Le discriminazioni economiche e di carriera delle donne nel mercato del lavoro
Il settore del diritto del lavoro e dei luoghi di lavoro è stato forse quello più sensibile, negli ultimi decenni, a un profondo processo di riforma europeo (cd. gender mainstreaming) che, appunto su spinta sovranazionale, ha introdotto in molti ordinamenti – compreso quello italiano – una dotazione sempre maggiore di normative antidiscriminatorie per proteggere le donne da discriminazioni e molestie sui luoghi di lavoro. Questo processo non è, tuttavia, certamente compiuto. Il contributo focalizza anzi le attuali sacche di resistenza alla parità di genere in ambito lavorativo e le nuove sfide per affrontarle, in particolare per ciò che riguarda il principio, tuttora diffusamente inattuato, della parità retributiva. Nonostante l’assolutezza del divieto di discriminazione salariale, infatti, è incontrovertibile l’esistenza di un significativo gender pay gap in Italia, come (seppure con differenze significative) all’interno dell’Unione.
1. La tutela della parità retributiva tra uomini e donne: breve cronaca di una rivoluzione / 2. Parità di retribuzione per lavoro di uguale valore. Alla ricerca dell’effettività / 3. Ma i divieti di discriminazione servono alle donne?
«La libertà intellettuale dipende da cose materiali»
Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé
1. La tutela della parità retributiva tra uomini e donne: breve cronaca di una rivoluzione
La storia del lavoro delle donne nell’Italia repubblicana è anche la storia della trasformazione profonda nelle forme di tutela dei loro diritti, una trasformazione che ha finito per influire, seppure in maniera carsica e ad oggi certamente incompiuta, anche sulle relazioni extralavorative tra i generi. Né c’è da stupirsene, giacché è certo che comunque il lavoro (la possibilità di accedervi, la sua disciplina, le garanzie della retribuzione, la sua attitudine ad assicurare un’effettiva indipendenza economica) determina anche l’articolazione e gli equilibri dei rapporti familiari.
Del resto nella regolamentazione del lavoro delle donne, fin dai principi fondanti affermati dalla Costituzione all’art. 37, poi nella legislazione nazionale successiva, il tema della tutela dei diritti delle lavoratrici si intreccia indissolubilmente con quello della protezione, non solo della maternità biologica (del corpo delle donne), ma anche di quella che la Costituzione chiama «l’essenziale funzione familiare» della donna lavoratrice.
Tuttavia, è proprio questa relazione (tra lavoro produttivo e lavoro di cura) che, quanto alle tutele giuridiche, ha subito dall’entrata in vigore della Costituzione una trasformazione significativa, perché al modello “protettivo”, che ha lasciato una traccia importante nell’art. 37 Cost., si è progressivamente sostituito un modello emancipatorio, essenzialmente costruito sul principio di non discriminazione, di fonte eurounitaria. Un modello, quest’ultimo, peraltro storicamente determinato, come in genere le tutele legate all’applicazione del principio paritario di fonte UE, e quindi anch’esso soggetto alla profonda evoluzione che vive il diritto antidiscriminatorio.
Peraltro, questa evoluzione si intreccia – si è già intrecciata – con un’altra, apparentemente inarrestabile, trasformazione: la progressiva precarizzazione di tutto il lavoro, quello degli uomini e quello delle donne, iniziata con accenti e tempi molto diversi a partire dagli anni novanta e che ha impresso anche alla diffusione delle tutele antidiscriminatorie direzioni inedite e spesso contraddittorie, delle quali si proverà a dire in chiusura di questo contributo.
Qualunque cronaca, anche elementare, di questo complesso cammino, non può che prendere avvio dall’art. 37 della Costituzione, secondo cui: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione».
La prima parte della disposizione porta la riaffermazione del principio paritario, espressione dell’uguaglianza formale il cui precetto è contenuto nell’art. 3 della Carta, e insieme la chiara proclamazione della piena inclusione delle donne nella sfera lavorativa.
Assai più complesso è il contenuto normativo del secondo periodo, che compendia probabilmente in sé tutta l’ambivalenza, l’irrimediabile ambiguità del modello protettivo di tutela del lavoro delle donne.
È noto come si tratti di un precetto la cui elaborazione provocò un aspro contrasto tra le diverse componenti dell’Assemblea costituente, una divisione non solo ideologica, ma anche di genere, risolta con il compromesso dell’attuale formulazione, dovuto essenzialmente all’intervento di ricomposizione operato da Moro.
È ambiguo questo precetto, perché da un lato garantisce speciale protezione alla condizione della maternità biologica, una protezione sempre essenziale, ma particolarmente all’epoca di entrata in vigore della Costituzione, quando l’occupazione delle donne si concentrava nei settori del lavoro manuale, quasi sempre usurante (l’agricoltura, il lavoro a domicilio, comunque il lavoro operaio), ed era largamente sommersa nell’economia informale.
La dura condizione delle donne lavoratrici, soprattutto delle classi povere (e l’Italia era allora per lo più povera), costrette a una brutale doppia presenza (nel lavoro produttivo, sottopagato o anche del tutto gratuito in quanto inserito nell’economia della famiglia contadina, e in quello di cura) entra nell’aula della Costituente, nelle parole di alcune delle deputate, che oppongono la vita reale delle donne reali alla retorica sull’“angelo del focolare” di molti dei loro colleghi. Così, la Deputata Federici, che parla di «sofferenze nascoste e crudeli» imposte alle donne, o Lina Merlin, che dice: «Noi sentiamo che la maternità, cioè la nostra funzione naturale, non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato senza che si circoscriva e si limiti il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe come siamo di continuare e completare liberamente la nostra maternità».
Ma il richiamo all’essenziale funzione familiare della donna lavoratrice dice anche altro, perché c’è nella norma, obiettivamente (e la sua formazione in Assemblea costituente lo testimonia), il riferimento anche a un ruolo sociale, a un modello di relazione tra i generi nel quale il lavoro di cura (e di riproduzione sociale) apparteneva naturalmente, nel senso preciso di “per natura”, alle donne.
Ed è proprio questa commistione tra tutela e segregazione, tra protezione dei diritti e perpetuazione di stereotipi, che segna la legislazione successiva per molti anni.
