuta quale soggetto di diritto e, dunque, non possa godere di alcuna tutela giuridica[12].
Solo negli ultimi decenni del XVIII secolo si manifesta un primo mutamento nel quadro giuridico[13] e, nella giurisprudenza del XIX secolo, si afferma una prima differenziazione delle diverse forme di violenza e assume rilievo, per la prima volta, anche la violenza morale[14].
Evidentemente diverso è il panorama del XX secolo: la nuova uguaglianza uomo/donna trasforma l’atteggiamento delle vittime, garantendo maggior legittimità alle denunce e accuratezza nei processi[15]. Anche se un dato rimane costante, nella storia recente come in quella meno recente: la maggioranza degli atti di violenza contro le donne non viene né denunciata né registrata. Il cd. “numero oscuro” – ossia quel fenomeno, noto alla ricerca criminologica, per cui esiste una criminalità sommersa che non viene a conoscenza dell’autorità giudiziaria e che rappresenta l’ammontare dei reati che non risulta dalle fonti ufficiali – costituisce, sul terreno della “violenza di genere”, un problema assai grave[16].
Poste queste brevi premesse di ordine storico, occorre operare un approfondimento sul concetto di genere.
La nozione di “genere”, che nasce e viene elaborata essenzialmente nei Paesi di lingua anglofona – “genere” è infatti, dicevamo, la traduzione italiana del termine inglese “gender” – deriva dalle discipline mediche e psicologiche. Come è stato osservato, «il concetto di genere viene traghettato da discipline quali la medicina e la psicologia con lo scopo di ampliare la gamma dei fattori da tenere presente nel valutare la condizione delle donne, di tener conto dell’interconnessione di tali fattori e del loro radicamento nel tessuto sociale. Tessuto sociale in cui gli individui considerati, donne e uomini, non solo vivono le proprie vite ma costituiscono le proprie identità. Si tratta quindi di descrivere e analizzare i rapporti tra uomini e donne, non solo attraverso la “naturale” categoria del sesso ma anche attraverso la categoria “sociale” del genere, al fine di dimostrare come sia per nulla consequenziale il rapporto tra essere femmina/maschio, attribuzione di un sesso, e i contenuti dei significati socialmente e storicamente normati di tale appartenenza»[17].
In altre parole, il termine viene utilizzato in un’accezione più ampia per la quale il genere non è solo il sesso biologico, bensì indica un ruolo differenziato attribuito socialmente all’uomo e alla donna, una differenza non più solo corporea, ma di tipo culturale, sociale, economico e storico[18].
Emerge così la funzione del concetto di genere, ossia quella di portare alla luce le pratiche sociali implicite che nascondono relazioni di potere asimmetriche tra i sessi: essendo concetto storicamente e culturalmente condizionato, è soggetto all’evoluzione e al cambiamento risultando, di conseguenza, lo strumento ideale per criticare l’oppressione delle relazioni di genere. Tale funzione critica del genere viene chiaramente esplicitata nella definizione elaborata da Cranny-Francis, che richiama il legame tra potere e nozione di genere, facendo riferimento ad esso come quel concetto che rielabora l’appartenenza sessuale maschile e femminile come una coppia gerarchica: il genere è l’elaborazione, variabile culturalmente, del sesso come coppia gerarchica, dove il maschile è codificato come superiore e il femminile come inferiore. Il genere diviene, pertanto, una categoria utile al femminismo proprio per il fatto di riconoscere tale asimmetria come qualcosa di codificato e quindi mutabile, aprendo lo spazio per il cambiamento[19].
In definitiva, «il genere diviene così non solo un concetto che indicizza le caratteristiche proprie dell’uno o dell’altro sesso, ossia un concetto che fornisce dati di ordine descrittivo, ma viene proposto come un concetto in grado di descrivere e analizzare, fornire spiegazioni, evidenziare meccanismi, cause e processi, circa il tema nodale del femminismo: la condizione delle donne. (…) Si tratta di un concetto in grado di trasportare questi significati “nuovi” propri del femminismo, all’interno delle diverse discipline del sapere, contribuendo a sancire la validità epistemica del femminismo stesso. L’analisi di genere, che di questo concetto si avvale e dal quale prende il nome, viene così applicata alle diverse materie del sapere, dalla giurisprudenza all’economia, dalla medicina alla letteratura, alla storia»[20].
La nozione di genere, così come delineata dai teorici dell’analisi di genere, mostra quindi la sua capacità espansiva: si tratta, infatti, di un concetto che ha finito per permeare molti campi del sapere e molte discipline. Tra queste, anche le discipline giuridiche e, segnatamente, le scienze penalistiche e criminologiche. L’uso della prospettiva di genere nell’analisi giuridica non costituisce un novum, anche se spesso è stato relegato in ambiti settoriali e studi pioneristici[21]. Riservandoci di tornare nel prosieguo sulla genesi del concetto di genere (e di femminicidio), che avviene precipuamente nell’alveo della criminologia[22], vorremmo meglio analizzare la penetrazione del concetto di genere sul terreno penalistico.
«“Nominare il genere − avverte la storica Joan Scott − significa immediatamente evocare il potere” [degli uomini sulle donne]; e – aggiungeremmo − una dimensione di violenza sulle donne è imprescindibilmente legata all’esercizio del potere maschile»[23]. Esiste dunque uno stretto legame fra discriminazione (di genere) e violenza contro le donne.
Come icasticamente osservato: «la violenza di genere è un fenomeno sociale, legato a ruoli e comportamenti che la società stabilisce per i due sessi. Ma non è solo la società ad essere messa in questione. C’è per lo meno anche la cultura, che contribuisce all’accettabilità sociale della violenza sulle donne. Perciò la violenza di genere è anche un fenomeno culturale. In forza del quale il sesso femminile (il modo di percepire e di stabilire rapporti tra i sessi) è uno dei fattori socio-ambientali che possono dar luogo a una predisposizione specifica delle donne a subire certe aggressioni e a diventare soggetti passivi di certi reati. Nel linguaggio dei criminologi è un fattore di vittimizzazione della donna rispetto ai reati a vittima personalizzata perpetrati nel circoscritto ambito del rapporto intersubbiettivo tra autore e vittima»[24].
Proprio partendo da tale presupposto, è stato possibile inquadrare la violenza di genere quale concetto con cui si nominano tutte le forme di violenza psicologica, fisica e sessuale perpetrate ai danni di vittime femminili “in quanto donne”, oggetto di criminalizzazione da parte del diritto penale[25]. Tale descrizione è, tuttavia, solo parziale (né esiste ad oggi una definizione del concetto nel codice penale italiano). Per cogliere la diffusione del costrutto sul terreno penalistico (su quello criminologico, ove esso nasce, diremo poi) occorre infatti indagare l’evoluzione della nozione di violenza di genere nell’ambito del diritto internazionale, dove il termine ha trovato un suo primo riconoscimento giuridico, cui ha fatto seguito l’adeguamento delle normative penali nazionali e l’ingresso a pieno titolo, anche se solo in tempi recenti, del concetto nel linguaggio penalistico[26].
2. La violenza di genere nello scenario internazionale
Come sottolineato in dottrina, il tracciato dei diritti nazionali, è stato «disegnato dal diritto internazionale pattizio che va analizzato come premessa indispensabile allo studio delle norme nazionali, per coglierne le origini e i tratti comuni»[27].
È ben noto che, nelle prime costituzioni liberali sui diritti umani, la declinazione dei diritti dell’uomo ha significato per lungo tempo solo il maschile. Progressivamente, tuttavia, si è assistito a un processo di “universalizzazione dei diritti” senza distinzioni di genere[28]. Come evidenziato efficacemente, «il tema specifico della tutela dei diritti delle donne è divenuto oggetto di studio e di dibattito solo in tempi recenti, da quando cioè nella comunità internazionale si è iniziato ad avvertire il bisogno di differenziare la tutela dei diritti umani per genere, nonché di verificare l’effettivo godimento da parte delle donne di diritti fondamentali, quali il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla dignità personale»[29].
Il primo strumento giuridico internazionale nel quale il tema dei diritti umani delle donne viene affermato espressamente (benché la stessa Cedu preveda un generale divieto di discriminazione in base sesso all’art. 14, sancito anche nei trattati europei) è la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), adottata in ambito Onu nel 1979. Posta nel solco della Convenzione per l’eliminazione delle discriminazioni razziali del dicembre 1965, cui l’Italia ha dato attuazione con la “legge Reale-Mancino”[30], la Convenzione CEDAW adotta una prospettiva, ascrivibile al femminismo liberale, secondo la quale la discriminazione è considerata il fattore all’origine della posizione di subordinazione della donna nella società.
La violenza di genere, tuttavia, non viene nominata, né il problema della violenza contro le donne è affrontato apertamente[31].
Occorrerà attendere le raccomandazioni nn. 12/1989 e 19/1992 del Comitato CEDAW perché si specifichi che la Convenzione deve ritenersi abbracciare anche questo fenomeno e soprattutto si definisca la violenza contro le donne come «una forma di discriminazione che impedisce gravemente ad esse di godere di diritti e libertà al pari degli uomini», e si ascriva a tale discriminazione la «violenza basata sul genere, che è la violenza che si dirige verso la donna perché è una donna, o che colpisce le donne in modo sproporzionato» (parr. 1 e 6 della raccomandazione n. 19)[32]. Una definizione che, come vedremo, anticipa quella fornita dalla Convenzione di Istanbul del 2011 e che riecheggia la definizione sociologica di femminicidio più sopra ricordata.
Sempre in sede Onu, si segnala, benché strumento di soft law, la «Dichiarazione di Vienna» del 1993, la quale rappresenta «un testo giuridico fondamentale»[33] nel percorso di affermazione dei diritti delle donne, in quanto, oltre ad accogliere la prospettiva di genere, nonché la titolarità di diritti umani inalienabili in capo alle donne e alle fanciulle, pone al centro il tema della violenza contro le vittime femminili, al quale viene riservata una dedicata trattazione (parr. II.36 ss., part. par. II.38): «la Conferenza mondiale sui Diritti umani sollecita il pieno e uguale godimento, da parte delle donne, di tutti i diritti umani»; in particolare, essa «pone l’accento sull’importanza di lavorare per l’eliminazione della violenza contro le donne nella vita pubblica e privata, per l’eliminazione di tutte le forme di molestie sessuali, sfruttamento e tratta delle donne, per l’eliminazione di pregiudizi di genere nell’amministrazione della giustizia e per lo sradicamento di ogni conflitto che possa insorgere tra i diritti delle donne e gli effetti dannosi di certe pratiche tradizionali o abituali, di pregiudizi culturali ed estremismi religiosi. La Conferenza mondiale sui Diritti umani fa appello all’Assemblea Generale affinché adotti la bozza di Dichiarazione sulla violenza contro le donne e fa pressione sugli Stati affinché combattano la violenza contro le donne in accordo con le sue disposizioni. Le violazioni dei diritti umani delle donne in situazioni di conflitto armato rappresentano violazioni dei fondamentali principi del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani. Tutte le violazioni di tale tipo, incluso in particolare l’assassinio, lo stupro sistematico, la schiavitù sessuale e la gravidanza forzata, richiedono una risposta particolarmente efficace».
Guardando agli strumenti di hard law in materia di violenza di genere, rileva altresì la cd. “Convenzione di Belém do Pará” o Convenzione interamericana sulla prevenzione, la repressione e l’eliminazione della violenza contro le donne, del giugno 1994: un testo giuridico vincolante, dedicato precipuamente alla violenza di genere[34]. Essa, infatti, si prefigge l’eliminazione totale di ogni forma di violenza contro le donne, e rappresenta una risposta a una preoccupazione presente nel Continente americano riguardante la gravità della discriminazione storica subita dalle donne.
Ancora una volta, di estremo rilievo è il profilo definitorio. L’art. 1 della Convenzione recita: «ai fini della presente Convenzione, per violenza contro le donne si intende ogni atto o condotta, fondata sul genere, che cagioni la morte o un danno o sofferenza fisica, sessuale o psicologica alle donne, sia nella sfera pubblica, sia in quella privata». Così prosegue l’art. 2: «si intende che la violenza contro le donne comprende la violenza fisica, sessuale e psicologica a) commessa all’interno della famiglia o nell’ambito domestico o all’interno di qualunque altra relazione interpersonale, che l’autore condivida o meno il domicilio della donna, compresi, tra l’altro, lo stupro, le percosse, gli abusi sessuali; b) commessa nella comunità, perpetrata da qualunque persona, e che comprende, tra l’altro, lo stupro, l’abuso sessuale, la tortura, il traffico di persone, la prostituzione forzata, il sequestro, le molestie sessuali sul luogo di lavoro, negli istituti di istruzione, nelle strutture sanitarie e in ogni altro luogo; c) commessa o tollerata dallo Stato o da agenti dello Stato, indipendentemente da dove essa abbia luogo»[35]. Si dà, quindi, espresso rilievo al “genere”, che deve essere il motivo ispiratore della condotta, e si sottolinea che la violenza di genere comprende la violenza fisica, sessuale e psicologica in entrambe le sfere – pubblica e privata – aprendo, tra l’altro, la strada all’ipotesi del “femicidio”, ossia dell’uccisione della vittima femminile[36]. Sono previsti altresì obblighi in capo agli Stati, i quali dovranno introdurre le riforme giuridiche utili a prevenire, sanzionare ed estirpare la violenza di genere (art. 7, lett. a e b): di fatto, la Convenzione prevede la responsabilità degli Stati nel caso di lesione dei diritti delle donne, un principio già sancito dalla giurisprudenza internazionale, specie a seguito della prima sentenza del 1988 relativa al caso Velásquez Rodríguez c. Honduras, in cui la Corte interamericana ha statuito che il rispetto dei diritti convenzionali non implica il loro mero riconoscimento, bensì impone obblighi positivi agli Stati riguardanti l’adozione di misure atte a prevenire le violazioni e a sanzionare i colpevoli[37].
