Il ragionamento giuridico stereotipato nell’assunzione e nella valutazione della prova dibattimentale
Le sentenze della Corte Edu con cui lo Stato italiano è condannato a causa degli erronei processi decisionali e motivazionali di tribunali e corti d’appello, nei casi di reati di violenza sessuale e violenza di genere contro le donne, non rappresentano più, ormai, casi isolati, ma un vero e proprio filone giurisprudenziale di Strasburgo. Seguendo quest’ultimo, ci troviamo a constatare una diffusa malpractice giudiziaria, che tende a fallire la ricostruzione e il verdetto processuale e, in molti casi, anche la protezione delle vittime in sede cautelare, a causa di pregiudizi e stereotipi sulle donne e sul ruolo al quale esse dovrebbero attenersi nella società – bias di genere che finiscono per inficiare, adulterandolo, il ragionamento giuridico alla base dell’assunzione e della valutazione della prova. Il contributo entra nel vivo di questa problematica, troppo a lungo ignorata dai giuristi italiani.
1. Introduzione / 2. Le sentenze della Corte europea dei diritti umani sul sistema giudiziario italiano / 3. L’applicazione concreta dei principi sovranazionali / 4. Le lacune nella formazione specialistica e nella specializzazione degli uffici giudiziari / 5. Le modalità di “intervista” della vittima di violenza sessuale e di violenza di genere
1. Introduzione
I dati sull’accesso alla giustizia delle donne vittime di violenza di genere continuano a essere sconfortanti.
Se è vero che sono in costante aumento le notizie di reato e i procedimenti penali instaurati per l’accertamento di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking, è altrettanto costante il dato relativo alla percentuale delle denunce rispetto ai casi effettivi, che continua ad assestarsi intorno al 10%.
La risposta giudiziaria, dunque, risente di una persistente situazione di allarme, sia per le difficoltà organizzative e logistiche legate alla gestione dei numerosissimi procedimenti in ingresso, sia per la consapevolezza che si tratta di una risposta in concreto incapace di raggiungere in modo capillare i ben più numerosi casi che restano nascosti tra le mura domestiche, coperti dalla ancora diffusissima tendenza al silenzio.
Tendenza che si basa, purtroppo, su un permanente senso di sfiducia e di preoccupazione che prevale rispetto alla necessità della richiesta d’aiuto.
Le ripetute pronunce della Corte Edu sull’approccio giudiziario alla materia nel nostro Paese riflettono in modo plastico il contesto nel quale questa sfiducia matura. Un contesto che è ancora caratterizzato da atteggiamenti giudicanti, da pregiudizi e da stereotipi sessisti.
2. Le sentenze della Corte europea dei diritti umani sul sistema giudiziario italiano
La pronuncia Corte Edu, J.L. c. Italia, ric. n. 5671/16, 27 maggio 2021, ha riscontrato la violazione del rispetto alla vita privata (art. 8 della Carta). Il caso, ormai noto, riguardava un processo per violenza sessuale di gruppo contestata nei confronti di 7 uomini, definito con sentenza di assoluzione in appello. Nel riprendere alcuni degli argomenti svolti a sostegno della motivazione della pronuncia assolutoria, il Giudice di Strasburgo li ha qualificati come stereotipi sessisti, sottolineando la presenza di commenti tendenti a colpevolizzare la persona offesa e a giudicarne la moralità, e come tale atteggiamento dell’autorità giudiziaria incida sulla fiducia delle vittime nel sistema giudiziario[1].
La pronuncia Corte Edu, D.M. e N. c. Italia, ric. n. 60083/19, 20 gennaio 2022, ha a sua volta focalizzato un altro dei ricorrenti motivi di preoccupazione che determina la sfiducia nel “sistema giustizia”, vale a dire il timore che la denuncia metta in pericolo il rapporto madre/figli.
In particolare, la Corte è qui intervenuta su un caso di dichiarazione di adottabilità di una minore essendo stata la madre, vittima di gravi maltrattamenti in famiglia, ritenuta «irreversibilmente inidonea» alla genitorialità.