Infatti, fino all’affermarsi del modello antidiscriminatorio, essenzialmente sospinto dal diritto dell’Unione e dal principio del suo primato rispetto alle norme interne degli Stati membri, la tutela del lavoro delle donne nell’ordinamento nazionale resta affidata a un modello protettivo differenziante, che non solo garantisce la maternità biologica (con l’astensione per maternità e il divieto di licenziamento della lavoratrice madre), ma intende anche assicurare alle donne condizioni di lavoro assunte come compatibili con la funzione loro affidata, in via praticamente esclusiva, di cura della famiglia e dei figli.
Rappresentano con particolare evidenza questo modello e le sue ambiguità due complessi di disposizioni: quelle che vietavano il lavoro notturno delle donne e la disciplina differenziata del pensionamento, che prevedeva (e, in alcuni settori, ancora prevede) l’accesso (o la possibilità di accesso) anticipato delle donne al pensionamento. Le vicende sono note.
Quanto alla disciplina del lavoro notturno, l’art. 5 della legge n. 903/1977 aveva conservato il divieto generalizzato del lavoro femminile notturno (inteso come tale quello prestato dalle 24 alle 6) nelle aziende manifatturiere, a eccezione delle «donne che svolgono mansioni direttive, nonché [del]le addette ai servizi sanitari aziendali» e salva la possibilità di modificazione o rimozione del divieto ad opera della contrattazione collettiva «in relazione a particolari esigenze della produzione e tenendo conto delle condizioni ambientali del lavoro e dell’organizzazione dei servizi». Nessuna deroga era consentita per le donne dall’inizio dello stato di gravidanza e fino al compimento del settimo mese di età del bambino.
Il divieto, previsto da analoghe disposizioni della legge francese, arrivò nel luglio 1991 all’esame della Corte di giustizia.
Il parametro di riferimento del giudice dell’Unione era il principio di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, affermato come principio di parità retributiva già nella versione originaria del Trattato istitutivo delle Comunità europee e all’epoca contenuto nella direttiva 76/207/CEE del febbraio 1976, il cui art. 5 prevedeva che «[l]’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso» e impegnava gli Stati membri a sopprimere «le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento».
In quel giudizio, che si concluse con la sentenza Stoeckel, i Governi francese e italiano, che era intervenuto, affermarono che «il divieto di lavoro notturno per le donne, accompagnato peraltro da numerose deroghe, risponde a finalità generali di protezione della manodopera femminile e a considerazioni particolari di ordine sociale riguardanti, ad esempio, i rischi di aggressione ed il maggior carico di lavoro familiare gravante sulla donna».
La Corte di giustizia affermò, in contrario, che:
«Per quanto attiene alle finalità di protezione della manodopera femminile, esse possono ritenersi fondate (…) solamente in quei casi in cui un diverso trattamento fra uomini e donne risulti giustificato. Orbene, quali che possano essere gli inconvenienti del lavoro notturno, non sembra che, salvo i casi di gravidanza e maternità, i rischi ai quali le donne si trovano esposte a causa del detto lavoro presentino, in linea generale, natura differente da quelli cui sono esposti anche gli uomini.
16 Per quanto concerne i rischi di aggressione, ammesso che siano maggiori di notte che di giorno, possono essere predisposte misure adeguate per farvi fronte senza pregiudicare il principio fondamentale della parità di trattamento fra uomini e donne.
17 Quanto alle responsabilità familiari, la Corte ha già affermato che la direttiva non ha lo scopo di disciplinare questioni attinenti all’organizzazione della famiglia o di modificare la ripartizione delle responsabilità all’interno della coppia (v. sentenza 12 luglio 1984, Hoffmann, punto 24 della motivazione, causa 184/83, Racc. pag. 3047)»[1].
Il tenore di quest’ultima affermazione, che non andò esente da critiche, dà conto dell’alterità (a quell’epoca, anche più profonda che adesso) tra il divieto di discriminazione che era alla base del principio di parità di trattamento di fonte eurounitaria e l’apparato protettivo del lavoro delle donne in essere in Italia e anche in altri Stati della Comunità.
Una diversità che rimandava in primo luogo alla diversa origine del principio di non discriminazione. Quel principio, affermato, come si è detto, già nel trattato istitutivo nelle forme della parità retributiva, nasceva per una comunità di Stati all’epoca solo economica; nasceva, quindi, per il mercato, per assicurarne il corretto funzionamento e la libera circolazione dei lavoratori, e mirava a evitare fenomeni di dumping sociale. Quest’origine e questa funzione mercatista giustificavano allora l’affermazione della Corte di giustizia che la direttiva non curasse i rapporti familiari: non li curava perché il suo ambito di riferimento era il mercato.
Quindi, a discipline come quella nazionale italiana e francese, che assicuravano alle donne condizioni lavorative astrattamente di maggior favore (in quanto le esentavano da un lavoro di per sé disagiato come quello notturno), ma proteggevano e conservavano anche un ordine sociale in cui il lavoro di cura gravava “per natura” su di loro, se ne contrapponeva un’altra nella quale gli uomini e le donne operavano ed erano protetti in quanto attori economici, ai quali doveva essere assicurata piena parità nell’accesso alle occasioni di lavoro offerte dal mercato.
Un contrasto simile si produsse diversi anni dopo, questa volta in relazione a disposizioni dell’ordinamento italiano, quelle relative all’età pensionabile delle donne (segnatamente, le lavoratrici pubbliche), che il diritto interno differenziava rispetto a quella degli uomini, attribuendo alle lavoratrici il diritto di accedere ai trattamenti di vecchiaia in età meno avanzata degli uomini.
Un regime che la Corte costituzionale aveva ritenuto legittimo anche nella pronuncia (si tratta di Corte cost., n. 498/1988) con cui aveva, invece, caducato la disposizione dell’art. 4 legge n. 903/1977, che attribuiva alle donne lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, la possibilità di continuare a lavorare (secondo il regime di stabilità, reale od obbligatoria, proprio del rapporto) negli stessi limiti di durata del rapporto di lavoro prevista per l’uomo lavoratore da disposizioni legislative, regolamentari o contrattuali, ma solo per le donne richiedeva un’opzione in tal senso e la sua comunicazione al datore di lavoro, da farsi entro un termine prestabilito (una disposizione analoga, introdotta dal d.lgs n. 198/2006, è stata dichiarata incostituzionale da Corte cost., 29 ottobre 2009, n. 275).