In conformità a tale giurisprudenza, la Corte interamericana ha emesso, nel 2009, una importante sentenza relativa alla tutela dei diritti delle donne nel caso González e altre (“Campo Algodonero”) c. Messico, una sentenza che ha giudicato sui noti fatti di Ciudad Juarez (sparizione, tortura, stupro e uccisione di migliaia di vittime femminili nel disinteresse delle istituzioni), fatti da cui origina la stessa terminologia di stampo criminologico di femminicidio, nella quale lo Stato convenuto è stato ritenuto colpevole sia della mancata protezione di tre donne, due delle quali minorenni, sia della mancata prevenzione dei crimini compiuti nei loro confronti, sia anche della mancanza di diligenza nelle indagini riguardanti gli omicidi e, infine, dell’assenza di adeguate forme di riparazione[38].
È tuttavia acclarato che una svolta in campo internazionale nella lotta alla violenza di genere sia avvenuta nel 1995, in occasione della quarta Conferenza mondiale sulla Donna, tenutasi a Pechino, un evento considerato di importanza storica. Come sottolinea Corn, «l’importanza storica di quell’incontro è ancora oggi legata alla sua dimensione operativa: poiché si poteva registrare una concordanza universale autentica sul principio di uguaglianza tra gli uomini e le donne, da quel momento in avanti divenne ineludibile per tutti gli Stati farsi carico di rimuovere gli ostacoli alle pari opportunità»[39]. In particolare, ne è conseguito l’obbligo, per gli Stati, delle cinque “P”: to promote, promuovere una cultura non discriminatoria; to prevent, adottare misure che prevengano la violenza maschile sulle donne; to protect, proteggere le donne che vogliono fuggire dalla violenza maschile; to punish, perseguire i crimini commessi ai danni delle vittime femminili; to prosecute compensation, risarcire le vittime di violenza di genere[40]. Non a caso, anche la riforma dei reati sessuali avverrà nel nostro Paese proprio nel 1996, con la nota legge n. 66, a seguito di questo forte impulso internazionale mosso dalla Conferenza di Pechino.
Il quadro normativo internazionale sin qui delineato, pur ricostruito senza pretese di esaustività, se restituisce un’universalità dei diritti umani, riconosciuti unanimemente oggi anche alle donne, non consente tuttavia una ricostruzione univoca del concetto di “violenza di genere”, il che segnala la complessità e la poliedricità della nozione. Ciononostante, in questo quadro giuridico si staglia la Convenzione di Istanbul (2011)[41]: si tratta di un testo vincolante che, pur avendo dimensione regionale e paneuropea, si denota per il carattere innovativo rispetto ai precedenti atti pattizi in quanto, recependo gli esiti più proficui del dibattito internazionale sulla violenza di genere, li cristallizza fornendo per la prima volta un inquadramento dogmatico della nozione e una definizione che si apprezza, in un’ottica penalistica, per la precisione, in ossequio al principio di legalità. Tale testo normativo, che si segnala anche sotto il profilo della prevenzione e dell’assistenza alle vittime, merita pertanto una disamina approfondita.
Sin qui il concetto di “violenza di genere” è stato utilizzato in un’accezione storica e sociologica e, nell’ambito della legislazione internazionale, come si diceva, non si rinviene una definizione giuridica condivisa della nozione. Le stesse definizioni utilizzate – nella letteratura anglosassone – per indicare la violenza contro le donne si dimostrano frammentarie e segnalano il progressivo mutamento del rapporto fra i sessi: dalla definizione di “battered women” utilizzata negli anni settanta, si è passati negli anni novanta a quella di “domestic violence”, sino all’uso del termine “intimate partner violence”, indice del fatto che la violenza sulle donne non è più solo frutto di dinamiche gerarchiche e patriarcali, ma matura sempre più spesso nell’ambito di rapporti di affezione[42], benché occorra ricordare che, come sottolineato di recente, nel contesto italiano, si è preferita l’espressione “violenza di genere” a quella di “violenza domestica”[43].
È tuttavia necessario – perché tale termine possa assumere una valenza sul terreno penalistico – riuscire a inquadrare dogmaticamente la categoria della violenza di genere in modo che non si violi il principio di precisione che del principio di legalità, fondamentale in materia penale, è diretto precipitato normativo. A parere di chi scrive, la legittimazione e l’inquadramento dogmatico del concetto di violenza di genere sono oggi forniti – per la prima volta – dalla Convenzione di Istanbul, sottoscritta l’11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia con legge n. 77/2013 (entrata in vigore il 1° agosto 2014).
Subito dopo il «Preambolo» della Convenzione – ove viene dato espresso riconoscimento alla natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere e strumento di costrizione delle donne in una posizione subordinata rispetto all’uomo – e subito dopo l’esplicitazione dell’obiettivo precipuo della Convenzione – individuato nella volontà di proteggere le donne da ogni forma di violenza e di prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica – si rinviene infatti una parte definitoria (art. 3)[44]. È rimarchevole che, in tale sforzo definitorio, sia enucleato il significato di numerosi dei concetti sin qui analizzati.
L’art. 3, infatti, chiarisce che:
«Ai fini della presente Convenzione: a) con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; b) l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; d) l’espressione “violenza contro le donne basata sul genere” designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato».
Tale ultima definizione, in particolare, riecheggia la nozione di violenza di genere, di matrice storica e sociologica, ricordata in apertura, mostrando come in sede internazionale l’inquadramento dogmatico della violenza di genere quale violenza agita contro la donna “in quanto donna” abbia ottenuto oggi pieno riconoscimento. Così come lo stesso concetto di genere viene declinato secondo la ricostruzione più sopra fornita: con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti, che una determinata società considera appropriati per donne e uomini. Non solo. Si chiarisce apertamente che la violenza di genere è una forma di discriminazione contro le donne e comprende tutti gli atti di violenza fondati sul genere sia di natura fisica che sessuale, psicologica o economica, nell’ambito della vita pubblica oltre che di quella privata. Da ultimo, si definisce la “violenza domestica” quale violenza nella sfera famigliare e affettiva[45].
Da questo punto di vista, la Convenzione costituisce un importante approdo, benché non si ignori che già gli altri trattati internazionali più sopra ricordati avessero anticipato tale esito: si pensi, in particolare, alla già citata Convenzione interamericana per prevenire, sanzionare e sradicare la violenza contro le donne (1994) nonché alla nota Convenzione CEDAW. Come è stato sottolineato di recente, «in questi documenti internazionali si passa da un dibattito ampio e disordinato, in cui finiscono per essere citate e valorizzate le posizioni più estreme, a testi, certo migliorabili, che però stabiliscono punti chiari e certificano impegni assunti dai sottoscrittori», riconoscendo che «la violenza contro le donne è un problema reale e di grande ampiezza»[46]. È proprio sotto il profilo della chiarezza, o più correttamente del principio di precisione[47], che dall’angolo visuale strettamente penalistico si apprezza la Convenzione di Istanbul: essa consente oggi di inquadrare non solo il concetto di “violenza di genere”, ma anche e soprattutto le figure di reato che possono legittimamente rientrare nel concetto ampio di violenza di genere. I redattori della Convenzione hanno voluto, sin dall’inizio, che le prescrizioni penali fossero «precise and foreseeable» e fossero sottoposte al vaglio di una commissione deputata al monitoraggio della loro attuazione, conosciuta sotto il nome di GREVIO[48]. Da un lato, già nel «Preambolo» si esplicitano le condotte in cui la violenza di genere si sostanzia, «riconoscendo con profonda preoccupazione che le donne e le ragazze sono spesso esposte a gravi forme di violenza, tra cui la violenza domestica, le molestie sessuali, lo stupro, il matrimonio forzato, i delitti commessi in nome del cosiddetto “onore” e le mutilazioni genitali femminili, che costituiscono una grave violazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze e il principale ostacolo al raggiungimento della parità tra i sessi».
Dall’altro, la Convenzione contiene un capitolo (V) dedicato al diritto sostanziale, ove esplicitamente vengono indicati obblighi di incriminazione che incombono in capo agli Stati firmatari e che comportano una sorta di “tipizzazione” della violenza di genere sino ad ora lasciata in realtà alle ricostruzioni della dottrina e della giurisprudenza più sensibile ai temi del “genere”. Si contemplano essenzialmente nove condotte criminose che devono essere oggetto di criminalizzazione, laddove, come accade in molte legislazioni, già non lo siano: la violenza psicologica (art. 33), gli atti persecutori (stalking, art. 34), la violenza fisica (art. 35), la violenza sessuale, compreso lo stupro (art. 36), il matrimonio forzato (art. 37), le mutilazioni genitali femminili (art. 38), l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata (art. 39), le molestie sessuali (art. 40). Tutte condotte da punire anche nella forma tentata e nell’ipotesi del favoreggiamento e della complicità (art. 41) e da applicarsi a prescindere dal rapporto tra la vittima e l’autore del reato (art. 43). Ricordando che, sul terreno della tutela della donna dalla violenza di genere, l’Italia sconta un certo ritardo culturale[49], ci preme sottolineare un dato significativo sotto il profilo definitorio: la Convenzione di Istanbul, a dispetto della confusione spesso ingenerata dall’ampio dibattito sviluppatosi nell’opinione pubblica e, di recente, anche nell’ambito della dottrina penalistica, sceglie di non inquadrare la violenza di genere nel concetto di “femminicidio”[50], riconoscendo forse la specificità di una simile terminologia che, foriera di una certa ambivalenza semantica, nasce nel contesto sudamericano e viene utilizzata dapprima dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, quale neologismo che individua una serie di condotte misogine e in particolare coniata in occasione di alcuni fatti avvenuti nella città di Ciudad Juarez in Messico, ove nel 1992 si assistette alla sparizione, alla tortura, allo stupro e alla uccisione di oltre 4.500 donne nel disinteresse delle istituzioni[51]. Una teorica, quella del femminicidio, in seguito sviluppata da Diana Russell, sociologa e criminologa femminista statunitense[52], cui viene ascritto il merito di aver nominato il fenomeno e di aver incluso nel concetto non solo le uccisioni di donne in quanto donne, ma tutte le condotte prodromiche del tragico esito finale della morte femminile[53]. Sull’origine di tale termine e sulla sua tematizzazione ad opera della dottrina criminologica ci soffermiamo ora brevemente[54].
3. La criminologia femminista e l’affermazione del “genere” nella letteratura criminologica
Nonostante la stigmatizzazione del fenomeno della violenza di genere abbia subito solo in tempi recenti, anche grazie a un acceso dibattito politico sul tema promosso dai movimenti femminili, un’accelerazione, esiste un dato costante rispetto a tale forma di violenza: l’onnipresenza di norme regolatrici. Ciò vale in particolare sul terreno della violenza sessuale: «se la violenza sessuale è universale, così lo sono le norme contro la violenza sessuale»[55].
Non solo. Un’ulteriore costante in questa materia è rappresentata dalla presenza di «una doppia normativa», «espressione di una doppia morale»[56], una per gli uomini e una per le donne. Basti pensare, quale esempio di doppia normativa, all’adulterio, figura criminosa esistita nel nostro ordinamento sino al 1969 e riservata al solo tradimento della donna e non dell’uomo: con la punizione dell’adulterio si criminalizzava la violazione del diritto di proprietà dell’uomo sulla donna[57]. O ancora, alla norma sul cd. “matrimonio riparatore” (art. 544 cp), che stabiliva l’estinzione dei reati di violenza carnale, atti di libidine violenti, ratto a fine di libidine, seduzione con promessa di matrimonio commesso da persona coniugata e corruzione di minorenni (artt. 519-526 e 530 cp), posti in essere nei confronti di una donna, nel caso in cui lo stupratore acconsentisse a sposarla, salvando l’onore femminile e familiare. Nonché alla stessa norma sull’omicidio «a causa d’onore» (art. 587 cp), la quale, come acutamente osservato, «ipotizzando il corpo della donna come proprietà di un uomo, padre, marito, fratello, considerava meno grave di altre forme di omicidio di diverso movente − e sanzionava con pene molto attenuate − l’uccisione della moglie, figlia o sorella (o del marito nel caso che ad esser tradita fosse stata la donna, nonché dell’altro protagonista della illegittima relazione carnale) che avesse trasgredito a un modello di comportamento tradizionale (la fedeltà coniugale), se il fatto era commesso dall’autore nello stato d’ira (nella prassi sempre presunto) determinato dall’offesa arrecata all’onore proprio o della famiglia (di cui si doveva tener conto anche a fini giuridici, e quindi in ambito penale)»[58].
