Come gamberi spaventati. Un balzo indietro di cent’anni nell’affermazione dell’uguaglianza e dei diritti delle donne
Traendo spunto dalla recente sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization della Corte suprema degli Stati Uniti, in questo contributo si intende mostrare come il processo di controllo sul corpo femminile e sulla riproduzione umana sia una tecnica biopolitica, una modalità che evidenzia motivi culturali, di mercato e sociali, pur tentando di giustificarsi attraverso la presunta natura della donna stessa.
1. Introduzione / 2. Una storia americana: corpo delle donne e immigrazione dall’Europa / 3. Roe v. Wade: un bilanciamento incerto / 4. Il “prezzo” della libertà / 5. Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization / 6. Riflessioni conclusive
1. Introduzione
Con il termine “overruling”, negli ordinamenti di common law si indica l’abbandono, spesso da parte di una corte di ultima istanza, di un indirizzo interpretativo precedentemente accolto e vincolante per tutti gli altri giudici di grado subordinato. È quello che è avvenuto nel giugno 2022, quando la Corte suprema degli Stati Uniti ha riformato il proprio storico precedente Roe v. Wade[1] in tema di diritti riproduttivi. Nella nuova sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization[2], infatti, i supremi giudici hanno negato che la Costituzione federale offra qualsiasi copertura a un presunto diritto della donna a decidere se portare avanti una gravidanza, lasciando di fatto carta bianca ai singoli Stati nel regolamentare la materia come meglio credono.
La recente pronuncia ha immediatamente rivitalizzato il dibattito – mai del tutto sopito – sul diritto all’aborto e sui diritti riproduttivi più in generale. Se il conio di questi ultimi è relativamente recente e ancora in attesa di uno statuto definitorio chiaro e condiviso, il tema più generale della riproduzione umana e del suo disciplinamento, al crocevia tra regole e credenze, è invece questione molto più risalente e comune a molte culture[3]. Difatti, la necessità di conservare la società ha sollecitato un’attenzione e una cura specifica della maternità fin dall’antichità. Tuttavia, se possiamo immaginare come la cultura si piegasse alla fisiologia in tempi addietro, è bene osservare come ormai da diversi secoli, al contrario, sia la cultura a porre presunte ragioni fisiologiche a fondamento di se stessa. Dunque, sebbene la riproduzione sia sempre stata oggetto di interesse e di dibattito, nel tempo sono cambiate le ragioni dell’attenzione e gli obiettivi dietro le regole poste a disciplinarla.
Traendo spunto dalla sentenza Dobbs, in questo contributo si intende mostrare come il processo di controllo sul corpo femminile e sulla riproduzione umana sia una tecnica biopolitica, una modalità che evidenzia motivi culturali, di mercato e sociali, pur tentando di giustificarsi attraverso la presunta natura della donna stessa.
2. Una storia americana: corpo delle donne e immigrazione dall’Europa
La storia della regolamentazione della vita delle donne è un libro dai molti capitoli, suscettibile di diverse ricostruzioni. Per quello che qui più rileva, una chiave di lettura molto significativa è quella relativa allo sviluppo del metodo scientifico che, negli ultimi due secoli, ha progressivamente ampliato il suo ambito di applicazione e interesse alla dinamica del parto, al feto e, più in generale, alla “materialità” del corpo femminile. In particolare, sembra interessante osservare l’attenzione medica che negli Stati Uniti, già nel XIX secolo, ma poi soprattutto a partire dalla prima parte del secolo XX, viene riservata al parto e ovviamente alla possibilità che si va sviluppando dell’inseminazione in vitro. Questa attenzione alla maternità non poteva non avere importanti riflessi anche sul tema più controverso, ma soprattutto al centro di interessi concorrenti (se non contrapposti), dell’atteggiamento normativo verso l’interruzione di gravidanza che, infatti, negli Stati Uniti ha avuto una regolazione e soprattutto una pratica molto altalenante. Agli inizi dell’Ottocento, per esempio, non esisteva una vera e propria normativa ordinante la materia, che si basava sul principio del cd. “quickening”, una regola di origine giurisprudenziale, traghettata dalla Mayflower dall’Inghilterra fino alle nuove colonie oltreoceano. Con quickening si intendeva la percezione del movimento del feto da parte della gestante e, dunque, si fissava in quel momento il punto in cui la gravidanza non poteva essere più interrotta. La teoria asseriva, in altre parole, che quel movimento dava “prova” della gravidanza e di un’esistenza che si considerava poter essere separata e autonoma dalla madre. Prima di questo atto di cognizione biologica, alle donne non erano imposte restrizioni sulle decisioni relative al proprio corpo; dopo di esso, assunta la vitalità del feto come possibile esistenza indipendente, l’interruzione della gravidanza diveniva un’azione criminosa, in primo luogo, per chi avesse “operato” sul corpo della donna[4].