Nella pronuncia del 1988, la Corte aveva infatti distinto tra età massima lavorativa (di cui si discuteva a proposito del disposto dell’art. 4 l. n. 903/1977), che doveva essere «eguale per la donna e per l’uomo» (così che la norma dell’art. 4, che invece differenziava la posizione degli uomini e delle donne quanto alla conservazione del rapporto di lavoro nel regime di stabilità suo proprio, doveva ritenersi incostituzionale) e il diritto «della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione»[2].
Portata questa disciplina alla cognizione della Corte di giustizia a iniziativa della Commissione, il Governo italiano, difendendosi in quel giudizio, affermò la finalità protettiva del trattamento differenziale, ma la Corte di giustizia fu di contrario avviso[3].
Anche in questo caso è significativo leggere gli argomenti del giudice dell’Unione. Secondo la Corte, infatti:
«57. L’argomento della Repubblica italiana secondo cui la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione di età diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne non può essere accolto. Anche se l’art. 141, n. 4, CE autorizza gli Stati membri a mantenere o a adottare misure che prevedano vantaggi specifici, diretti a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali, al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne nella vita professionale, non se ne può dedurre che questa disposizione consente la fissazione di una tale condizione di età diversa a seconda del sesso. Infatti, i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo (…)
58. Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale»[4] (c.vo aggiunto).
A fronte di simili diversità tra ordinamento interno e ordinamento dell’Unione, la primazia del diritto dell’Unione, che segue alla speciale relazione di integrazione tra l’ordinamento sovranazionale e quello degli Stati membri, ha comportato necessariamente la progressiva sostituzione del modello protettivo con quello emancipatorio fondato sul principio di non discriminazione.
Così è avvenuto, come è noto, nei due casi sopra menzionati.
Nel primo, infatti, il legislatore italiano, con la l. n. 25/1999, modificò l’art. 5 l. n. 903/1977, che conteneva il divieto di lavoro notturno, limitò tale divieto alle lavoratrici madri (dall’inizio della gravidanza fino all’anno di età del bambino) e garantì ad alcune categorie di lavoratrici e lavoratori (genitori di bambini fino a tre anni o fino a dodici in caso di unico genitore affidatario e soggetti che si prendano cura di portatori di handicap) il diritto a non lavorare di notte, mentre nel caso delle lavoratrici pubbliche aumentò l’età pensionabile anche per le donne.
D’altra parte, a fronte dell’arretramento del modello protettivo, il principio di non discriminazione di fonte UE, nato per il mercato, per assicurare la parità di trattamento tra attori economici, si è arricchito di contenuti, grazie anche alla giurisprudenza della Corte di giustizia.
Si è ampliata infatti non solo l’area della sua applicazione (in ragione dell’individuazione di nuovi fattori di protezione oltre l’archetipo della differenza di genere, tali da individuare non solo condizioni innate, come la razza o l’età, ma anche scelte di vita, così le convinzioni personali), ma più ancora il suo contenuto valoriale, che la Corte di giustizia, con un percorso non sempre lineare (come spesso accade al diritto, che è più di corti che di leggi scritte), ha tuttavia dichiaratamente ancorato ai diritti fondamentali della persona, così che esso si è rivelato capace di operare anche in maniera disfunzionale rispetto alle logiche del mercato per cui era nato[5].
D’altro canto, la peculiare natura del dispositivo antidiscriminatorio (incentrata sul divieto di trattamenti differenziali oggettivamente connessi ai fattori di discriminazione, senza che rilevi una soggettiva volontà dell’agente di discriminare)[6] e del regime dell’onere della prova che gli è proprio[7], come pure l’attribuzione della legittimazione ad agire per fare accertare trattamenti discriminatori in capo a soggetti collettivi o pubblici (è il caso, per le discriminazioni di genere, delle consigliere di parità), hanno modificato significativamente le possibilità di concreta tutela dei diritti delle donne alla pari condizione nel rapporto di lavoro.
Perché il fatto che non sia necessario indagare la volontà soggettiva dell’autore delle asserite discriminazioni, che su questi gravi una frazione consistente dell’onere della prova e che si possa agire anche quando non è individuata la vittima delle discriminazioni (perché ad agire sono soggetti collettivi a ciò legittimati) consente alle tutele antidiscriminatorie di operare anche in ambiti in cui le norme protettive si erano rivelate poco o per niente efficaci – così, per esempio, nel caso dell’accesso al lavoro o nelle progressioni di carriera[8].
Ugualmente, la funzione non solo riparativa (ma anche dissuasiva e latamente sanzionatoria) del risarcimento del danno affermata nelle direttive antidiscriminatorie[9] permette, in linea di principio, di assicurare una tutela minima a fronte di violazioni in cui un pregiudizio effettivamente sopportato dal danneggiato è difficilissimo da individuare e, ancora di più, da provare.
Ma il modello cd. “emancipatorio”, fondato sul principio di non discriminazione, appare in grado di fornire tutele incisive anche in ambiti più tradizionali, come quello della disciplina limitativa dei licenziamenti, nel momento in cui questa si ridimensiona marginalizzando le tutele reintegratorie, che restano appunto limitate al licenziamento discriminatorio e a poche altre fattispecie. Ciò, essenzialmente, ancora in ragione del carattere oggettivo del divieto di discriminazione e del peculiare regime dell’onere della prova.
2. Parità di retribuzione per lavoro di uguale valore. Alla ricerca dell’effettività
Il processo d’integrazione tra diritto interno e diritto dell’Unione ha portato, quindi, la disciplina nazionale in tema di parità di diritti tra uomini e donne nel rapporto di lavoro a modellarsi su quella delle fonti eurounitarie.