Considerando ancora l’esempio paradigmatico della violenza sessuale, spesso tale reato ha assunto non tanto il significato di violenza, quanto quello di rapporto sessuale con la donna d’altri e per molto tempo, sino agli anni settanta, la violenza sessuale maritale non è costituita come reato[59]. Tanto che si è a lungo ritenuto che lo stupro coinvolgesse, anziché due, tre soggetti: lo stupratore, la vittima, colui che sulla vittima vantava un diritto di proprietà[60].
Alcuni cenni sui profili criminologici e, in particolare, sulle indagini condotte dai criminologi in materia di delittuosità di genere appaiono imprescindibili, anche al fine di completare il quadro storico, giuridico e sociologico delineato.
La prospettiva di genere, nell’analisi criminologica, parte dalla considerazione della presenza della “doppia normativa”, espressione di “una doppia morale” di cui abbiamo detto. È essenzialmente nel contesto americano (specie sudamericano), nell’ambito della criminologia femminista, che si sviluppa, a partire dalla premessa di cui sopra, la prima analisi di genere applicata agli studi criminologici. Nella ricostruzione operata dalla letteratura femminista italiana, si deve a Carol Smart, negli anni settanta, la prima serie di indagini empiriche volte a studiare la vittimizzazione femminile, che, benché non assente nella criminologia tradizionale, assume, nel contesto della criminologia americana, un ruolo centrale[61].
Sempre a una criminologa americana, Jane Caputi, si deve l’evidenziazione del ruolo che il “dominio patriarcale” esercita nella motivazione dei delitti sessuali, nonché la genesi, come già sottolineato, del termine femminicidio che, secondo Diana Russell – colei che ne fornisce la definizione generalmente accolta –, esclude le uccisioni di un uomo da parte di un uomo (classificate come omicidi) e interessa esclusivamente le uccisioni di una donna da parte di un uomo, e si distingue in diverse categorie a seconda che si tratti di reato legato al contesto famigliare o meno[62]. Saranno poi Elisabeth Frazer e Debora Cameron, negli anni novanta, ad analizzare le uccisioni con movente sessuale in una prospettiva di genere, rendendo evidenti le relazioni di potere connesse a tale categoria di reati[63]. La stessa Russell, infine, negli anni duemila, in opposizione alla concezione di intimate femicide di Karen Stout[64], riferita all’uccisione di donne da parte del partner, riproporrà la sua concezione più evoluta di “femicide”, da intendersi come «the killing of females by males becuase they are female»[65].
Alla criminologia americana, soprattutto, si devono le prime sistematiche indagini empiriche volte a far luce sulla realtà del femminicidio, inteso sia nella accezione più ristretta, quale uccisione del soggetto femminile in quanto tale, sia nella versione più allargata del termine, a indicare tutte quelle condotte prodromiche all’evento morte capaci di rientrare nel concetto, accolto oggi dalla Convenzione di Istanbul, di violenza di genere: a Marcela Lagarde e alla Commissione speciale sul femminicidio in Messico, che la studiosa presiedette, al fine di far luce sui noti fatti di Ciudad Juarez, si deve tale concezione ampia e la “istituzionalizzazione” delle indagini criminologiche in materia di «feminicidio» (secondo la terminologia preferita dall’antropologa)[66]. Da lì, la criminologia americana si è arricchita di una tradizione di studi e di ricerche empiriche, oltre che di disposizioni legislative (si pensi al Guatemala, il cui codice penale contempla oggi il femminicidio come reato autonomo, insieme ad altri numerosi Paesi latinoamericani, tra cui il Brasile, il Cile, la Costa Rica, l’Honduras, il Perù etc.)[67], assai scarne invece nella criminologia e nel diritto penale europeo, come testimoniano anche le poche ricerche rinvenute in Italia e la solo recente emersione del dibattito sul femminicidio come reato[68].
Alla criminologia femminista e al femminismo americano si devono anche le prime analisi di genere in materia di violenza sessuale, la più grave forma di violenza di genere dopo l’omicidio. Come è stato sottolineato, «è stato il movimento femminista ad annotare per primo e a mettere in luce il fatto che i perpetratori di determinati atti violenti, come la violenza domestica e la violenza sessuale, fossero maschi. Tutto ciò era strettamente correlato con l’attivismo femminista in difesa delle donne vittimizzate»[69].
Il nuovo approccio femminista nei confronti della violenza sessuale, il cui manifesto era rappresentato dal libro Against Our Will di Susan Brownmiller (1976)[70], evidenziava alcuni aspetti della violenza a sfondo sessuale: la natura maschile della violenza sessuale, l’elevato numero di violenze non denunciate, la ristrettezza della nozione giuridica che non comprendeva la violenza maritale, il doppio trauma per le vittime della violenza, prima da parte dell’autore di reato e poi da parte di un sistema giudiziario patriarcale, la frequenza del cd. “date rape”, ossia della violenza sessuale fra conoscenti. In ultima analisi, l’approccio femminista additava la natura diffusa della violenza sessuale e la sua accettazione sociale, fino a spingersi, nelle versioni più radicali, ad accusare tutto il genere maschile di una intimidazione ai danni delle donne[71]. Esso legava la violenza sessuale al “sistema sociale patriarcale” e all’egemonia della visione culturale sessista, che consente all’uomo di esercitare autorità sulla donna, riducendola a un mero oggetto[72].
I vantaggi di un tale approccio radicale rispetto a quello tradizionale, che vedeva nell’autore di violenza sessuale un soggetto patologico, risiedevano nello spostamento dell’attenzione sui “maschi normali”, sulla violenza sessuale a opera di conoscenti e sulla violenza domestica, nonché sulla creazione di un legame fra sessualità maschile e violenza sessuale, tutti dati che spinsero il sistema giudiziario a prendere in carico seriamente i reati di genere a sfondo sessuale. Tuttavia, i limiti di tale approccio sono stati presto messi in rilievo dai movimenti femministi successivi: da un lato, si è sottolineata la mancata differenziazione fra diversi tipi di violenza sessuale; dall’altro, la trasformazione della donna quale vittima passiva, deprivata di ogni capacità d’iniziativa; infine, il rischio di iper-predizione e la mancata valutazione della natura sessuale della condotta[73].
Lo stupro – occorre ricordarlo – è uno dei più gravi crimini in materia sessuale, la cui tutela, in una prospettiva storica e culturale, ha subìto un’evoluzione continua in ragione della diversità degli usi, dei costumi e delle proibizioni in materia. Come si fa spesso acutamente osservare, il comportamento sessuale umano, diversamente da quello di altre specie, è un comportamento relativamente variabile nel tempo e nello spazio perché dipende, oltre che dall’impulso, anche dalla coscienza e dalla volontà del soggetto orientata da parametri culturali e quindi storici, sociali, religiosi e geografici. Il comportamento sessuale è dunque, al tempo stesso, istintivo e sociale. Ecco che in quest’ottica la visione originaria del femminismo trova, nonostante gli aspetti critici evidenziati, una sua perdurante legittimazione (anche in ragione, come diremo, delle evidenze criminologiche sul profilo dell’autore di reati sessuali)[74].
Sempre alla criminologia americana si devono le principali e più recenti indagini in tema di violenza sessuale, indagini che evidenziano una nuova percezione del fenomeno rispetto alle prime valutazioni frutto dell’approccio femminista. Si segnalano, innanzitutto, alcune ricerche in tema di percezione sociale rispetto alla devianza sessuale. Le ricerche hanno evidenziato una sostanziale univocità sul punto della gravità della violenza sessuale. Attraverso il metodo dell’intervista, alcuni studi sugli indici di criminalità e sulla misurazione della gravità dei reati, in particolare lo studio di Thurstone, nel 1920, mostravano che gli intervistati (studenti) consideravano la violenza sessuale come il reato in assoluto più grave, ancor più dell’omicidio, e tra i reati a sfondo sessuale senz’altro il più grave[75]. In questa tradizione di studi, si staglia come significativo lo studio di Sellin e Wolfgang, che ha tentato di valutare il livello di gravità di alcuni comportamenti tra i quali la violenza sessuale, la prostituzione, l’incesto, gli atti di libidine, la corruzione di minore, l’omosessualità, l’adulterio, l’esibizionismo, i rapporti con minorenni, le molestie telefoniche. Tale ricerca è stata replicata negli stessi termini da alcuni criminologi italiani (Delogu e Giannini) agli inizi degli anni ottanta: prendendo in considerazione le valutazioni di un campione molto ampio di soggetti (studenti universitari, studenti di liceo, appartenenti alle forze dell’ordine, magistrati, uomini politici e di Chiesa, detenuti e cittadini qualsiasi), i due studiosi rilevano come la violenza sessuale accompagnata dall’omicidio sia considerata il reato più grave. Inoltre, la violenza sessuale risulta seconda in ordine di gravità dopo l’omicidio[76].
Un dato, dunque, emerge come acquisizione criminologica: la violenza sessuale, espressione massima, secondo la criminologia femminista, della “dominazione patriarcale” dell’uomo sulla donna, oltre che statisticamente più frequente, e quindi esempio primo di violenza di genere, a differenza di quanto accadeva nel passato anche recente, è oggi percepita come un reato assai grave, se non forse come il più grave. Ciò potrebbe spiegare anche l’attenzione che l’opinione pubblica e i mass-media dedicano oggi alla violenza di genere, a fronte di un’incidenza allarmante del fenomeno.
In particolare, la criminologia e la psichiatria hanno indagato sulla gravità degli effetti che la violenza sessuale può provocare sulla vittima. Sotto questo aspetto, si è osservato che la violenza sessuale produce sulla vittima una serie di effetti patologici, sia nel lungo che nel breve periodo. Si tratta di conseguenze con natura variabile in relazione all’entità della violenza e anche in relazione alla capacità della vittima di elaborare il trauma subìto e di reagirvi[77].
Sotto altro profilo, la criminologia studia l’autore della violenza sessuale, interrogandosi sulla natura “normale” o “patologica” di quest’ultimo. Ci si chiede, cioè, se gli autori di violenze sessuali siano affetti da turbe psichiche di rango patologico. In realtà, la risposta è negativa. La motivazione dello stupro è di regola riconducibile al potere (come già affermato dal femminismo) o alla rabbia e raramente a patologie di natura sessuale. Si afferma che, per lo più, l’autore di violenze sessuali è motivato dal fatto di aver recepito una concezione culturale del sesso come strumento di potere e di dominio sugli individui più deboli[78].
La ricerca criminologica, infine, data l’incompletezza e l’ambiguità delle statistiche ufficiali (spesso l’aggressione sessuale sfugge all’annotazione statistica, quando non accada che le statistiche stesse vengano raccolte in maniera inaccurata), ha cercato anche di misurare l’incidenza della violenza sessuale, tentando di calcolare quanti uomini potrebbero essere disposti ad ammettere un comportamento sessuale imposto. Le ricerche evidenziano un’elevata vittimizzazione femminile. In questo filone di indagini, le due ricerche più note sono quelle di Mary P. Koss e della stessa Russell. La prima studiosa, osservando un campione molto elevato di donne e uomini in 32 istituti superiori americani, rilevava come oltre il 27% delle studentesse con più di 14 anni avesse subito uno stupro (15%) o un tentativo di stupro (12%). L’8% circa degli studenti maschi ammetteva di aver commesso un atto riconducile alla nozione legale di stupro. Analogamente, Russell scelse un campione di circa 900 donne di età superiore ai 18 anni, estratte casualmente tra i residenti nella città di S. Francisco. Il 24% delle donne sosteneva di essere stata violentata e la percentuale saliva a oltre il 40% se si consideravano i tentativi di stupro[79].
La tradizione di studi criminologici, qui brevemente tratteggiata, rivela una realtà criminologica complessa, quella della violenza di genere – espressione a nostro avviso preferibile non solo per la sua recente recezione da parte della Convenzione di Istanbul, ma anche per una certa “confusione” che attualmente domina, come diremo, il dibattito latino-americano (e oggi anche europeo) in tema di femminicidio[80] –, che impone dunque un approfondimento della tematica del femminicidio in ottica penalistica.
4. Femminicidio e diritto penale
L’etimologia del termine “femminicidio” è ben nota. Il termine deriva dalle parole latine femina e caedere (“uccidere”) e allude, almeno letteralmente, all’uccisione della donna indistintamente da parte di un uomo o di una donna[81]. Tuttavia, nell’accezione corrente, il termine si è affermato quale lemma capace di indicare l’uccisione della vittima femminile da parte di un uomo.
In questo significato letterale, spesso la nozione di femminicidio viene meglio resa con il termine “femicidio”.
Tuttavia, abbiamo evidenziato come il significato del termine e il suo utilizzo in ambito accademico sia differente: esso viene infatti impiegato in chiave sociologica e criminologica, ad indicare un fenomeno sociale e antropologico che individua qualsiasi forma di violenza subita dal soggetto femminile per il suo essere tale, secondo la concezione originale – già ricordata – elaborata dalle criminologhe Russel e Caputi, e che si manifesta in ogni contesto e nelle forme più diversificate.