3. L’applicazione concreta dei principi sovranazionali
Eppure, il sistema normativo nazionale ha ormai solidamente recepito l’insieme di istituti che congiuntamente mirano a garantire un accesso alla giustizia che sia tutelato, sicuro, rispettoso e costruito sulle esigenze individuali della persona offesa dal reato.
Si pensi al diritto ad avere notizia, in ogni fase del processo, delle sorti della libertà personale dell’imputato; al diritto a interloquire sulle richieste di modifica o revoca delle misure cautelari; al diritto all’assistenza linguistica non soltanto al fine di rendere testimonianza, ma anche per una più completa partecipazione al processo; al diritto a non incontrare il proprio aggressore in occasione del processo stesso; al diritto a un ascolto protetto, in situazioni di particolare vulnerabilità, anche con l’utilizzo di un’aula dotata di specchio unidirezionale e impianto di videoregistrazione; al diritto a non essere esposta alla ripetizione delle medesime dichiarazioni se non per strette esigenze processuali.
Si tratta di una rete di istituti che impone alla magistratura di tener conto delle specificità della materia e di attivarsi positivamente perché lo svolgimento del processo, pur nella salvaguardia delle esigenze di accertamento dei fatti e dei diritti dell’imputato, non sia causa di ulteriori sofferenze per la persona offesa che chiede giustizia.
Ma la pur ampia rosa di istituti a disposizione del “sistema giustizia” si dimostra assolutamente scarsa quando si passi alla loro attuazione concreta.
E non solo, e non sempre, per carenza di risorse.
Per esempio, solo il 30% dei tribunali italiani è dotato di un’aula idonea allo svolgimento di esame protetto, cosicché accade spesso che l’esame dibattimentale della persona offesa particolarmente vulnerabile (o minore d’età) si debba svolgere nella pubblica aula d’udienza.
Ma non sono infrequenti i casi in cui, anche ove sia disponibile un’aula protetta, la disattenzione alle peculiari condizioni della persona offesa, o la loro sottovalutazione, porta a non utilizzare gli strumenti di tutela che pur sono a disposizione.
Eppure, è esperienza comune che lo svolgimento del dibattimento penale costituisce un momento di fortissima elevazione del rischio per la persona offesa. Rischio per la sua incolumità fisica prima ancora che per la possibile esposizione ad atteggiamenti vittimizzanti.
Sono frequentissimi i casi di riacutizzazione dell’aggressività e di tentativi di influenzare le dichiarazioni dibattimentali da parte dell’imputato, all’avvicinarsi del momento in cui la persona offesa sarà esaminata. È drammaticamente nell’ordine delle cose che il processo riporti all’attualità le dinamiche che, spesso, sono state sino a quel momento contenute con un intervento cautelare o con l’allontanamento autonomamente operato dalla persona offesa, grazie all’appoggio di amici o familiari.
L’esperienza quotidiana della trattazione dei reati in questione consente spesso di toccare con mano lo stato di paura e di preoccupazione nel quale la persona offesa si trova all’avvio del processo.
Condizione che – anche questo va sottolineato – non sempre è riportata all’attenzione del giudice al fine di poter applicare le tutele previste per le condizioni di particolare vulnerabilità.
Peraltro, la sostanziale sottovalutazione dei rischi che la vittima di violenza di genere corre, è in prima battuta prerogativa della stessa persona offesa. Soprattutto nel contesto di maltrattamenti in famiglia, la prolungata esposizione ad atteggiamenti aggressivi (sia fisici che verbali) viene a coincidere con la quotidiana condizione di vita della persona offesa, che così non è più in grado di apprezzare l’effettiva caratura delle condotte patite. Sono, infatti, molto frequenti i casi in cui la somministrazione di test appositamente utilizzati per la valutazione del rischio offre dati divaricati tra la valutazione proveniente dalla persona che si sottopone al test e quanto valutato dall’operatore.