Più specificamente, quanto alla parità retributiva, la norma dell’art. 28 del «Codice delle pari opportunità» richiama quasi letteralmente il disposto dell’art. 4 dir. 2006/54/CE, secondo cui, «per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, occorre eliminare la discriminazione diretta e indiretta basata sul sesso e concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni. In particolare, qualora si utilizzi un sistema di classificazione professionale per determinare le retribuzioni, questo deve basarsi su principi comuni per i lavoratori di sesso maschile e per quelli di sesso femminile ed essere elaborato in modo da eliminare le discriminazioni fondate sul sesso».
A fronte dell’assolutezza del divieto di discriminazione è, tuttavia, fatto incontrovertibile l’esistenza di un significativo gender pay gap, in Italia, come in genere (seppure con differenze significative) all’interno dell’Unione europea[10]. Secondo gli ultimi dati Eurostat riferiti al 2020[11], infatti, tra i salari di uomini e donne vi è nell’ambito dell’Ue un differenziale medio rapportato alla paga oraria del 13,0%, con un’oscillazione molto ampia tra i diversi Paesi, mentre il dato dell’Italia è del 4,2%.
Si tratta, come precisa Eurostat, di misurazioni “grezze” (unadjusted), che non tengono conto cioè di alcuni fattori che differenziano significativamente le modalità di impiego di uomini e donne, a partire dalle diverse forme contrattuali cui gli uni e le altre accedono con diversa frequenza (per ragioni varie) e dalla persistente diversità del numero medio di ore lavorate dai due gruppi.
È noto, infatti, come le donne siano impiegate in percentuale molto più alta degli uomini con contratti part-time, come pure il fatto che le carriere femminili mediamente subiscano un numero maggiore di interruzioni (generalmente connesse al lavoro di cura) e siano, perciò, generalmente più brevi. Non è un caso quindi che il gap retributivo aumenti significativamente ove si abbia riguardo non alla paga oraria, ma a quella mensile e a quella annua[12].
Inoltre, a differenziare significativamente lavoratori e lavoratrici come gruppi è il fatto della concentrazione del lavoro femminile in settori dove le retribuzioni sono più basse e la sindacalizzazione minore (il lavoro domestico, ma più generalmente le attività legate alla cura delle persone; nel settore manifatturiero, l’industria tessile).
È certo, pertanto, che «le differenze nelle retribuzioni di uomini e donne devono essere interpretate come il risultato di un confronto tra due popolazioni di lavoratori con caratteristiche diverse»[13], per quanto tali diverse caratteristiche dipendano anch’esse in misura non irrilevante dalla posizione deteriore delle donne, come gruppo, nel mercato del lavoro. Una posizione determinata in primo luogo dalla disparità del loro impegno nel lavoro di cura rispetto agli uomini (che ha incidenza diversa nei diversi Paesi, in conseguenza di fattori vari)[14] e, dato probabilmente collegato al primo, dalla loro segregazione occupazionale in settori meno remunerativi.
Tuttavia, studi e rilevazioni più recenti hanno cercato di tener conto delle differenze tra le due popolazioni, e perciò di «separare le caratteristiche dei lavoratori (come istruzione, anzianità, qualifica professionale, addestramento sul lavoro, ecc.) da come queste caratteristiche sono valutate (ovvero, retribuite)»[15]. Non è allora irrilevante segnalare come anche simili indagini abbiano concluso che, «anche se la composizione della forza lavoro tra i sessi rispetto alle caratteristiche personali e occupazionali fosse identica, rimane un considerevole gap tra le retribuzioni di uomini e donne. Detto in altri termini, il lavoro svolto dalle donne è valutato meno rispetto al lavoro svolto dagli uomini»[16] (c.vo aggiunto).
È questo differenziale (la retribuzione diversa per lo stesso lavoro o un lavoro di valore uguale) a formare oggetto, nel diritto positivo, del divieto previsto dall’art. 28 del codice delle pari opportunità, che si riferisce certamente non solo alle retribuzioni minime (rispetto alle quali opererebbe comunque il parametro della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost., che consente il riferimento ai minimi previsti dall’autonomia collettiva), ma più generalmente a qualsiasi trattamento retributivo.
Anzi, è ragionevole ritenere che l’ambito applicativo privilegiato del divieto debba essere quello dei trattamenti superiori ai minimi, più spesso riservati alle professionalità più elevate[17].
I dati, del resto, confermano che il gender pay gap si allarga al crescere del titolo di studio: è pari al 16,5% tra le persone che non hanno un diploma, al 17% tra i diplomati, ma è quasi il doppio tra i laureati (29%)[18]. Ancora, si amplia al crescere del livello gerarchico, in tutte le professioni: è pari al 18,1% tra gli operai specializzati, al 12,1% nelle professioni non qualificate, mentre è massimo tra i dirigenti (33,5%) e tra i professionisti (29,3%)[19].
È un fatto, tuttavia, che la norma dell’art. 28 del codice delle pari opportunità abbia avuto nella pratica giudiziale scarsissima applicazione, probabilmente per varie ragioni.
In primo luogo, a una simile marginalità ha contribuito la ricostruzione della discriminazione come motivo illecito, operata dalla giurisprudenza assolutamente prevalente fino a tempi recentissimi[20], con le conseguenti difficoltà probatorie per chi l’affermasse.
Né probabilmente è stato irrilevante, nel medesimo senso, l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che, almeno a partire da Cass., sez. unite, 9 maggio 1993, n. 6030, ha escluso l’esistenza, nel rapporto di lavoro privato, di un principio di parità di trattamento contrattuale, oltre la “parità nei minimi”, così che ogni trattamento differenziato al di sopra di tali minimi era considerato legittimo, a meno che non vi fosse prova della sua natura discriminatoria, ma intesa la discriminazione nell’accezione “soggettiva” di cui si è detto[21].
In ogni caso, anche ritenendo invece sindacabile il trattamento differenziale alla luce del principio di buona fede contrattuale, in effetti un’indagine fondata su quel canone si sarebbe comunque scontrata con difficoltà probatorie spesso insormontabili per la parte attrice, tenuta a superare la presunzione di buona fede prevista dal codice civile.