D’altro lato, il termine femminicidio non è solo il vasto insieme delle condotte violente perpetrate contro le donne. Piuttosto, esso indica l’uccisione di una donna con un movente di genere. A questa nozione vi è chi avvicina quella di “ginocidio”, a indicare l’uccisione non della singola donna, bensì dell’intero genere femminile, delle donne come genere, per mano delle istituzioni, una terminologia che alcuni ritengono preferibile a quella di “femminicidio”[82].
Ciò che è certo è che tale ultima nozione indica, innovativamente, la specificità dell’omicidio femminile commesso dall’uomo per un motivo di genere. Come è stato acutamente osservato, «a caratterizzare il femminicidio, però, non è soltanto il sesso, il genere femminile della vittima, e neppure il solo “dato oggettivo” di una relazione sentimentale tra autore e vittima. Sicché non tutti gli omicidi dolosi, in cui la vittima è una donna e l’autore è un uomo, rientrano nel concetto di femminicidio, bensì solo quelli in danno di una donna, che sia o sia stata in stretta relazione sentimentale con l’autore (quindi non solo la moglie e nemmeno solo la convivente), commessi con una “motivazione di genere” da mariti, fidanzati o conviventi (ma vi rientrano anche gli omicidi compiuti da padri verso figlie che rifiutano, ad esempio, un matrimonio combinato, o da figli verso le madri), nonché la condotta omicida di chi uccide una donna per il fatto di essere donna, indipendentemente dall’esistenza di un pregresso rapporto relazionale tra autore del reato e vittima, per motivi di odio, disprezzo, o di mera ostilità alla sua identità di genere (ad esempio, omicidio di prostitute)»[83].
Poste queste doverose premesse terminologiche, che richiameremo in sede conclusiva, occorre interrogarsi sull’opportunità di introdurre nel nostro ordinamento, sull’esempio delle legislazioni latinoamericane[84], una fattispecie ad hoc di femminicidio, ossia di uccisione di una donna per mano di un uomo in un contesto di genere o con un movente di genere.
Si può osservare che il nostro legislatore non ha imboccato, come del resto nessun altro legislatore europeo, la strada latinoamericana. Non può, tuttavia, affermarsi che la normativa italiana ignori la realtà del femminicidio. Ad una lettura attenta della legislazione penale italiana, si rintracciano fattispecie che si avvicinano, pur non cogliendone la specificità, alla figura dell’omicidio femminile.
Sono presenti, innanzitutto, le fattispecie di omicidio aggravato caratterizzate dalla circostanza oggettiva dell’esistenza di un rapporto di matrimonio o di parentela tra autore e vittima, quali l’uxoricidio, il parricidio, il fratricidio (art. 577, comma 1, n. 1, e comma 2, cp), oggi arricchita dalla circostanza dell’esistenza di un rapporto affettivo. Secondo la novella di cui alla legge 11 gennaio 2018, n. 4, intitolata «Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici», la prima aggravante contempla attualmente la pena dell’ergastolo, laddove l’omicidio sia commesso «contro l’ascendente o il discendente o contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente». Per effetto della medesima riforma, la seconda aggravante recita: «la pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se il fatto è commesso contro il coniuge divorziato, l’altra parte dell’unione civile, ove cessata, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta». La novella, in qualche misura, mostra la volontà di additare il fenomeno della violenza di genere nella forma della violenza domestica. L’ampliamento delle aggravanti operato, da ultimo, dalla l. n. 69/2019 di recente approvazione, il cd. “Codice Rosso”, si pone in questa stessa direzione.
A una logica analoga, vicina alla fattispecie di femminicidio, benché senza accogliere esplicitamente un’ottica di genere e non distinguendo tra uomo e donna quale vittime del reato, si ispirano altresì le ipotesi di omicidio aggravato introdotte dal d.lgs n. 11/2009, convertito nella l. n. 38/2009, nonché dalla l. n. 172/2012, ossia: se l’omicidio è commesso nell’ambito dei maltrattamenti in famiglia; se l’omicidio è commesso in occasione della perpetrazione di uno dei delitti contro la libertà sessuale (violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, violenza sessuale di gruppo); se l’omicidio è realizzato da un soggetto che in precedenza abbia commesso il reato di atti persecutori nei confronti della stessa vittima; se l’omicidio è commesso in occasione della perpetrazione del delitto di prostituzione minorile o di pornografia minorile (per tutte: art. 576, comma 1, n. 5, cp). Tutte ipotesi di reato che chiamano in causa il genere e che costituiscono, come abbiamo già evidenziato, condotte prodromiche all’evento morte della vittima femminile.
Infine, le previsioni aggravanti introdotte dalla l. n. 119/2013, impropriamente chiamata “legge sul femminicidio” – stante il fatto che non prevede né un reato autonomo di tal fatta, né una circostanza aggravante in caso di vittima femminile –, si pongono nel solco di un potenziamento della risposta statuale a condotte di violenza di genere propedeutiche al tragico evento finale della morte femminile, ossia al femminicidio. Non si può, inoltre, dimenticare la presenza dell’aggravante comune dell’aver commesso il fatto con abuso di relazioni domestiche previsto dall’art. 61, n. 11.
Se il quadro normativo qui richiamato evidenzia la presenza di un’ampia gamma di disposizioni capaci di tutelare la vittima femminile della violenza omicida maschile, è indubbio che manca, nel nostro ordinamento, una “norma simbolo” che stigmatizzi il femminicidio e richiami nell’immaginario collettivo un immediato riferimento alle uccisioni con movente di genere, secondo il linguaggio delle legislazioni latinoamericane. Ora, a parte il deciso ripudio della funzione simbolica del diritto penale, è sotto altro profilo che ci parrebbe inopportuno prevedere anche nel nostro ordinamento una fattispecie autonoma di femminicidio. Ci pare infatti che la contrarietà a un tale inserimento riposi sul principio di legalità e, in particolare, sul principio di tassatività o sufficiente determinatezza (o di precisione).
Concordiamo in proposito con chi evidenzia le difficoltà di tipizzazione del fatto punibile. Come acutamente osservato, «è davvero impensabile (…) che un fenomeno caratterizzato da una spiccata indeterminatezza di contorni come quello di femminicidio (o di “violenza femminicida”), che racchiude sul piano criminologico una variegata molteplicità di pratiche violente esercitate da un soggetto di sesso maschile in danno di una donna in quanto donna, e unificate da una matrice culturale comune (il disprezzo verso le donne, l’intenzione di umiliarle e degradarle), possa assumere i caratteri di una specifica figura di reato che comprenda tutte le condotte violente misogine che meriterebbero di rientrare nell’ambito di protezione di tale reato, e che al contempo sia compatibile con il principio di stretta legalità e tassatività della fattispecie penale»[85].
La stessa nozione sociologica di femminicidio, come abbiamo sottolineato, si caratterizza per una spiccata vaghezza e imprecisione: sarebbe dunque impossibile tradurre in termini giuridici una simile nozione. Non a caso, le legislazioni latinoamericane – penso, in particolare, a quella guatemalteca – hanno usato in realtà un criterio ibrido per il quale, pur incriminando la violenza di genere (l’uccisione della donna in quanto donna), hanno poi concretizzato tale forma di violenza attraverso esemplificazioni casistiche della fattispecie.
Per ovviare al problema dell’indeterminatezza, si potrebbe pensare di imperniare la fattispecie penale sulla circostanza oggettiva della relazione affettiva: la conseguenza sarebbe, tuttavia, che verrebbe punito solo l’intimate partner homicide, lasciando al di fuori tuttavia tutte le violenze di genere che non maturano nell’ambito dei rapporti di affezione. Come bene si esemplifica in dottrina: «l’omicidio dei clienti o degli sfruttatori in danno delle prostitute; l’omicidio delle vittime di tratta; l’omicidio di donne a causa del loro orientamento sessuale; l’omicidio di chi ha preteso, infruttuosamente, di stabilire una relazione di coppia o di intimità con la vittima; l’omicidio (da parte di persona diversa dal padre o dal fratello) di una donna che rifiuta un matrimonio imposto», ipotesi cui se ne possono affiancare molte altre[86]. Si pensi, in primis, all’uccisione di vittime femminili, bene esemplificata dal noto caso Lépine, in ragione di odio sessista e di genere.
Non riteniamo condivisibile, alla luce del principio dell’uguaglianza sostanziale, l’argomentazione di chi si oppone all’introduzione della fattispecie ad hoc sulla base della necessità di tutelare il principio dell’uguaglianza formale del bene “vita” per l’omicidio dell’uomo e della donna, e giunge ad opporsi alla previsione di «garanzie sessuate», secondo la felice espressione di Adelmo Manna[87], sulla base dell’idea che una tale differenziazione sia proprio il frutto di una visione maschilista e patriarcale della donna e finisca per perpetuarla[88].
Una simile argomentazione non tiene conto di un dato criminologico, rectius vittimologico, che individua – oggettivamente – la maggiore vulnerabilità di alcune vittime rispetto ad altre, vittime deboli tra le quali la stessa direttiva europea n. 29 del 2012 annovera, sulla base delle risultanze empiriche e criminologiche, anche il soggetto femminile.
Non considerare tale dato può condurre a sottovalutare la realtà fenomenologica della violenza di genere e del femminicidio.
Né maggiormente convincente ci pare l’obiezione, mossa dalla medesima dottrina, relativa alla mancanza di un «solido e ragionevole fondamento» politico-criminale all’introduzione di una fattispecie autonoma di femminicidio, in ragione della assenza di dati statistici che comprovano la rilevanza e incidenza del fenomeno[89]: ci sembra infatti che i dati sul fenomeno del femminicidio siano indicativi dell’incidenza costante e, talora, crescente del fenomeno (specie per ciò che concerne il femminicidio scaturito nell’ambito delle relazioni affettive lato sensu intese), come emerge chiaramente anche dal Rapporto dell’Onu sulla violenza di genere nel nostro Paese[90].
Se dunque il rispetto del principio di legalità sconsiglia, a nostro avviso, l’introduzione di una fattispecie autonoma di reato rubricata «femminicidio», anche alla luce delle deludenti esperienze comparatistiche, risoltesi spesso in mere norme manifesto, resta aperto l’interrogativo in ordine alla possibile previsione di una circostanza aggravante di femminicidio, quale aggravante di reati gender-neutral. A fronte di chi saluta con favore, in prospettiva de lege ferenda, nell’ambito di un più generale ripensamento del diritto penale in un’ottica di genere, una tale soluzione, affermando che «un’aggravante generale per il femminicidio sul modello argentino non va scartata in assoluto, perché essa avrebbe il grande vantaggio di dare contezza delle molteplici forme che assume la violenza assassina contro le donne: dall’uccisione della prostituta da parte del misogino a quella dell’ex-compagna del quale il reo si dice innamorato»[91], vi è chi vi si oppone nuovamente per ragioni legate alla difficoltà di tipizzazione e di rispetto del principio di tassatività[92].
In proposito, senza la volontà di assumere una posizione netta, ci pare di poter sottolineare come sia indubbia la più agevole costruzione della previsione aggravatoria rispetto alla fattispecie autonoma, nonché come l’eventuale scelta di introdurre una tale circostanza potrebbe avere il pregio di cogliere la specificità della violenza omicida che nasce sia in un contesto di genere sia con un movente di genere. Resta, tuttavia, dubbio come potrebbe essere strutturata e delineata una siffatta circostanza aggravante.
5. Il crimine d’odio misogino
Compiuto questo excursus su “genere e diritto penale”, occorre soffermarsi sull’origine e sull’essenza della violenza di genere. Ci pare di poter dire, dall’analisi condotta, che non possa essere posto in discussione il fatto che la violenza di genere origina nel sessismo e nella misoginia quale forma di prevaricazione maschile sul genere femminile. In un risalente testo di una nota femminista americana, Andrea Dworkin, dal titolo eloquente – Woman Hating[93] –, si sottolinea come la violenza nei confronti delle donne si radichi essenzialmente nell’odio e nel disprezzo verso il genere femminile.
Pur nell’estremismo di tale posizione femminista, la tesi che attribuisce alla violenza di genere una componente di odio, disprezzo e ostilità nei confronti della vittima femminile in quanto tale, della donna in quanto appartenente al genere femminile, ci induce a interrogarci sul sostrato dei reati di genere e a domandarci se questi ultimi possano essere considerati crimini d’odio[94].
Come noto, è molto discussa in dottrina la categoria dei “gender hate crimes”.
Quando si considera il genere quale caratteristica suscettibile di protezione, si scontrano opposte tesi. Da un lato, si argomenta come il genere non rientri nel modello tradizionale dell’hate crime, caratterizzato da vittime intercambiabili tra loro e prive di precedenti rapporti di conoscenza con l’autore di reato. Le vittime di reati di genere, infatti, hanno spesso una relazione pregressa con il loro aggressore. Ciò accade eminentemente nel caso di violenza sessuale fra conoscenti e nel caso di violenza domestica: la precedente relazione interpersonale fra l’autore di reato e la persona offesa rende difficile provare che il cd. “gender animus”, ossia il pregiudizio e l’odio di genere, sia il motivo essenziale che ha ispirato il reato, e non altre motivazioni legate alla relazione fra vittima e aggressore.