4. Le lacune nella formazione specialistica e nella specializzazione degli uffici giudiziari
Il dovere di specializzazione e di formazione specifica, altrettanto enunciato dalle fonti sovranazionali, dovrebbe garantire la capacità di riconoscere le situazioni di rischio e di intervenire con tutti i mezzi di tutela a disposizione.
Tuttavia, a fronte di una consistente attivazione della specializzazione delle procure della Repubblica (l’89% degli uffici su scala nazionale), non altrettanto è sinora avvenuto per gli organi giudicanti. Si registra la specializzazione solo nel 24% dei tribunali penali, mentre è ancora del tutto assente qualunque forma di specializzazione negli uffici gip/gup[2].
Questi dati non sono neutri.
Essi non attestano soltanto la sconfortante conseguenza delle perenni scoperture d’organico e della difficoltà di creare le condizioni per un gruppo di lavoro costante e che si dedichi alla propria formazione.
Questi dati offrono la chiave di lettura della sostanziale sfiducia delle vittime di violenza di genere nell’approccio alla giustizia.
La carenza di formazione specifica e di specializzazione, infatti, offre terreno fertile a un approccio alla materia filtrato dal contesto valoriale del giudicante, dalle sue esperienze di vita e di relazione, spesso causa di incomprensione o di pre-comprensione, che non raramente si traducono in un atteggiamento critico nei confronti della persona offesa invitata a offrire spiegazione del perché si sia esposta a situazioni che vengono percepite come inconcepibili rispetto a un sistema di vita ritenuto “normale”.
Ed è così che la testimonianza della persona offesa, vittima di reati commessi in condizioni di prossimità con l’autore, nel dibattimento penale è, troppo spesso ancora, considerata come fosse caratterizzata da una sorta di originaria inattendibilità, che può essere esclusa solo con un approfondito e scrupoloso vaglio della coerenza intrinseca di tutti i dati narrativi offerti all’ascolto. Quasi che il convincimento del giudice dovesse partire dal dato negativo della incoerenza della ricostruzione narrativa, per poi aprirsi a una eventuale mutazione di prospettiva solo ove risultasse evidente il contrario.
Ebbene, occorre ricordare che l’approccio richiesto dalle norme di rito è esattamente l’opposto.
La testimonianza non deve “convincere”, quasi si trattasse di superare un invisibile scoglio cognitivo, un sottile segno “meno” davanti alle parole della vittima.
La testimonianza è il portato conoscitivo di chi ha assistito ai fatti o li ha patiti direttamente. La persona offesa che si presta a testimoniare assume formalmente l’obbligo di verità e di non reticenza, nella consapevolezza delle possibili conseguenze penali a dichiarazioni false o calunniose – impegno che comporta una presunzione relativa di attendibilità, che deve costituire il dato di partenza dal quale avviare l’ascolto e la valutazione del narrato.
Occorre ricordare che il peso processuale delle parole della testimone ha una caratura intrinsecamente positiva, a differenza di quello che caratterizza le dichiarazioni dell’imputato.
La diffusa convinzione che, nei reati di prossimità, la difficoltà di accertamento poggi sulla mera contrapposizione delle parole della vittima rispetto a quelle dell’imputato, è processualmente molto discutibile, se non francamente errata. Basti ricordare che – com’è giusto che sia – l’imputato ha diritto di astenersi dal rendere esame e non è sottoposto all’obbligo di verità.
Certo è che riportare nella sede processuale fatti e vicende che hanno causato una profondissima sofferenza, e che spesso si sono protratti per moltissimo tempo, non è semplice. Tanto più nella sede del dibattimento, laddove la persona offesa viene esposta al “rito” e alle sue forme.
Chi svolge l’esame di una persona offesa nel caso di maltrattamenti in famiglia, ma anche di violenza sessuale e stalking, deve avere ben presente che esso ha spesso ad oggetto fatti che si sono verificati per molti anni, durante i quali si sono susseguiti più eventi ciclici, con l’alternanza di fasi di aggressività più acuta e fasi di relativa tranquillità relazionale, queste ultime solitamente accompagnate da scuse, promesse di cambiamento, pianti e richieste di aiuto espresse dall’autore stesso delle violenze.