Il revirement della Corte di cassazione (di cui alla più volte citata Cass., n. 6675/2016) nel senso del carattere oggettivo dei divieti di discriminazione – e la conseguente applicazione anche da parte del giudice nazionale del regime probatorio agevolato previsto per le discriminazioni dal diritto dell’Unione – apre allora nuove prospettive di tutela anche a fronte di trattamenti differenziali sul piano retributivo.
Certo, anche così, l’onere gravante sulla parte che si afferma discriminata non è agevole.
In particolare, potrebbe non essere facile indicare correttamente i termini del giudizio di comparazione, cioè individuare adeguatamente il lavoratore comparabile, specie quando si faccia questione di lavoratori richiesti non dello stesso lavoro, ma di lavori di “uguale valore”.
E, ancor prima, un ostacolo alla comparazione può essere rappresentato dalla difficoltà, per la lavoratrice che assuma di essere discriminata, di avere accesso ai dati retributivi dei colleghi, giacché la normativa interna in materia di parità non prevede, neppure all’esito delle modifiche apportate da ultimo dalla l. n. 162/2021, il diritto della lavoratrice o del lavoratore a ottenere dal datore di lavoro informazioni relative alla retribuzione corrisposta agli altri dipendenti che svolgano analoghe mansioni, come invece previsto dalla proposta di direttiva europea approvata dalla Commissione il 4 marzo 2021.
Di conseguenza, l’unica reale possibilità per i lavoratori e le lavoratrici di acquisire i dati in questione è a mezzo dell’accesso al rapporto sulla situazione del personale, che i datori di lavoro pubblici e privati che impieghino più di cinquanta dipendenti sono tenuti a redigere e a trasmettere al Ministero del lavoro «ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta» (così il testo vigente dell’art. 46 d.lgs n. 198/2006, da ultimo modificato dalla l. n. 162/2021).
Il rapporto, che deve essere trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali, deve menzionare in ogni caso «il numero dei lavoratori occupati di sesso femminile e di sesso maschile, il numero dei lavoratori di sesso femminile eventualmente in stato di gravidanza, il numero dei lavoratori di sesso femminile e maschile eventualmente assunti nel corso dell’anno, le differenze tra le retribuzioni iniziali dei lavoratori di ciascun sesso, l’inquadramento contrattuale e la funzione svolta da ciascun lavoratore occupato, anche con riferimento alla distribuzione fra i lavoratori dei contratti a tempo pieno e a tempo parziale, nonché l’importo della retribuzione complessiva corrisposta, delle componenti accessorie del salario, delle indennità, anche collegate al risultato, dei bonus e di ogni altro beneficio in natura ovvero di qualsiasi altra erogazione che siano stati eventualmente riconosciuti a ciascun lavoratore».
Esso deve, inoltre, contenere «informazioni e dati sui processi di selezione in fase di assunzione, sui processi di reclutamento, sulle procedure utilizzate per l’accesso alla qualificazione professionale e alla formazione manageriale, sugli strumenti e sulle misure resi disponibili per promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sulla presenza di politiche aziendali a garanzia di un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso e sui criteri adottati per le progressioni di carriera» (entrambi i riferimenti sono all’art. 46 del d.lgs n. 198/2006).
Si tratta quindi, all’evidenza, di dati indispensabili al fine di poter operare una qualsiasi valutazione comparativa tra i trattamenti retributivi di lavoratori diversi, così che la possibilità per i lavoratori e le lavoratrici di accedervi risulta cruciale per la costruzione del giudizio di comparazione in cui si articola l’accertamento della discriminazione.
In fatto, l’accesso ai dati contenuti nel rapporto è oggi disciplinato dal dm del 29 marzo 2022, che prevede che esso sia conservato dalla consigliera di parità e dalle rappresentanze sindacali aziendali, e da essi consegnato al lavoratore o alla lavoratrice che ne facciano richiesta al fine di tutelare i propri diritti in giudizio.
Ammesso, dunque, che la lavoratrice che si affermi discriminata assolva, anche a mezzo dei dati contenuti nel rapporto, l’onere di dimostrare il trattamento deteriore a parità di mansioni (cioè l’attribuzione di una retribuzione inferiore rispetto al lavoratore comparabile), spetterà al datore di lavoro dimostrare l’inesistenza della discriminazione, quindi l’esistenza di una ragione alternativa lecita per l’attribuzione del trattamento differenziale, con allegazioni altrettanto specifiche e prove sufficienti. E l’insufficienza o la contraddittorietà di una simile prova andranno a suo danno, in ragione del meccanismo probatorio oggi descritto dall’art. 40 del codice delle pari opportunità.
Merita, infine, rilevare come trattamenti retributivi deteriori possano essere frutto anche di discriminazione indiretta[22]. In questi casi si fa questione di regole apparentemente neutre, che tuttavia espongono (per quanto interessa) le lavoratrici al rischio di un particolare svantaggio (si pensi alle disposizioni di vari contratti collettivi che legano la corresponsione di talune voci retributive accessorie alla presenza effettiva in servizio per un tempo minimo nell’anno, senza operare alcuna “neutralizzazione” dei periodi di astensione per maternità o congedo parentale, disposizioni che possono determinare un particolare svantaggio per le lavoratrici madri, che usufruiscono in via esclusiva dell’astensione obbligatoria e, in misura largamente prevalente, dei congedi parentali).
Nelle ipotesi in cui si lamenti una discriminazione indiretta, tuttavia, il datore di lavoro potrà opporre – diversamente dai casi di discriminazione diretta – l’esistenza di cause di giustificazione: sarà cioè ammesso a provare di aver agito per un fine legittimo, con mezzi appropriati e necessari.
Nella discriminazione indiretta, infatti, l’interesse del lavoratore alla parità di trattamento si confronta non solo con l’interesse essenziale dell’impresa a una specifica prestazione, come nei casi di discriminazione diretta, ma più ampiamente con la generalità delle esigenze organizzative dell’imprenditore, purché non illecite, reali, cioè non meramente fittizie, e obiettive, nel senso minimo e descrittivo di esigenze «non rivolte a caratteristiche proprie della persona o del gruppo»[23], così che il bilanciamento dei diversi interessi resta affidato al criterio della proporzionalità, di cui dice in via generale l’art. 2, par. 2 della direttiva 2000/78.