I fautori di gender hate crimes laws affermano, all’opposto, che il genere appartiene a quelle fratture sociali che storicamente hanno dato origine a una tutela rafforzata e, come tale, il genere meriterebbe di essere considerato una caratteristica protetta e dunque annoverato nella sfera dei crimini d’odio.
Se ciò può essere evidente con riferimento alla violenza sessuale perpetrata da parte di soggetti estranei alla vittima e con riferimento alla violenza commessa contro le donne in quanto tali – esemplare il noto caso Lépine, l’uccisione di numerosi soggetti femminili avvenuta all’Università di Montreal, nel 1989, motivata dall’odio nei confronti del genere femminile –, entrambi casi considerati conformi al modello del crimine d’odio, più difficile è l’inquadramento delle altre forme di violenza di genere e, segnatamente, della violenza domestica alla stregua del bias crime[95].
Anche in simili casi, tuttavia, si argomenta che le vittime, nella visione dell’autore di violenza, sono intercambiabili fra loro. Secondo questa tesi, l’autore di reato avrebbe aggredito qualsiasi donna con cui avesse instaurato una relazione, e ciò proprio perché si tratta di una donna. Pertanto, tale forma di violenza non sarebbe diretta alla vittima individuale, bensì rappresenterebbe una violenza indirizzata alle donne quale gruppo oggetto storicamente di discriminazione. In altre parole, si tratterebbe di un attacco alla vittima femminile, espressione di una volontà di riaffermare una particolare gerarchia sociale. Da questo punto di vista, la presenza di una precedente relazione fra autore e vittima di reato sarebbe irrilevante.
Nonostante siffatte prese di posizione dottrinali, l’inclusione del genere fra le caratteristiche protette è fortemente osteggiata dall’opinione pubblica[96], nonché dallo stesso movimento femminista che si dice contrario, talora, a un inserimento del genere fra le caratteristiche protette sulla base della considerazione che in tal modo la violenza di genere verrebbe snaturata e occultata[97].
A fronte di simili contrasti sulla legittimità dei gender hate crimes, è stata dunque proposta una soluzione intermedia in dottrina: si è cioè suggerito di considerare tali solo quei reati di genere nei quali la vittima sia “intercambiabile”, nei quali cioè l’aggressore mirava a colpire una donna qualsiasi e non una donna in particolare, e i casi in cui la vittima sia stata solo un’estranea scelta a caso, in quanto appartenente al genere femminile[98]. Una soluzione che appare apparentemente equilibrata, ma che, accanto ai reati frutto di un movente di genere – ossia di un pregiudizio contro il gruppo individuato dalla caratteristica “genere”, storicamente oggetto di discriminazione –, non tiene conto che, come questi ultimi, vi sono anche molti reati che maturano in un contesto di genere. Questa distinzione è, a nostro avviso, fondamentale in prospettiva de iure condendo.
Tornando alle esemplificazioni già ricordate, rispetto all’ipotesi estrema di violenza di genere, l’omicidio, si può notare che non tutti gli omicidi dolosi in cui la vittima è una donna e l’autore è un uomo rientrano nel concetto di femminicidio, bensì solo quelli in danno di una donna che sia o sia stata in stretta relazione sentimentale con l’autore, commessi in un contesto di genere da mariti, fidanzati o conviventi, nonché la condotta omicida di chi uccide una donna per il fatto di essere donna, indipendentemente dall’esistenza di un pregresso rapporto relazionale tra autore del reato e vittima, per motivi di odio, disprezzo, o di mera ostilità alla sua identità di genere (si pensi all’uccisione della prostituta o a omicidi come quelli esemplificati dal caso Lépine).
Lo stesso dicasi per la violenza sessuale, ma anche per la violenza fisica, psicologica, nonché per le mutilazioni genitali femminili, per il matrimonio forzato, l’aborto forzato, ossia per le ipotesi di violenza di genere individuate dalla Convenzione di Istanbul, che possono essere il frutto di un movente di genere o maturare in un contesto di genere.
Ci pare indubbio che i reati commessi per un movente di genere, sopra ricordati, debbano essere inquadrati all’interno dei crimini d’odio, quali forme di gender hate crimes. In merito, è indubbio che, alla luce del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione, il genere sia degno di tutela da parte della legislazione italiana contro i crimini d’odio.
In questa direzione ci sospinge anche l’esperienza comparata[99]. Considerando, nel contesto anglosassone, il solo ordinamento statunitense, ricordiamo che secondo l’ADL Model americano già a partire dagli anni novanta il gender è considerato tra le caratteristiche protette dalle hate crime laws. A far data dal 2016, 31 Stati della confederazione prevedono gender hate crimes. Tale caratteristica è oggi contemplata anche a livello federale nel cd. “Matthew Shepard Act”. Si segnalano in particolare, nel panorama comparatistico, la legislazione francese, la legislazione spagnola e quella croata, tutte legislazioni che prevedono, all’interno del codice penale, la circostanza aggravante comune intitolata, tra l’altro, all’«odio di genere» (rispettivamente: artt. 132-77 code pénal; art. 22, comma 4, código penal; art. 89, par. 20, codice penale croato).
Ecco dunque che anche il legislatore italiano dovrebbe porsi, a nostro avviso, in tale direzione, considerando in primis la possibilità di inserire nell’alveo della cd. aggravante – “quasi comune” – dell’odio razziale (etnico, nazionale, religioso), contemplata oggi, a seguito della riserva di codice, nell’art. 604-ter cp, e disciplinata fra i delitti contro l’uguaglianza, un esplicito riferimento al genere. L’aggravante potrebbe infatti suonare in questi termini: «per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, nonché di genere, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità la pena è aumentata fino alla metà».
Un’aggravante così strutturata – l’indicazione sarebbe quella di renderla un’aggravante comune e non più “quasi comune” – consentirebbe di punire in maniera aggravata alcune manifestazioni di violenza di genere, anche le più estreme, che altro non sono se non violazioni del principio di uguaglianza, laddove sia provato il movente di genere, laddove cioè, secondo l’insegnamento della Corte di cassazione, le condotte contengano effettivamente i segni di una finalità di discriminazione e di odio – di genere – allorché l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto riguardo anche al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sul genere e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato all’esclusione di condizioni di parità.
Nello stesso senso, ci parrebbe fondata, in seconda battuta, anche la scelta politico-criminale di contemplare il genere nell’ambito delle fattispecie rappresentative di crimini d’odio previste all’art. 604-bis cp (a eccezione, in ragione del rischio di obiezioni fondate sulla violazione del diritto alla libertà d’espressione, della condotta di mera propaganda, nonché dell’ipotesi del negazionismo)[100]: su questa strada conduce indiscutibilmente la lezione comparatistica.
Una simile soluzione si iscriverebbe a pieno nel quadro delle recenti novelle che costituiscono, come è stato osservato, «il risultato di una progressiva presa di coscienza, da parte del legislatore, della violenza alle donne come fenomeno collettivo, eccedente la mera sfera individuale della vittima ed idoneo, come tale, a costituire una valida minaccia ad un corretto sviluppo della società democratica»[101].
Come si enuncia nell’ambito della dottrina fautrice dei gender hate crimes, «lasciando il genere al di fuori della equazione dei crimini d’odio, i legislatori stanno ricreando il mito che la violenza di genere è una forma di violenza individuale e privatizzata, diversa dai danni pubblici e politici sofferti dalle minoranze etniche o religiose»[102]. Non si può, in altre parole, negare che al fondo della violenza di genere si annida la misoginia, come mostra la piramide dell’odio, ove l’odio di genere si colloca oggi all’apice[103].
Il vantaggio della soluzione da noi prospettata sarebbe altresì quello di non scardinare l’attuale impianto gender-neutral delle fattispecie del diritto penale classico, e tuttavia di introdurre, come prescrive la Convenzione di Istanbul, l’ottica di genere nel tessuto penalistico.
Certo, non si può nascondere che una siffatta opzione lascia fuori molti altri casi di violenza di genere e, segnatamente, tutti quei casi in cui la violenza matura in un contesto di genere senza che si riscontri odio e discriminazione di genere. Tuttavia, ci appare interessante, per quanto ardita, la recente prospettiva affacciatasi nell’ordinamento spagnolo, volta all’applicazione generalizzata dell’aggravante dell’odio sessista a tutti i reati di genere – a prescindere da rischi di ne bis in idem –, applicazione sollecitata soprattutto in caso di omicidio, violenza sessuale e mutilazioni genitali femminili[104].
Indubbiamente, come suggerisce l’Onu nel Rapporto sulla violenza di genere nel nostro Paese, per il legislatore italiano è giunto il momento di accogliere un approccio olistico e organico al fenomeno, non più frammentario ed estemporaneo. Tra le raccomandazioni che l’Onu, nella persona di Rashida Manjoo, Relatrice speciale sulla violenza di genere, rivolge al nostro Paese, spicca significativamente, e in primo luogo, il varo di «una legge specifica sulla violenza alle donne che consenta di superare le frammentazioni e i ritardi oggi esistenti in ambito giuridico»[105].
«Normare comporta spesso assolutizzazioni che mal si attagliano a una materia tanto delicata quanto quella della soggettività e della comunicazione fra i sessi»[106].
Ciononostante, il legislatore è chiamato a compiere uno sforzo normativo, non potendo rinunciare al presidio del diritto e del diritto penale, laddove sono coinvolti diritti fondamentali delle vittime femminili: l’intervento legislativo dovrà essere organico, coerente e sistematico, dovrà nominare il genere – concetto oggi affermatosi quale strumento interpretativo irrinunciabile sul terreno penalistico alla luce della Convenzione di Istanbul – e non potrà non ispirarsi al principio dell’uguaglianza sostanziale, in nome del «trattamento differenziato dei distinti» cui la nostra Corte costituzionale si richiama ripetutamente[107]. Un simile intervento di sistema potrà forse aiutare a scardinare la misoginia e i crimini d’odio di genere, che della prima sono il precipitato storico più evidente, solo unitamente – occorre ribadirlo – alla prioritaria e imprescindibile prevenzione primaria.
1. G. Vigarello, Storia della violenza sessuale, Marsilio, Venezia, 2001, p. 9.
2. Sia consentito rinviare sul tema, in chiave storica, a L. Goisis, La violenza sessuale: profili storici e criminologici. Una storia di ‘genere’, in Dir. pen. cont., 31 ottobre 2012, pp. 4 ss.
3. Così G. Vigarello, Storia, op. cit., p. 11. Ciò potrebbe indurre a leggere i dati statistici odierni in una chiave culturale: il riconoscimento di una maggiore uguaglianza fra uomo e donna, il tramonto dell’immagine del padre e dell’autorità potrebbero aver reso meno tollerabili violenze nella storia accettate e lasciate impunite, e aver contribuito a un aumento delle denunce.
4. Cfr. E. Cislaghi, Genere: storia di un concetto, in B. Pezzini (a cura di), La costruzione del genere. Norme e regole. Vol. I - Studi, Bergamo University Press, Bergamo, 2012, pp. 75 ss., part. p. 89. Rifacendosi alla concezione di Saraceno, scrive l’A.: «il genere è l’insieme di status-ruoli attribuiti ad una persona o a un gruppo di persone esclusivamente sulla base della loro appartenenza sessuale. È perciò la definizione sociale dell’appartenenza di sesso. Si parla quindi di “identità di genere” per riferirsi al modo in cui l’essere donna (o uomo) viene prescritto socialmente»; vds. altresì Id., L’orizzonte teorico femminista e l’analisi di genere, 2009, dattiloscritto gentilmente concessomi dall’Autrice, pp. 1-2. Sul punto, anche S. Piccone Stella e C. Saraceno (a cura di), Genere. La costruzione sociale del femminile e maschile, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 11. Le due Autrici individuano nella nascita del concetto di “genere” la volontà di attribuire peso a quanto vi è di socialmente costruito nella disuguaglianza sessuale.
5. L. Goisis, La violenza sessuale, op. cit., p. 4. Sottolinea Cislaghi (Genere, op. cit., p. 87) come il concetto di genere, nato nell’ambito della letteratura femminista, si diffonda in tutte le branche del sapere.
6. B. Spinelli, Femminicidio. Dalla denuncia globale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, Milano, 2008, pp. 21 ss.
7. Ivi, p. 21.
8. Cfr. sul tema, più approfonditamente, infra, par. 4.
9. M.L. Fadda, Differenza di genere e criminalità. Alcuni cenni in ordine ad un approccio storico, sociologico, criminologico, in Dir. pen. cont., 20 settembre 2012, p. 7.