Ed ancora, si deve avere ben presente che, se si tratta di fatti maturati e cresciuti nel contesto di una relazione affettiva, la persona offesa che li racconta è comprensibilmente combattuta tra l’affetto per il proprio aggressore e la necessità di descrivere l’accaduto a propria tutela. Se nella relazione ci sono dei figli, si sviluppa il timore di vederli allontanati da sé (minaccia spesso paventata nel rapporto di coppia), ma nello stesso tempo la preoccupazione di causare con la propria denuncia un definitivo allontanamento dal padre. Quello che viene comunemente definito come un “atteggiamento ambivalente” e percepito come un indice di inattendibilità della persona offesa, è spesso invece proprio la chiave di lettura da utilizzare per la comprensione più profonda della situazione che ha permesso la maturazione e il prosperare di dinamiche drammaticamente quanto persistentemente aggressive.
5. Le modalità di “intervista” della vittima di violenza sessuale e di violenza di genere
Occorre, ancora, comprendere a fondo quali possono essere i segni lasciati sul senso di sé, da parole di denigrazione, di svilimento, di disprezzo, ascoltate per anni dalla voce del proprio compagno, e che finiscono per offrire a chi le ascolta l’unica definizione di se stessa di cui disponga. Aspetto che incide in termini direttamente proporzionali sulla capacità di raccontare quel contesto relazionale così sottilmente opprimente, peraltro spesso in una situazione di isolamento sociale ed economico.
Ed ancora, nell’accertamento dibattimentale dei reati di violenza sessuale, deve essere parte del bagaglio del giudicante la consapevolezza che la più comune reazione all’aggressione sessuale è il senso di vergogna e la completa difficoltà di reazione (cd. “congelamento”), mentre è ancora molto frequente l’impostazione dell’esame dibattimentale sul modello di un’ipotetica “vittima ideale”, quasi esistesse un catalogo delle condotte che il senso comune ritiene si debbano tenere in simili circostanze.
Spesso si chiede: “perché non ha urlato”, “perché non ha chiesto aiuto”, “perché ha atteso così tanto per denunciare quanto le accadeva”, “perché non ha parlato con i suoi familiari”, “perché non è scappata”, “perché non …”. Ma la ricostruzione del fatto, e poi la sua valutazione (che è momento successivo e distinto), deve basarsi su quanto è effettivamente accaduto, e non su quanto avrebbe dovuto accadere secondo la precostituita e personale convinzione dell’esaminatore. Approccio ancor più tangibile ove si tenti di ricostruire il fatto per il tramite di domande che riguardano la moralità della persona offesa, le sue abitudini relazionali, le sue attitudini comportamentali.
Occorre ricordare che il terreno dell’attendibilità si ara entro il preciso confine del capo di imputazione, essendo quello il dato fattuale che deve essere accertato. La validazione processuale della ricostruzione del fatto non ha nulla a che vedere con l’esplorazione delle inclinazioni caratteriali della persona offesa ed ancor meno con l’espressione di giudizi sulla sua condotta.
Piuttosto, è necessario adottare una tecnica d’esame che consenta di apprezzare la genuinità del racconto, consentendo alla persona offesa di svolgere la testimonianza nel modo più fluido e continuo possibile, lasciando emergere la spontaneità della narrazione, con le peculiarità individuali che l’accompagnano e i riferimenti a quegli indici di memoria che descrivono tipicamente il vissuto personale.
La testimonianza, soprattutto quando si tratta di riportare fatti traumatici e ripetuti nel tempo, non è una prova di memoria di quanto si è dichiarato nelle indagini preliminari, e la pur fondata esigenza di far emergere nel dibattimento ognuno degli elementi di conoscenza raccolti nella fase investigativa dovrebbe passare attraverso un uso attento e non aggressivo dello strumento della contestazione, preferibilmente evitandosi continue interruzioni del racconto, ma riservando la fase eventualmente contestativa al suo esito.