Ora, il requisito della proporzionalità dei mezzi è certamente altro da quello dell’essenzialità del requisito (che esclude la discriminazione diretta); tuttavia, neppure può ritenersi che il relativo accertamento si esaurisca nella verifica dell’esistenza di un qualsiasi interesse del datore di lavoro alla differenziazione (e quindi oppositivo rispetto a quello dei lavoratori alla parità di trattamento). Al contrario, il riferimento alla proporzione implica, se non necessariamente una valutazione di gerarchia tra gli interessi in conflitto, almeno un raffronto «tra l’effetto sproporzionatamente svantaggioso della misura contestata e l’aumento dei costi collegato all’adozione di una diversa misura»[24].
Oltre a vietare trattamenti retributivi differenziali in relazione al genere, le norme antidiscriminatorie precludono anche discriminazioni tra uomini e donne nell’assegnazione delle mansioni e nelle progressioni di carriera.
Nell’ordinamento interno, come è noto, il precetto è contenuto nell’art. 29 del codice delle pari opportunità, che si riferisce certamente sia alle discriminazioni dirette sia a quelle indirette.
Anche in questo caso, la disposizione di legge si confronta con il dato certo dell’esistenza di un significativo squilibrio di genere in relazione ai vari livelli retributivi, esistente, sia pure in misura diversa, in tutti i Paesi dell’Unione e connotato da una «progressiva rarefazione della presenza femminile mano a mano che si sale nei livelli di carriera (e, di conseguenza, nei livelli retributivi)»[25]. Un fenomeno che, nella gran parte dei Paesi e comunque in Italia, è più evidente nel settore privato rispetto all’impiego pubblico, in cui il meccanismo del concorso costituisce un importante correttivo.
Nell’ordinamento interno, la scarsa giurisprudenza che si è occupata del tema ha avuto riguardo per lo più a fattispecie in cui si assumeva l’esistenza di discriminazioni indirette.
In particolare, si è lamentato l’effetto pregiudizievole di previsioni (di bandi o selezioni per le progressioni di carriera o l’acquisizione comunque di benefici, quali il trasferimento a domanda) in cui il punteggio risultava legato alla durata della prestazione (così che ne erano penalizzati i part-timer e, di conseguenza, le donne, maggiormente impiegate in contratti a orario ridotto – cfr. Cass., 29 luglio 2021, n. 21801) o all’effettiva presenza in servizio (così nella controversia decisa da Trib. Siracusa, 10 maggio 2017)[26].
Particolarmente interessanti sono le fattispecie in cui la progressione risulta collegata alla disponibilità dei lavoratori e delle lavoratrici a variazioni di tempi e luogo di lavoro. La questione è stata affrontata dalla Corte di giustizia già con la sentenza Danfoss (Cgce, 17 ottobre 1989, relativa a trattamenti retributivi differenziati). In quella controversia il giudice dell’Unione aveva affermato che il criterio della flessibilità «può anche operare a danno dei lavoratori di sesso femminile, i quali, a causa di impegni casalinghi e familiari di cui hanno sovente la responsabilità, possono meno facilmente dei lavoratori di sesso maschile organizzare il loro orario di lavoro in modo flessibile», concludendo poi per la possibilità del datore di lavoro di «giustificare la remunerazione di una tale adattabilità dimostrando che quest’ultima riveste importanza per l’esecuzione di compiti specifici che sono affidati al lavoratore».
Ne deriva che, secondo lo schema descritto dalla Corte (certamente utilizzabile anche quando la «remunerazione» della flessibilità consista nell’utilità rappresentata da una valutazione favorevole ai fini delle progressioni di carriera), data per acquisita la legittimità del fine perseguito dal datore di lavoro, a essere determinante sarà generalmente il giudizio di proporzionalità, quindi l’apprezzamento, necessariamente rimesso al giudice nazionale, dell’entità del vantaggio ottenuto (o perseguito) dal datore di lavoro con la misura determinante la differenziazione in relazione al fattore protetto, in rapporto allo svantaggio, per il gruppo portatore del fattore medesimo, determinato dalla misura.
Un giudizio nel quale dovrà farsi questione, quindi, della necessità della misura rispetto al vantaggio (o, in contrario, della sua fungibilità con strumenti idonei al soddisfacimento dello stesso interesse, ma non implicanti differenziazioni in dipendenza del fattore protetto), una valutazione peraltro che la norma nazionale, in quanto prevede come costitutivo della causa di giustificazione anche l’essenzialità del requisito connesso al trattamento differenziale, impone di operare con rigore, pretendendo una prova adeguata dell’importanza del requisito (della disponibilità alla flessibilità della prestazione lavorativa) rispetto alle mansioni specifiche proprie delle figure professionali alla cui copertura la selezione sia finalizzata.
3. Ma i divieti di discriminazione servono alle donne?
Guardando indietro, alle trasformazioni che le forme di tutela dei diritti delle donne che lavorano hanno subito dal dopoguerra, e provando un qualche rudimentale bilancio, dovrebbe allora concludersi per la maggiore efficacia del modello emancipatorio rispetto a quello protettivo tradizionale, ispirato dall’art. 37 Cost., quando si faccia questione della garanzia dei diritti delle donne, del loro diritto al lavoro e alla condizione di indipendenza economica che è presupposto della libertà di vita?
Le cose non sono probabilmente così semplici, perché, come già accennato, l’affermazione del modello emancipatorio ha in larga parte coinciso con una profonda trasformazione delle forme della produzione e di quelle dell’accumulazione del capitale, che si è tradotta in modificazioni profondissime del lavoro, quello degli uomini e quello delle donne, il lavoro senza aggettivi.
È inutile dire – perché è troppo noto – che questa trasformazione è stata nel segno della precarizzazione del lavoro, non solo nel senso della progressiva sostituzione del lavoro a tempo indeterminato con forme contrattuali non stabili, ma anche della flessibilizzazione della prestazione lavorativa, cioè dell’estrema variabilità dei tempi di lavoro a fronte delle richieste di un’organizzazione produttiva fondata sul sistema del “just in time”, nella quale il lavoro, fattore della produzione come gli altri, deve essere disponibile solo quando serve, non prima e non oltre.