10. Esempi eloquenti si ritrovano in alcuni casi tratti dalla giurisprudenza francese di quegli anni: processi in cui lo stupro, unito ad altre forme di violenza, a dispetto dell’inclusione del primo fra i crimini puniti con la pena capitale, vengono lasciati nell’impunità, concludendosi per lo più con l’assoluzione. «La querela è poco ascoltata, i fatti poco approfonditi, l’accusato poco interrogato» (G. Vigarello, Storia, op. cit., p. 24), soprattutto quando la vittima è una donna adulta e di estrazione sociale non elevata (lo stupro delle serve comportava solo un risarcimento del danno), e in particolare quando non vi è traccia né di delitto né di ferita fisica grave – cfr. L. Goisis, La violenza sessuale, op. cit., pp. 5 ss.; S. Pinker, The Better Angels of Our Nature. Why Violence Has Declined, Penguin, New York, 2011, p. 395.
11. M. Foucault, Surveiller et Punir. Naissance de la prison, Gallimard, Parigi, 1975 – ed. it.: Sorvegliare e punire, La nascita della prigione, trad. di A. Tarchetti, Einaudi, 1993, pp. 14 ss., ove si descrive, quale esempio di tale arte, il supplizio dei traditori (cd. “quartering”).
12. G. Vigarello, Storia, op. cit., pp. 31 ss., part. pp. 35, 37, 40, 53.
13. Ivi, p. 100. In opposizione ai processi troppo sbrigativi dell’Ancien Régime, e con l’acquisita consapevolezza di una necessità di tutela della vittima femminile, in materia di violenza sessuale il codice di procedura penale francese del 1791 sostituisce la parola «ratto» con la parola «stupro», a indicare che si pone in primo piano la lesione della vittima piuttosto che il pregiudizio del “proprietario” (marito o padre che fosse).
14. Si prenda il reato di violenza sessuale: ci si orienta maggiormente sulla vittima, sul venir meno della sua volontà, sulla sua incapacità di difesa, sull’annientamento del suo libero arbitrio. Progressivamente, le figure di violenza sessuale si delineano in maniera più netta, soprattutto con il codice napoleonico del 1810, a cui molto deve la nostra codificazione, e con lo sviluppo della medicina legale nella seconda metà del XIX secolo: si distingue fra stupro, oltraggio, attentato, con spostamenti delle soglie di punibilità a seconda dell’età delle vittime. Nonostante una crescita dell’intolleranza verso il fenomeno violento e una stigmatizzazione di condotte prima penalmente irrilevanti, tuttavia, la giustizia penale ottocentesca non mostra coerenza con la mutata rappresentazione sociale e giuridica della violenza sessuale, in quanto rimangono esigue le condanne: come è stato ipotizzato, ciò sembrerebbe dovuto al mantenimento di un dominio sulla donna, all’esistenza di un giudizio già in partenza non egualitario, alla relativa stabilità delle consuetudini nonostante l’innegabile mutamento della giurisprudenza e della legge (cfr., ancora, G. Vigarello, op. ult. cit., p. 122). Sull’infirmitas sexus, quale condizione di fragilità che esclude l’imputabilità della donna, affermatasi nell’Ottocento, vds. A. Manna, La donna nel diritto penale, in Ind. pen., n. 3/2005, p. 852. Sulla posizione della donna nel pensiero criminologico ottocentesco, nell’ambito della cd. “Scuola positiva”, si veda la versione di C. Lombroso e G. Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Nabu Press, Firenze, 2010. Nella letteratura italiana, sulla vita e il pensiero di Lombroso nonché sull’opera ricordata, si rinvia, tra i molti, a D. Velo Dalbrenta, La scienza inquieta: saggio sull’antropologia criminale di Cesare Lombroso, CEDAM, Padova, 2004, pp. XVIII ss.
15. Si pensi ancora alla violenza sessuale: l’esito del crimine non è più l’immoralità, bensì la lesione dell’integrità della vittima (il bene giuridico tutelato dall’incriminazione non è più tanto la moralità, bensì la libertà sessuale); ci si concentra sugli effetti psicologici nefasti che la violenza può comportare per la donna, pregiudizi a lungo e breve termine; la violenza sessuale si afferma come violenza prima e più grave. Come è stato di recente sottolineato nell’ambito della criminologia americana, «la prevalenza della violenza sessuale nella storia umana e la “invisibilità” della vittima nel trattamento giuridico riservato alla violenza sessuale sono incomprensibili dal punto di vista privilegiato della sensibilità morale contemporanea». L’invisibilità che da sempre accompagna la vittima della violenza sessuale cade con l’affermarsi della sensibilità moderna e di un orientamento umanitario. Così S. Pinker, The Better Angels, op. cit., p. 395. La stessa figura dello stupratore che fa la prima apparizione sulla scena criminologica e medico-legale, sul finire del XIX secolo, entra a pieno diritto nello scenario penale del XX secolo. Cfr. J. Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 15.
16. I motivi sono in parte diversi e in parte simili a quelli che inducevano le vittime a serbare il silenzio nel passato: da un lato, l’accusare un parente può costituire una catastrofe famigliare ed essere impedito dai legami affettivi; dall’altro, il disonore della vittimizzazione rimane ancora molto forte. L’imbarazzo del processo e della pubblicità che ne consegue inducono spesso le vittime a non denunciare, oppure ad acconsentire alla derubricazione della violenza sessuale in figure meno gravi di reato. Cfr. Istat, La Violenza contro le donne, «Informazioni», n. 7/2008; Id., La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia, 21 febbraio 2007 (www.istat.it/it/files/2011/07/testointegrale.pdf); Id. (a cura di A. Battisti), La violenza contro le donne. Dai dati statistici ai nuovi strumenti di contrasto e prevenzione, marzo 2019 (dati aggiornati sono consultabili sul sito www.istat.it). Cfr. altresì, sul numero oscuro, G. Ponti e I. Merzagora Betsos, Compendio di criminologia, Raffaello Cortina, Milano, 2008, p. 291.
17. Così E. Cislaghi, Genere, op. cit., p. 86. Per una declinazione del concetto di genere alla luce della Costituzione italiana, vds. B. Pezzini, L’uguaglianza uomo-donna come principio antidiscriminatorio e come principio anti-subordinazione, in G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere. III - Dei diritti e dell’uguaglianza, Jovene, Napoli, 2009, pp. 1141 ss., part. pp. 1151 ss.
18. In senso analogo, A. Merli, Violenza di genere e femminicidio, in Dir. pen. cont. (Trimestrale), n. 1/2015, pp. 438 ss. L’A. sottolinea come il concetto di genere abbia fatto storicamente riferimento alla differenza sessuale e corporea dei due sessi, maschile e femminile, escludendo il riconoscimento di sessualità diverse (omosessualità maschile e femminile, transessualità, transgenderismo). Tuttavia si è sviluppato, nell’ambito dello stesso movimento femminista, anche un movimento per la richiesta di pari diritti delle “minoranze sessuali” che ha fatto appello all’“identità di genere”: rivendicando l’indipendenza del sesso dall’orientamento sessuale, che è frutto della propria individualità e che non deve essere oggetto di discriminazione (ivi, pp. 440 ss.). Sul tema, sia consentito il rinvio a L. Goisis, Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Jovene, Napoli, 2019, pp. 461 ss.
19. A. Cranny-Francis (a cura di), Gender Studies: Terms and Debate, Palgrave Macmillan, New York, 2003, p. 4. Cfr. ampiamente, sul tema, E. Cislaghi, Genere, op. cit., pp. 89 ss.
20. Ivi, p. 87.
21. Fondamentali senz’altro gli studi di T. Pitch, Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità, Il Saggiatore, Milano, 1998, nonché Id., Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Laterza, Roma-Bari, 2012. Vds. altresì, di recente, la curatela di A. Scarponi (a cura di), Diritto e genere. Analisi interdisciplinare e comparata, CEDAM, Padova, 2016.
22. Cfr., infra, par. 3.
23. Così A. Merli, Violenza di genere, op. cit., p. 440.
24. Ivi, p. 437. Sulla vittimizzazione femminile, vds. D. Young, Risk, propriety, and sexual assault, in Sociologia del diritto, n. 2/2009, pp. 93 ss., part. pp. 98 ss. Secondo A. Manna, La donna, op. cit., p. 887, proprio rispetto ad alcuni fenomeni criminosi, la diversità tra i generi rappresenterebbe una condizione oggettiva che non consente soluzioni normative astrattamente uniformanti.
25. Ci riferiamo, in questa sede, alla violenza di genere perpetrata nell’ambito della sfera privata, sia essa fisica o sessuale. Esorbita dall’oggetto della presente trattazione il tema della violenza di genere quale crimine internazionale, ossia quale crimine di guerra, contro l’umanità, o quale crimine di genocidio. Sul tema si rimanda, tra gli altri, a S. Mancini, I crimini contro l’umanità, in E. Mezzetti (a cura di), Diritto Penale Internazionale. Vol. II - Studi, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 315 ss.; L. Poli, La tutela dei diritti delle donne e la violenza sessuale come crimine internazionale. Evoluzione normativa e giurisprudenziale, in Dir. um. dir. int., n. 2/2009, pp. 396 ss.; M. Marinello, Lo stupro come arma da guerra: da eventualità “necessaria” a crimine internazionale, Centro di ricerche sulle vittime civili dei conflitti “L’Osservatorio”, Grandangolo, Roma, 2016, pp. 1 ss.; P. De Stefani, La normativa penale internazionale per violazione dei diritti umani. Il caso dei crimini contro le donne, Archivio Pace Diritti Umani, Università di Padova, research paper n. 1/2000, pp. 1 ss., nonché P. Degnani, Donne, diritti umani e conflitti armati. La questione della violenza nell’agenda della comunità internazionale, ivi, research paper n. 2/2000, pp. 1 ss.
26. A testimonianza dell’approdo del concetto di “violenza di genere” sulla scena penalistica, vi sono numerosi contributi intitolati al tema: tra i molti, oltre ai già citati nostri saggi (L. Goisis, La violenza sessuale, op. cit.), vds. L. Goisis, La “violenza di genere” alla luce della Convenzione di Istanbul e della recente legislazione italiana. Una prima lettura critica, in M. Matulović e E. Kunštek, Kazneno Pravo, Kazneno Postupovno Pravo I Kriminalistika, Università di Rijeka (Croazia), 2014, pp. 161 ss. (https://repository.pravri.uniri.hr/islandora/object/pravri:2440); nonché Ead., “Gender Violence” in Light of the Istanbul Convention. The Italian Legislation, in Diritto@storia, n. 11/2013 (www.dirittoestoria.it/12/contributi/Goisis-Gender-violence-Istanbul-convention-Italian-legislation.htm), si segnalano A. Merli, Violenza di genere, op. cit., pp. 430 ss., nonché, della stessa Autrice, il lavoro monografico Violenza di genere e femminicidio, ESI, Napoli, 2015; M.L. Fadda, Differenza di genere, op. cit., pp. 1 ss.; C. Bressanelli, La “violenza di genere” fa il suo ingresso nella giurisprudenza di legittimità: le Sezioni Unite chiariscono l’ambito di applicazione dell’art. 408, co. 3 bis c.p.p., in Dir. pen. cont., 21 giugno 2016; F. Trapella, Fattispecie di femminicidio e processo penale. A tre anni dalla legge sulla violenza di genere, in Dir. pen. cont. (Trimestrale), n. 2/2017, pp. 21 ss.; S. Tigano, La violenza familiare fra differenze di genere e politiche repressive, in Ind. pen., n. 1/2016, pp. 78 ss.; tra gli scritti relativi alla violenza sulle donne che non nominano il genere espressamente, si vedano altresì: F. Basile, Violenza sulle donne e legge penale: a che punto siamo?, in disCrimen, 26 novembre 2018; Id., Violenza sulle donne: modi, e limiti, dell’intervento penale, in Dir. pen. cont., 11 dicembre 2013, nonché C. Pecorella, Sicurezza vs libertà? La risposta penale alle violenze sulle donne nel difficile equilibrio tra istanze repressive e interessi della vittima, ivi, 5 ottobre 2016, e, in particolare, sul femminicidio quale reato, E. Corn, Il femminicidio come fattispecie penale. Storia, comparazione, prospettive, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017, nonché Id., Il “femminicidio” come reato. Spunti per un dibattito italiano alla luce dell’esperienza cilena, in Dir. pen. cont., 14 settembre 2013. Sulle discriminazioni di genere in ottica civilistica vds., tra gli altri, E.M. Mastinu, Diritto e processo nella lotta contro le discriminazioni di genere, CEDAM, Padova, 2010.
27. Così E. Corn, Il femminicidio, op. cit., p. 79.
28. Cfr. A. Merli, Violenza di genere, op. cit., p. 434. Scrive l’A.: «l’universale neutro delle dichiarazioni dei diritti per lungo tempo ha, di fatto, significato solo il maschile, grazie alla definizione e al concreto disegno sul maschile dei diritti fondamentali dell’individuo».
29. A. Del Vecchio, La tutela dei diritti delle donne nelle convenzioni internazionali, in T. Vassalli (a cura di), Atti del Convegno in memoria di Luigi Sico, Editoriale Scientifica, Napoli, pp. 322 ss.