La tutela della vittima di violenza di genere non si può, ad ogni modo, esaurire nell’attenzione alle modalità di svolgimento dell’attività processuale, ma deve permanere nell’adozione di una tecnica redazionale della motivazione della sentenza che esuli dall’adottare schemi argomentativi e descrittivi legati a strutture di valutazione personali e non attinenti all’oggetto dell’accertamento.
Anche qui, va sottolineato che la valutazione della testimonianza non passa per la valutazione della testimone.
Ma è più facile a dirsi che a farsi.
Il patrimonio di esperienze e di convinzioni personali influenza fisiologicamente l’approccio valutativo individuale. Per questo, il rigore tecnico, accompagnato da una specializzazione effettivamente praticata e da una costante formazione, consente di circoscrivere gli effetti di quella influenza sulla decisione e sull’argomentazione che la sostiene, in modo da rendere i propri condizionamenti trasparenti e riconoscibili.
L’esposizione argomentativa dei motivi a sostegno della valutazione di attendibilità della persona offesa si dovrà, quindi, sviluppare sull’analisi delle caratteristiche del narrato, della sua linearità, della sua coerenza intrinseca, della sua corrispondenza a un’esperienza diretta, per poi passare alla verifica della sussistenza di profili di coerenza con gli ulteriori elementi di conoscenza acquisiti nel corso del dibattimento.
Sarà utile sottolineare i passaggi in cui la testimonianza è stata accompagnata da una comunicazione non verbale altrettanto esplicita (il pianto, il tremore, la mimica di accompagnamento alla descrizione delle condotte aggressive patite, per esempio), aspetti che vanno raccolti agli atti tanto quanto le parole.
Al contrario, il rigore argomentativo non è compatibile con riferimenti all’aspetto fisico della persona offesa, al suo abbigliamento, alle sue abitudini relazionali e simili, trattandosi di profili che non sono funzionali alla ricostruzione del fatto nella sua storicità.
La strada per la quale, anche nella fase del dibattimento, si attui quella «protezione immediata ed adeguata della vittima» prevista dalla Convenzione di Istanbul è ancora lunga, ma è dovere di ogni giudice percorrerla.
1. Indicativi alcuni passaggi dei seguenti paragrafi della pronuncia. Par. 136: «In particolare, la Corte ritiene che i riferimenti fatti dalla Corte d’Appello alla lingerie rossa “mostrata” dalla ricorrente durante la serata, così come i commenti riguardanti la bisessualità della ricorrente, le relazioni romantiche e le relazioni sessuali occasionali prima degli eventi, sono ingiustificati. Allo stesso modo, la Corte considera inappropriate le considerazioni relative all’“atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso”, che la Corte d’Appello ha dedotto, tra l’altro, dalle sue decisioni in materia artistica (…). Inoltre, la Corte ritiene che la valutazione della decisione della ricorrente di denunciare i fatti, che secondo la Corte d’Appello era il risultato di una volontà di “stigmatizzare” e sopprimere un “discutibile momento di fragilità e debolezza”, così come il riferimento alla sua “vita non lineare”, sono anch’essi deplorevoli e irrilevanti»; par. 139: «La Corte ritiene che gli obblighi positivi di proteggere le presunte vittime della violenza di genere impongano anche il dovere di proteggere la loro immagine, dignità e privacy, anche attraverso la non divulgazione di informazioni e dati personali non correlati. Questo obbligo è del resto inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale e da vari strumenti internazionali. In questo senso, la capacità dei giudici di esprimersi liberamente nelle loro decisioni, che è una manifestazione del potere discrezionale dei giudici e del principio di indipendenza della magistratura, è limitata dall’obbligo di proteggere l’immagine e la vita privata degli individui da interferenze ingiustificate».
2. Per la rilevazione dei dati si richiama la circolare Csm del 4 giugno 2020.