È chiaro che la dipendenza del tempo della prestazione lavorativa da quello dell’organizzazione produttiva è un fatto non nuovo – appartiene alla natura del lavoro salariato –; ma, nell’organizzazione produttiva fordista, la relazione tra tempo di lavoro e tempo della produzione era segnata dalla ripetitività, dalla “routinarietà”, che costituiva essa stessa uno dei fattori di alienazione del lavoro fordista.
In contrario, alla trasformazione delle forme della produzione e dell’accumulazione nei nostri anni ha fatto seguito la dipendenza del lavoro da tempi estremamente variabili, così che esso diventa intermittente e dev’essere, insieme, necessariamente disponibile nei tempi più diversi, finendo per invadere i tempi di vita. Allo stesso tempo, però, il lavoro diviene inidoneo, insufficiente a consentire di progettarla – la vita –, perché la retribuzione non è più sufficiente, nella sua continuità ma anche nella sua misura, per alcun progetto.
Questa trasformazione ha finito per far assumere al lavoro di tutti e di tutte connotati che si era abituati a ritenere propri del lavoro delle donne: il suo carattere intermittente, l’inadeguatezza dell’impiego rispetto alla propria qualificazione professionale e, soprattutto, la sua comune insufficienza a consentire un qualche autonomo progetto di vita.
Allora, in questa condizione di generalizzata sottoprotezione, si rimprovera al modello emancipatorio (e quindi, essenzialmente, ai divieti di discriminazione) di aver lasciato più indifese le donne, in quanto non più garantite (o non più garantite nella stessa misura) dalle norme protettive, sole di fronte alle esigenze del mercato, che pretende anche il tempo della vita, della cura, delle relazioni familiari.
Così, di recente si è scritto[27] che proprio il diritto antidiscriminatorio sarebbe servito «alla Ue a smantellare le legislazioni protettive del lavoro, e a ridurre il campo delle ragioni che un lavoratore può opporre al datore», che «una eguale irrilevanza delle condizioni di vita di chi lavora è l’ideale cui tende la tutela antidiscriminatoria» e che, per contro, la legislazione protettiva del lavoro delle donne sarebbe stata espressione di «un principio che non riguarda solo le donne: la vita umana, e la società, cioè le relazioni che ci tengono uniti gli uni agli altri e ci danno autonomia e libertà, hanno valore e per questo devono essere tutelate davanti alla logica del profitto che tende a espropriarle. (…) [D]enunciando come discriminatorie le norme protettive per le donne, la Ue ha demolito la legittimazione di ogni tutela nel lavoro e ha costruito il suo modello ideale: la persona che vive per garantire il soddisfacimento delle esigenze del mercato».
Sono osservazioni che meritano una riflessione perché muovono da alcuni dati reali: l’eliminazione del divieto di lavoro notturno ha effettivamente portato all’estensione alle donne di condizioni lavorative in sé disagevoli, la parità di trattamento nell’accesso alla pensione delle lavoratrici pubbliche si è tradotta nell’innalzamento dell’età pensionabile anche per le donne.
Tuttavia, le conclusioni che se ne fanno derivare non sono, ad avviso di chi scrive, condivisibili.
Il dispositivo antidiscriminatorio, infatti, di per sé non ha eliminato né concorso ad eliminare alcuna tutela; piuttosto, prescrive che sia assicurata parità di trattamento, senza individuare in concreto il trattamento applicabile. Le scelte che hanno determinato l’individuazione del trattamento comune a uomini e donne sono state quindi scelte politiche, riferibili alla discrezionalità (e, perciò, alla responsabilità) dei decisori dell’Unione e degli Stati membri (esemplare la vicenda delle pensioni delle lavoratrici pubbliche italiane, in cui la scelta dell’età pensionabile per tutti è stata del legislatore italiano, non certo della Corte di giustizia).
Le tutele cioè sono diminuite in relazione a scelte di politica del diritto del tutto indipendenti dai divieti di discriminazione, e legate a un preciso approccio alla risoluzione delle questioni poste dalle trasformazioni delle imprese e dell’organizzazione del lavoro (il noto - ma assai discutibile e oggi, alla fine, discusso - principio della relazione tra flessibilità del lavoro e crescita dell’occupazione e, più profondamente e radicalmente, la scelta culturale, prima che politica, di assumere il mercato e la concorrenza come unico sistema produttivo di valori, non solo dei rapporti economici, ma anche di ambiti sociali che potevano essere loro preclusi e affidati a diversi sistemi regolativi).
Anzi, rispetto alla “teologia del mercato”, i divieti di discriminazione hanno in effetti mostrato di operare (non sempre, ma comunque in misura significativa) come limite insuperabile, anche a dispetto della loro origine, come già scriveva l’avvocato generale nelle sue conclusioni nel caso Feryn: «il mercato non cura le discriminazioni, per questo ci vuole la legge».
Per questo, pare a chi scrive che chi ha cuore le ragioni dei diritti debba continuare a riporre una qualche fiducia (ragionevole, cauta e, magari, disincantata fiducia) in questi strumenti. In caso diverso, infatti, non ci sarà nulla da guadagnare per i lavoratori e le lavoratrici, che saranno anche più soli di fronte alla logica acquisitiva del mercato.
1. Cgce, Stoeckel, C-345/89, 25 luglio 1991, n. 345, punti 15-17 della motivazione.
2. Così Corte cost., 27 aprile 1988, n. 498, punto 3.2 della motivazione.
3. Si tratta della decisione Cgue, Commissione c. Repubblica italiana, C-46/07, 13 novembre 2008.
4. Così Cgue, ivi, punti 57 e 58 della motivazione.
5. Così, per esempio, in Cgue, Feryn, C-54/07, 10 luglio 2008.
6. Sul punto, nell’ordinamento interno, cfr. soprattutto Cass., n. 6675/2016, che, modificando un consolidato orientamento precedente, ha per la prima volta affermato nella giurisprudenza di legittimità il carattere oggettivo e funzionale dei divieti di discriminazione – indirizzo ad oggi da ritenersi consolidato.