Storicamente, data la precarietà della vita e della comunità umana, funestata da guerre e pestilenze, l’interesse a proteggere la possibilità di una nuova nascita pare scontato, ma non c’è un’attenzione specifica sul feto, sebbene la riflessione sull’origine della vita abbia una lunga storia, soprattutto quale metodo di controllo sociale. Il mentovato quickening[5] si afferma come criterio ante litteram e viene fatto risalire già ai tempi delle poleis greche, quando Aristotele lo definisce come il momento in cui la vita, da animale, diviene propriamente umana. L’accentramento di potere medico, che porta con sé lo sviluppo della medicina moderna, si scontra tuttavia, ancora in epoca recente, con le difficoltà economiche dei ceti più poveri. Troviamo così molti volumi di medicina “domestica” pensati per chi non poteva, appunto, permettersi un medico[6]; volumi che offrono pratiche indicazioni su come procedere per evitare la gravidanza “forzata” prima che scatti il quickening. L’aborto, in ultima analisi, prima delle leggi di fine Ottocento, non era una pratica né rara né sconosciuta alle donne statunitensi, sebbene numericamente inquantificabile a causa della mancanza di statistiche. Le testimonianze ci sono, così come i testi scritti, segno che vi era un pubblico potenzialmente interessato a cui rivolgerli.
Negli anni venti e trenta del XIX secolo iniziano ad apparire alcune leggi volte a circoscrivere la pratica abortiva, soprattutto con relazione all’uso di decotti e di veleni, sperimentazioni galeniche che facevano parte del già ricordato sviluppo della farmacologia moderna, ma che mettevano in pericolo la vita stessa della gestante. Non si può dire che queste leggi ebbero il risultato sperato: l’uso di farmaci galenici lasciò il passo a frequenti casi di infezioni, dovute all’introduzione di strumenti meccanici per ottenere l’espulsione del feto. La mortalità delle donne era, di conseguenza, altissima. Per la nascente medicina moderna, l’aborto è un’operazione come altre sulle quali lo studio della chirurgia si andava esercitando, come testimonia Mohr: «the evolution of abortion policy in the United States was inextricably bound up with the history of medicine and medical practice in America, and would remain so through the rest of the nineteenth century»[7]. Sempre Mohr segnala infatti che l’aborto era la prima “specializzazione” dei praticanti medici, e anche per questo motivo divenne un vero e proprio business diffondendo e rendendo molto visibile la pratica. Una diffusione che, via via, abbraccia tutte le classi sociali e diviene progressivamente un vero e proprio strumento di contenimento del nucleo familiare. A partire dagli anni quaranta del XIX secolo, la pratica abortiva coinvolge apertamente l’upper class, diventando un metodo praticato da donne bianche, sposate, non di recente immigrazione, soprattutto protestanti.