30. Cfr. ampiamente, sul tema, L. Goisis, Crimini d’odio, op. cit., pp. 263 ss.
31. Sul punto E. Corn, Il femminicidio, op. cit., p. 81.
32. Tale interpretazione della CEDAW sembra essersi imposta tramite l’influenza del femminismo radicale, aprendo la strada a una lunga serie di strumenti giuridici volti all’eliminazione della condizione di subordinazione della donna a partire dagli anni novanta innanzi. Cfr. E. Corn, op. ult. cit., p. 83.
33. Così la definisce E. Corn, op. ult. cit., p. 84.
34. Cfr. A. Del Vecchio, La tutela, op. cit., pp. 322 ss.
35. Testo in italiano: https://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Convenzione-inter-americana-sulla-prevenzione-punizione-e-sradicamento-della-violenza-contro-le-donne-1994/197.
36. Cfr., sul punto, anche E. Corn, Il femminicidio, op. cit., p. 87.
37. Ivi, p. 89, nonché A. Del Vecchio, La tutela, op. cit., pp. 6 ss. (e, ivi, per ulteriori riferimenti giurisprudenziali).
38. In questo percorso di riconoscimento giuridico internazionale della violenza di genere, oltre alla Convenzione CEDAW e alla Convenzione interamericana, al di fuori del contesto europeo si segnala la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, adottata a Nairobi il 28 giugno 1981 dalla Conferenza dei Capi di Stato e di governo dell’Organizzazione dell’Unità africana (OAU), di cui fa parte il “Protocollo di Maputo” del 2003, relativo ai diritti delle donne in Africa, che pur esortando al rispetto dei diritti femminili, non contempla espressamente il problema delle violenza di genere. Come nella Convenzione americana, nella Carta africana viene genericamente riconosciuto (art. 2) a ogni persona il diritto al godimento dei diritti e delle libertà in essa previsti senza alcuna distinzione, tra l’altro, in base al sesso. Per quanto concerne in particolare le donne, una speciale protezione è disposta nell’art. 18 (3), che impone allo Stato il dovere di provvedere all’eliminazione di ogni tipo di discriminazione contro la donna e di assicurare la protezione dei diritti della donna e del bambino sanciti nelle convenzioni internazionali. Nel mondo arabo si registra una ritrosia al riconoscimento dei diritti femminili, anche se non sono mancati tentativi, grazie all’operato dei movimenti femministi arabi, di predisporre testi giuridici in materia come la nuova Carta araba dei diritti dell’uomo, approvata dal Consiglio della Lega araba nella sessione di Tunisi, che ha trovato il consenso degli Stati interessati ed è successivamente entrata in vigore il 15 marzo 2008. Cfr., per questa ricostruzione, L. Goisis, Crimini d’odio, op. cit., pp. 348 ss., part. p. 351.
39. Così E. Corn, Il femminicidio, op. cit., p. 91. Nello stesso senso si esprime A. Merli, Violenza di genere, op. cit., p. 435.
40. Ibid.
41. Per una scheda di sintesi dei contenuti, anche procedurali, della Convenzione, vds. A. Di Stefano, La Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, in Dir. pen. cont., 11 ottobre 2012. Per un approfondimento sulla Convenzione, vds. il testo a cura della Delegazione italiana presso il Consiglio d’Europa, Libere della paura, libere dalla violenza, Camera dei Deputati, Roma, 2016; Senato della Repubblica (Servizio studi dossier europei) e Camera dei deputati (Ufficio rapporti con l’Unione europea), La Convenzione di Istanbul: combattere la violenza sulle donne a livello nazionale ed UE, «Dossier n. 96», Bruxelles, 21 novembre 2017, pp. 9 ss. (www.istat.it/it/files//2018/04/Senato_Servizio_studi_dossier_82.2017.pdf); nonché, in ottica internazionalistica, S. De Vido, Donne, violenza e diritto internazionale. La Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa del 2011, Mimesis, Milano, 2016. Ci sia concesso altresì il rinvio, in ottica penalistica, a L. Goisis, La “violenza di genere” alla luce della Convenzione di Istanbul, op. cit., pp. 161 ss., nonché Ead., “Gender Violence”, op. cit. Vds., per un commento dello strumento pattizio, anche E. Corn, Il femminicidio, op. cit., pp. 93 ss.; G. Battarino, Note sull’attuazione in ambito penale e processuale penale della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, in Dir. pen. cont., 2 ottobre 2013, pp. 6 ss. (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/1380640988BATTARINO%202013a2.pdf).
42. Così M.L. Fadda, Differenza di genere, op. cit., p. 9.
43. M. Virgilio, Sistemi penali comparati. Violenza in ambito domestico e famigliare, in Revista penal, n. 10/2002, pp. 212 ss. Vds., più in generale, sui partner abusanti, I. Merzagora Betsos, Uomini violenti. I partner abusanti e il loro trattamento, Raffaello Cortina, Milano, 2019.
44. Per il testo della Convenzione, vds. www.coe.int/conventionviolence.
45. La «violenza domestica», descritta dalla Convenzione come comprensiva di tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare, o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima, designa la violenza nella sfera intra-famigliare e relazionale più in generale, un fenomeno di difficile accertamento, che comprende in sé anche la “violenza economica”, una forma sottile di violenza che si aggiunge a quella fisica e sessuale, nonché psicologica, la quale si sostanzia di una dipendenza economica della donna dal proprio partner o coniuge, anche non più tale. La Convenzione introduce altresì il concetto di «violenza assistita», caratterizzata da violenza sui minori forzati ad assistere ad atti di violenza in danno di altre figure famigliari, violenza che verrà prevista anche dal legislatore italiano nella legge n. 119/2013, che vuole essere l’attuazione della Convenzione di Istanbul. Cfr., per tali distinzioni, A. Merli, Violenza di genere, op. cit., pp. 441 ss., nonché M. Bertolino, Violenza e famiglia: attualità di un antico fenomeno, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 4/2015, pp. 1710 ss.
46. E. Corn, Il femminicidio, op. cit., p. 6.
47. Cfr., sul principio di precisione, G. Marinucci - E. Dolcini - G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, Giuffrè, Milano, 2022, pp. 79 ss.
48. «GREVIO» è acronimo di «Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence». Cfr., sul punto, E. Corn, Il femminicidio, op. cit., p. 93.
49. L. Goisis, La violenza sessuale, op. cit., p. 25.
50. Lo sottolinea anche E. Corn, Il femminicidio, op. cit., p. 94.
51. B. Spinelli, Perché si chiama femminicidio, Corriere della Sera (online), 1° maggio 2012 (https://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-si-chiama-femminicidio-2/).
52. B. Spinelli, Femminicidio, op. cit., p. 32.
53. D.E.H. Russell e J. Caputi, Femicide: Sexist Terrorism against Women, in J. Radford e D.E.H. Russell (a cura di), Femicide: The Politics of Woman Killing, Twayne Gale Group, New York, 1992, p. 15.
54. Cfr. più ampiamente sul tema, nonché sui dati statistici in materia di violenza di genere, L. Goisis, Crimini d’odio, op. cit., pp. 373 ss.
55. Così S. Pinker, The Better Angels, op. cit., p. 394, nonché G. Ponti e I. Merzagora Betsos, Compendio, op. cit., p. 286.
56. Ibid. Sul ruolo della donna nel diritto penale e nel codice Rocco, vds. efficacemente A. Manna, La donna, op. cit., pp. 851 ss., ove si sottolinea la presenza nel diritto penale di fattispecie «sessualmente pregnanti – connotate cioè dal genere femminile del soggetto attivo o passivo, come nelle ipotesi di adulterio, aborto, stupro, seduzione con promessa di matrimonio, infanticidio etc. – in funzione di controllo e disciplina dei costumi sessuali e del rapporto tra i sessi», nonché Id., La donna nel diritto penale, in D. Curtotti - C. Novi - G. Rizzelli (a cura di), Donne, civiltà e sistemi giuridici. Raccolta di testi dal Master internazionale congiunto «Femmes, civilisation et systèmes juridiques», Milano, Giuffrè, 2007, pp. 475 ss.; vds. altresì M. Graziosi, Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in Dem. dir., n. 2/1993, pp. 99 ss.
57. Cfr., sul punto, M.L. Fadda, Differenza di genere, op. cit., p. 8. La norma di riferimento era l’art. 559 cp, che prevedeva la punizione del solo adulterio da parte della moglie (quello del marito non causava riprovazione sociale), e l’art. 560 cp, che puniva il concubinato del marito (a differenza di quello della moglie) solo se teneva la sua concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove. Si tratta di norme dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale con due sentenze: C. cost., n. 147/1969 e C. cost., n. 126/1968.
58. Cfr., sul punto, A. Merli, Violenza di genere, op. cit., p. 449. La medesima mitigazione di pena valeva per le lesioni personali, mentre la norma sanciva la non punibilità, in nome dello ius corrigendi, del delitto di percosse commesso, nelle stesse circostanze, contro le suddette persone. Vds. altresì M. Bertolino, Violenza e famiglia, op. cit., pp. 1714 ss.
59. Tra gli altri, S. Pinker, The Better Angels, op. cit., p. 397. Cfr., sul punto, L. Goisis, La violenza sessuale, op. cit., p. 9. Vds. anche M. Bertolino, Violenza e famiglia, op. cit., p. 1717. Valeva altresì, sul terreno della violenza carnale, il principio dell’onere di resistenza a carico della vittima secondo l’idea della cd. vis grata puellis.
60. S. Pinker, The Better Angels, op. cit., p. 395.
61. Così B. Spinelli, Femminicidio, op. cit., p. 87. Vds. C. Smart, Donne, crimine e criminologia, Armando, Roma, 1981 – ed. or.: Women, Crime and Criminology: A Feminist Critique, Routledge & Kegan Paul, Boston, 1978.
62. D.E.H. Russell e J. Caputi, Femicide, op. cit., p. 15.
63. Cfr. B. Spinelli, Femminicidio, op. cit., p. 87. Vds. D. Cameron ed E. Frazer, The Lust to Kill: A Feminist Investigation of Sexual Murder, New York University Press, New York, 1987. Cfr. altresì, per una ricostruzione del dibattito sul tema, F. Petruccelli - M. Santilli - L. Iannucci, Il femminicidio, in V. Schimmenti e G. Craparo (a cura di), Violenza sulle donne. Aspetti psicologici, psicopatologici e sociali, Franco Angeli, Milano, 2014, pp. 34 ss.
64. K. Stout, Intimate Femicide: A National Demographic Overview, in Journal of Interpersonal Violence, n. 4/1991, pp. 476 ss. Per ulteriori riferimenti al pensiero femminista sul tema, nonché alle diverse sottocategorie di femminicidio, vds. E. Corn, Il femminicidio, op. cit., pp. 47 ss., pp. 66 ss.
65. D.E.H. Russell, The Origin and Importance of the Term Femicide, dicembre 2011, www.dianarussell.com/origin_of_femicide.html.
66. Cfr., per tutti, B. Spinelli, Femminicidio, op. cit., p. 89. Vds. altresì, sui fatti di Ciudad Juarez, L. Melgar, Feminicidio en México: insuficiencias dela ley, impunidad e impacto social, in Dir. pen. cont. (Trimestrale), n. 5/2017, pp. 163 ss., part. pp. 164 ss. Riassume i fatti anche E. Corn, Il femminicidio, op. cit., pp. 53 ss., sottolineando come essi abbiano suscitato l’interesse e polarizzato l’attenzione sul problema della violenza contro le donne nell’ambito dei media e dell’opinione pubblica di molti Paesi.
67. B. Spinelli, Femminicidio, op. cit., pp. 128 ss.
68. Nella letteratura italiana il dibattito è aperto, essenzialmente, da Spinelli, Corn e Merli, nelle opere sopracitate.
69. D. Gadd e T. Jefferson, Introduzione alla criminologia psicosociale. Verso una nuova teorizzazione del soggetto criminale, a cura di A. Verde, Franco Angeli, Milano, 2016, p. 126. Gli studiosi segnalano le prime iniziative femministe negli anni settanta, sia in Gran Bretagna che negli Usa, volte alla creazione di case rifugio per le donne violentate.
70. S. Brownmiller, Against Our Will, Penguin, Harmondsworth (UK), 1976 – ed. it.: Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Bompiani, Milano, 1976.
71. S. Brownmiller, op. ult. cit., p. 13, nonché D. Gadd e T. Jefferson, Introduzione, op. cit., p. 126.
72. Sono numerosi gli esponenti dei movimenti femministi a sostenere tale tesi. Tra gli altri, si vedano i lavori di C.A. MacKinnon, Feminism Unmodified, Harvard University Press, Cambridge (MA), 1987, nonché D. Scully, Understanding Sexual Violence, Unwin Hyman, Boston, 1990.
73. Cfr., sul punto, D. Gadd e T. Jefferson, Introduzione, op. cit., pp. 127 e 145.
74. Cfr., per tale concezione della sessualità, M. Valcarenghi, “Ho paura di me”. Il comportamento sessuale violento, Mondadori, Milano, 2007, pp. 119 ss.; cfr. altresì B. Pavišić e D. Bertaccini, I reati contro la libertà sessuale e la morale sessuale nel diritto penale croato, in Critica del diritto, n. 3-4/2002, pp. 303 ss., part. p. 305, nonché J. Bourke, Stupro, op. cit., p. 5. Scrive l’A.: «lo stupro è una forma di rappresentazione sociale. È estremamente ritualizzato. Varia da paese a paese, cambia nel tempo».