7. Come è noto, secondo l’art. 40 del codice delle pari opportunità, «Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione».
8. Così, sia la Corte di giustizia sia il giudice nazionale hanno indagato in ordine all’esistenza di politiche di assunzione discriminatorie, anche in relazione a fattori diversi dal genere. Quanto alle decisioni della Cgue, cfr.: Feryn, già citata (supra, nota 5), in cui si discuteva di discriminazione per razza e origine etnica; Accept, C-81/12, 25 aprile 2013, in cui il fattore di discriminazione rilevante era l’orientamento sessuale; Egenberger, C-414/16, 17 aprile 2018, relativa a una politica di assunzione ritenuta discriminatoria per ragioni di religione; infine, NH, C-507/18, 23 aprile 2020, resa in una vicenda svoltasi davanti al giudice italiano, e relativa ancora a una discriminazione per ragioni di orientamento sessuale. Quest’ultima controversia è stata esaminata prima da Trib. Bergamo, 6 agosto 2014 (www.osservatoriodiscriminazioni.org/index.php/2015/10/14/tribunale-di-bergamo-ordinanza-del-6-agosto-2014/), quindi da Corte appello Brescia, 11 dicembre 2014 (www.osservatoriodiscriminazioni.org/index.php/2015/10/16/204/), da Cass., 20 luglio 2018, n. 19443, che aveva rimesso le questioni di causa al giudizio della Cgue e, infine, da Cass., 15 dicembre 2020, n. 28646. Sulle discriminazioni nelle progressioni di carriera, cfr. da ultimo, con ampia motivazione, Cass., 29 luglio 2021, n. 21801.
9. L’art. 18 della direttiva 2006/54/CE obbliga, infatti, gli Stati membri a introdurre nei rispettivi ordinamenti nazionali le misure necessarie per garantire, per il danno subito da una persona lesa a causa di una discriminazione fondata sul sesso, «un indennizzo o una riparazione reali ed effettivi, da essi stessi stabiliti in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati al danno subito. Tale indennizzo o riparazione non può avere un massimale stabilito a priori, fatti salvi i casi in cui il datore di lavoro può dimostrare che l’unico danno subito dall’aspirante a seguito di una discriminazione ai sensi della presente direttiva è costituito dal rifiuto di prendere in considerazione la sua domanda». Analogamente, l’art. 17 della direttiva quadro 2000/78 dispone che «gli Stati membri determinano le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione. Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere effettive, proporzionate e dissuasive».
10. Sul punto, cfr. ampiamente R. Nunin, Alcune riflessioni in tema di gender pay gap nel contesto italiano ed eurounitario, in S. Scarponi (a cura di), Diritto e genere. Analisi interdisciplinare e comparata, CEDAM, Padova, 2014, pp. 252-275.
11. https://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/sdg_05_20/default/table?lang=en.
12. Si vedano i dati tratti dalle statistiche Eurostat riportati da L. Rosti, Cosa sappiamo (e cosa non sappiamo) sulla gender pay gap, Il Sole 24ore, 19 settembre 2022.
13. P. Villa, Gender pay gap, in Ingenere.it, 23 aprile 2010.
14. L. Rosti, Cosa sappiamo, cit., rileva come, sommando il tempo dedicato alla produzione domestica e quello dedicato alla produzione per il mercato, le donne occupate a tempo pieno lavorano mediamente più ore degli uomini (dato Eurostat 2018) e anche l’indice di asimmetria nella condivisione del lavoro familiare, calcolato dall’Istat, conferma che il 70% del lavoro familiare è svolto dalle donne anche nelle coppie con figli nelle quali entrambi i coniugi sono occupati (dati 2013).
15. P. Villa, Gender pay gap, cit.
16. Ibid.
17. Vds., ad esempio, il caso deciso da Corte appello Torino, 25 settembre 2017, in Giur. it., n. 2/2018, p. 426, relativo a due figure apicali.
18. Ancora L. Rosti, Cosa sappiamo, cit.
19. Ibid.
20. Per l’orientamento tradizionale che, per un verso, affermava una nozione aperta e non tassativa dei diversi fattori di discriminazione e, per l’altro, operava una sostanziale assimilazione tra atto discriminatorio e atto fondato su di un motivo illecito determinante ex art. 1345 cc, perciò includendo nella nozione di discriminazione il requisito necessario di un intento soggettivo di discriminare, quale motivo esclusivo dell’atto, che doveva essere provato da chi l’affermasse, si vedano, ex plurimis, Cass.: 9 luglio 2009, n. 16155; 1° dicembre 2010, n. 24347; 5 novembre 2012, n. 18927. Il mutamento d’indirizzo si deve alla decisione n. 6675/2016 della Corte di cassazione, già menzionata (supra, nota 6).
21. Cfr. Cass., 17 maggio 2003, n. 7752, secondo cui al giudice non sarebbe consentito neppure un controllo di ragionevolezza «sotto il profilo del rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede, che non sono invocabili in caso di eventuale diversità di trattamento non ricadente in alcuna delle ipotesi legali (e tipizzate) di discriminazione vietate, a meno che il rispetto di tali clausole discenda dalla necessità di comparazione delle situazioni di singoli lavoratori da parte del datore di lavoro che, nel contesto di una procedura concorsuale o selettiva, debba operare una scelta di alcuni di essi».
22. Come è noto: a) si ha discriminazione diretta quando, sulla base di uno dei fattori specificamente indicati (età, genere, orientamento sessuale, handicap, convinzioni religiose o personali, razza od origine etnica), una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia stata – o sarebbe – trattata un’altra in una situazione analoga; b) si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di un genere, di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che, nel caso b), tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
23. Così F. Savino, Differenze di trattamento e giustificazioni legittime nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Lavoro dir., n. 3-4/2004, p. 578.
24. A. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozione, interessi, tutele, CEDAM, Padova, 2010, pp. 191 ss.
25. Cfr. ancora R. Nunin, Alcune riflessioni, op. cit., p. 263.
26. Cfr. www.osservatoriodiscriminazioni.org/index.php/2017/05/17/942/.
27. S. Niccolai, Ikea, il diritto non è solo affare di donne, Il Manifesto, 30 novembre 2017.