75. Su tali studi, vds. G. Ponti e I. Merzagora Betsos, Compendio, op. cit., pp. 286-287.
76. Al contrario, le forme minori di violenza sessuale e i comportamenti ascrivibili – se ascrivibili – a mere devianze sessuali, come i rapporti sessuali fra minori, la lettura di riviste pornografiche, l’omosessualità, la frequentazione di prostitute, l’amore di gruppo, nella percezione sociale non rivestono la qualità di comportamenti “gravi”. Secondo ricerche più recenti, poi, alcuni di questi comportamenti, come ad esempio la consultazione di materiale pornografico, suscitano indifferenza; l’omosessualità è considerata una scelta libera nei cui confronti non si esprime alcuna disapprovazione. Cfr. G. Ponti e I. Merzagora Betsos, op. ult. cit., ibid., nonché T. Delogu e M.C. Giannini, L’indice di criminalità di Sellin e Wolfgang nella teoria generale della misurazione di gravità dei reati, Giuffrè, Milano, 1982.
77. Secondo i più recenti studi psichiatrici, le ripercussioni negative sulla personalità della vittima sono indipendenti dalla reazione immediata: reazioni immediate anche gravi non sempre sono correlate a danni postumi alla vita psichica della vittima, mentre – viceversa – episodi di violenza vissuti con equilibrio possono spesso portare, nel tempo, a effetti patogeni molto gravi. La dimensione del trauma dipende anche da altri fattori, come la reazione della persona cui si rivela per prima la violenza, eventuali problemi psicopatologici materni o paterni: la probabilità che la violenza sessuale si trasformi in un trauma responsabile di psicopatologia in età adulta dipende in maniera proporzionale dalla quantità di fattori negativi nella famiglia e nell’ambiente d’origine. In ogni caso, in età adolescenziale o infantile la violenza genera laceranti sofferenze che si ripercuotono sullo sviluppo psichico. Laddove la violenza avvenga in età adulta, invece, si riscontrano sintomi come il disturbo post-traumatico da stress, esistenziale o psicologico (come, ad esempio, tendenza a rivivere angosciosamente il trauma, estraniamento, disturbi del sonno, sensi di colpa, difficoltà di memorizzazione e concentrazione). Ciò soprattutto perché la violenza sessuale lede più di ogni altro reato il senso di dignità personale e la libertà di autodeterminazione della vittima, come evidenziato dal senso di colpa e dalla vergogna, sintomi tipici della vittima della violenza. Cfr. G. Fiandaca ed E. Musco, Diritto penale - Parte Speciale. I delitti contro la persona, Zanichelli, Bologna, 2020, pp. 306 ss., nonché, sul tema, D. Costa - F. Fortunato - G. Venturino, Violenza sessuale: postumi psico-fisici evidenziati all’esame psicodiagnostico e medico-legale in utente donna, in Zacchia, n. 3/2010, pp. 409 ss.; vds. altresì I. Petruccelli - C. Simonelli - S. Grilli, La violenza di genere, in V. Schimmenti e G. Craparo (a cura di), Violenza sulle donne, op. cit., pp. 29 ss.
78. In ogni caso, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) riporta come caratteristiche delle parafilie, ossia i disturbi della sfera sessuale: «fantasie, impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitati sessualmente, che in generale riguardano: 1) oggetti inanimati; 2) la sofferenza o l’umiliazione di se stessi o del partner o 3) bambini o altre persone non consenzienti, e che si manifestano per un periodo di almeno 6 mesi (Criterio A) (…). Il comportamento, i desideri sessuali, o le fantasie causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altre aree importanti del funzionamento» – cfr. F. Carabellese - C. Candelli - D. La Tegola - R. Catanesi, Fantasie sessuali, disturbi organici, violenze sessuali, in Rassegna italiana di criminologia, n. 2/2010, p. 347, part. pp. 356-357, nonché G. Ponti e I. Merzagora Betsos, Compendio, op. cit., p. 290. Vds., di recente, anche S. Galasso - V. Langher - M.E. Ricci, Gli autori della violenza: chi sono e perché lo fanno, in V. Schimmenti e G. Craparo, (a cura di), Violenza sulle donne, op. cit., pp. 183 ss.
79. Su tali studi vds., ampiamente, J. Bourke, Stupro, op. cit., p. 19. Alcune indagini su studenti universitari maschi americani hanno rivelato che circa il 25% ammetteva uno o più tentativi di avere un rapporto sessuale con la forza, dopo l’ingresso nel college. Un’altra ricerca americana ha mostrato che su 359 studenti universitari, il 12% affermava che avrebbe commesso un’aggressione sessuale se non ci fossero state probabilità di essere incriminato e condannato; un’altra ancora, che circa un terzo dei ragazzi di un college avrebbe commesso violenza sessuale se fosse stato certo di sfuggire all’arresto: il 26% di loro ammetteva di avere, comunque, compiuto un tentativo di violenza sessuale foriero di dolore evidente (pianto e suppliche) presso la donna (cfr. ibid.)
80. Sul punto, E. Corn, Il “femminicidio” come reato, op. cit., p. 2. Si osservi, tuttavia, che tale termine compare oggi anche nell’ambito della giurisprudenza italiana: cfr., sul punto, G. Pavich, Le novità del decreto legge sulla violenza di genere: cosa cambia per i reati con vittime vulnerabili, in Dir. pen. cont., 24 settembre 2013, pp. 1 ss., part. p. 2.
81. Sull’etimologia del termine, tra i molti, vds. F. Trapella, Fattispecie di femminicidio, op. cit., p. 21, nonché A. Merli, Violenza di genere, op. cit., p. 452. Cfr. altresì l’analisi di F. Mariucci, La tutela della donna nelle relazioni di coppia: tra femminicidio e violenza di genere, in Riv. pen., n. 11/2016, pp. 945 ss.
82. Vds., sul tema, l’intero lavoro di D. Danna, Ginocidio. La violenza contro le donne nel mondo globale, Eleuthera, Milano, 2007. Nel pensiero femminista questa è la tesi di A. Dworkin: si veda il suo Woman Hating, Penguin Book, New York, 1974, pp. 118 ss. Vds. altresì, sul termine “ginocidio” nel pensiero criminologico, B. Spinelli, Femminicidio, op. cit., pp. 46 ss.
83. Così A. Merli, Violenza di genere, op cit., p. 453.
84. Si rimanda, su tali legislazioni, a L. Goisis, Crimini d’odio, op. cit., pp. 391 ss.
85. Così A. Merli, Violenza di genere, op. cit., p. 459.
86. Ivi, p. 457.
87. A. Manna, La donna, op. cit., p. 887.
88. In questo senso si esprime A. Merli, Violenza di genere, op. cit., p. 458 e, soprattutto, p. 462. Scrive, discutibilmente, l’A.: «in realtà, dietro l’atteggiamento di chi propone (al di là di specifici ambiti: ad es., aborto) uno “statuto penale speciale” per le donne, o un “diritto penale della differenza” connotato dal genere femminile del soggetto passivo che miri a riconoscere alle donne maggiore protezione di quella degli uomini in relazione ai reati che si collocano nell’area della violenza maschile verso il genere femminile, c’è una visione di una società sessista e patriarcale cui, consapevolmente o inconsapevolmente, aderisce, e si nascondono antichi pregiudizi, contraddizioni e luoghi comuni: la presunta inferiorità della donna rispetto all’uomo, una sorta di perpetua minorazione delle donne che è alla base della subalternità femminile; la donna, “per natura”, a causa della differenza di sesso e del suo carattere originario e insuperabile, e non per la sua posizione culturale e giuridica, soggetto debole, in cui trovano legittimazione comportamenti di controllo e sopraffazione delle donne e del loro corpo».
89. Ivi, pp. 456 ss.
90. Si rinvia per i dati statistici a L. Goisis, Crimini d’odio, op. cit., pp. 373 ss. Si osservi inoltre come l’Onu, nel Rapporto tematico sugli omicidi basati sul genere, abbia evidenziato con forza che a livello mondiale la diffusione degli omicidi basati sul genere, nelle loro diverse manifestazioni, ha assunto «proporzioni allarmanti», sottolineando altresì che «l’uccisione delle donne rappresenta uno dei più gravi e pervasivi sistemi di discriminazione che pregiudicano e vanificano alla radice il riconoscimento dei diritti delle donne. Il femminicidio costituisce, tra gli altri, una violazione del diritto alla vita, alla parità, alla dignità delle donne», nonché chiarendo che è precipuo dovere di tutti gli Stati garantire questi diritti all’interno delle singole giurisdizioni e prevenire e proteggere le donne riguardo alla violazione dei diritti umani, punendo i responsabili e risarcendo le vittime. Soprattutto, la Relatrice speciale dell’Onu, Rashida Manjoo, testimonia, nella sua visita in Italia nel 2012, della diffusione della violenza domestica nel nostro Paese con un tasso del 78%, in un continuum di violenza che si riflette in un numero crescente di femminicidi da parte di partner, coniugi ed ex-partner. Cfr. R. Diaz e L. Garofano, I labirinti del male. Femminicidio, stalking e violenza sulle donne: che cosa sono, come difendersi, Infinito, Modena, 2013, pp. 23 ss., part. pp. 25-26; Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, Report of the Special Rapporteur on violence against women, its causes and consequences on her mission to Italy (15-26 january), 15 giugno 2012 (www.refworld.org/docid/50080b4a2.html; cfr. https://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Il-Rapporto-di-Rashida-Manjoo-relativo-alla-visita-in-Italia-gennaio-2012/367).
91. Così E. Corn, Il femminicidio, op. cit., pp. 228 ss.
92. Cfr. A. Merli, Violenza di genere, op. cit., p. 459.
93. A. Dworkin, Woman Hating, op. cit., pp. 17 ss.
94. Sul tema dei crimini d’odio e, in particolare, dei crimini d’odio di genere, vds. L. Goisis, Crimini d’odio, op. cit., passim.
95. Cfr. P.B. Gerstenfeld, Hate Crimes. Causes, Controls, and Controversies, Sage, Los Angeles/Londra, 2018, pp. 59 ss.
96. Tra gli ulteriori argomenti di contrarietà rispetto alle cosiddette “gender hate crime laws”, si sostiene che, a causa della frequenza della violenza sessuale e della violenza domestica, la giustizia penale verrebbe sopraffatta da tali crimini d’odio. Studi empirici mostrano tuttavia che, nelle legislazioni (soprattutto statunitensi) ove sono previste tali tipologie di crimini d’odio, ciò non è avvenuto. Cfr. L. Goisis, Crimini d’odio, op. cit., p. 36.
97. Sul punto, vds. P.B. Gerstenfeld, Hate Crimes, op. cit., pp. 60-61. Infine, si sostiene che non sempre l’aggressore delle vittime femminili nutre odio verso le donne; tuttavia, molte hate crime laws non sono necessariamente imperniate sull’odio, bensì sulla mera scelta di una vittima in quanto appartenente a un gruppo protetto. È il caso, per esempio, di alcune legislazioni statunitensi.
98. Su tale tesi, sostenuta in dottrina da Levin e McDevitt, cfr. P.B. Gerstenfeld, op. ult. cit., p. 62.
99. Per un’ampia indagine comparatistica, sia consentito il rinvio a L. Goisis, Crimini d’odio, op. cit., pp. 45 ss.
100. Si ricordi che non mancano legislazioni, quali la francese e la spagnola, che considerano anche il genere nell’ambito della fattispecie di negazionismo. Cfr. L. Goisis, op. ult. cit., rispettivamente pp. 107 ss. e pp. 120 ss.
101. F. Mariucci, La tutela della donna nelle relazioni di coppia, op. cit., p. 946.
102. Così B. Perry, Hate and Bias Crime: A Reader, Routledge, New York/Londra, 2003, p. 210.
103. Cfr. le recenti rilevazioni dell’Osservatorio italiano sui diritti (www.voxdiritti.it/mappa-dellintolleranza-7-misoginia/).
104. L. Goisis, Crimini d’odio, op. cit., pp. 391 ss., part. p. 407. Cfr. altresì la recente riforma spagnola in materia di violenza di genere, di cui alla «Ley Orgánica 10/2022». Sul tema, sia consentito il rinvio a L. Goisis, La violenza di genere in ottica comparata. La recente novella spagnola. Verso l’affermazione di un modello consensualistico, in corso di pubblicazione sulla rivista GenIus.
105. Vds. Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, Report of the Special Rapporteur on violence against women, op. cit.; R. Diaz e L. Garofano, I labirinti, op. cit., pp. 26 ss.
106. M. Virgilio, Corpo di donna e legge penale. Ancora sulla legge sulla violenza sessuale?!, in Democrazia e diritto, n. 1/1996, pp. 157 ss., part. p. 162.
107. Cfr. L. Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Bari, 2018, pp. 26 ss.