Dopo la guerra civile inizia una campagna a favore delle gravidanze forzate, che viene utilizzata come strumento contro l’immigrazione cattolica. Erano infatti i nuovi migranti dall’Europa, dall’Irlanda ad esempio, a essere particolarmente fertili, tanto che si diffondono ideologie paventanti la sostituzione etnica degli ex-coloni protestanti, che già evidenziavano una naturale contrazione nel tasso di nascite dovuta alla crescita del livello di benessere. L’aborto diviene allora oggetto di un acceso dibattito. Difensori di ispirazione etnico-religiosa come Horatio Storer[8] mettevano in guardia contro gli immigrati cattolici, che con le loro famiglie numerose potevano sopraffare la popolazione bianca e protestante[9]. Il tono veemente di Storer si indirizzava, in particolare, alle donne che andavano lottando per l’uguaglianza, per il riconoscimento dei loro diritti al pari degli uomini, e asseriva che «marriage, where the parties shrink from its highest responsibilities, is nothing less than legalized prostitution»[10]. Ciò di cui egli discute, in altre parole, è l’opportunità politica di imporre gravidanze forzate alle donne affinché “facessero la loro parte” nel conflitto fra gruppi etnico-religiosi. Le donne, insomma, erano descritte colpevoli di abbassare il livello del numero dei nati[11]. La gravidanza forzata negli Stati Uniti di fine Ottocento è, dunque, un simbolo agito contro il nascente femminismo, accusato di non fare gli interessi della nazione[12] e di voler mettere le donne nel posto degli uomini, così diffondendo idee insidiose circa nuovi doveri delle donne, come per esempio l’idea che fosse importante lottare per il voto e partecipare all’attività legislativa, cosa che riduceva l’impegno verso i doveri propri e necessari per la donna, ovvero gravidanza e maternità[13]. Si evidenzia, pertanto, in questi anni come l’interesse sia esclusivamente rivolto al controllo sociale delle donne e come le norme e i tentativi di regolazione del corpo femminile si focalizzino retoricamente sulla fisiologia della donna, pur non avendo nulla a che fare con tale questione. Questo aspetto rappresenta un leitmotiv della moderna narrazione giudiziale e politica dell’aborto negli Stati Uniti, che così svia l’attenzione dalla questione dell’uguale considerazione e rispetto di uomini e donne[14].
L’argomento biologico e quello naturalista, negli anni a cavallo fra i due secoli, si rafforzano rendendo invisibile la persona-donna dietro il potere medico, che va progredendo, e la cui analitica tende a ricostruire il corpo sempre più come un assemblaggio di parti; un’ideologia che ha diversi risvolti, alcuni certamente positivi, come nel caso dei trapianti d’organo. Tuttavia, è anche una modalità che favorisce la scomparsa della donna come unità, in questo senso come persona, suffragata da un’ideologia medica che, all’inizio del XX secolo, si concentra sempre di più sulla maternità e il parto. Un’ideologia che rappresenta questi eventi come traumatici e rischiosi, veicolando l’immagine della gravidanza quale processo anormale e da controllare. In questo modo si neutralizza l’autorità del sapere delle donne, che per migliaia di anni hanno riprodotto la specie umana[15].
Lo sviluppo della tecnologia della salute, sollecitata dalla contestuale espansione del mercato, trasforma il senso e la percezione dello stesso atto riproduttivo. Dai documenti, dalle lotte e dalle dichiarazioni, si evince che la ragione di fondo è il controllo che Foucault definisce «biopolitico» del corpo, soprattutto del fenomeno riproduttivo che dall’Olimpo si immagina e progetta di poter strappare alle donne stesse[16]. Il corpo delle donne e il suo funzionamento vengono messi a regime, come nel processo industriale: dal mestruo alla menopausa, tutto dev’essere regolare e regolato, medicalizzato. Questo processo, che ha certo anche lati positivi, favorisce paradossalmente la naturalità della maternità, oscurando però la sua protagonista e il carattere sociale della regolazione. Non bisogna dimenticare che quelli sono anni di lotta delle donne per il voto e anche, da parte delle operaie, per le condizioni di lavoro e per gli ambienti dove la prole viveva[17].
Nel processo ri-significativo e biopolitico favorito dal potere medico, la donna-persona rimane sempre più in ombra e si consuma una frattura che non verrà ricomposta neppure dai movimenti femministi degli anni sessanta e settanta del Novecento. L’erosione della donna quale unità-persona dalla centralità del processo riproduttivo si correla, ovviamente, anche allo sviluppo di tecniche che fanno di lei sempre più un “terreno di coltura alternativo”: «a genuinely feasible version of the alchemists’ old dream of reproducing the seed of The Father with no help from females»[18].
3. Roe v. Wade: un bilanciamento incerto
A livello giuridico, il riconoscimento del diritto all’aborto negli Stati Uniti arriva per via giurisprudenziale attraverso quella che è stata definita «new privacy jurisprudence»[19]. A partire dagli anni sessanta, infatti, si fa strada l’idea che il diritto alla privacy, inteso fino ad allora come mera tutela dei dati personali contro la fotografia intrusiva o il giornalismo invadente (cd. “information privacy”)[20], possa estendersi fino a comprendere le scelte più intime di una persona, trasformandosi dunque in un vero e proprio diritto all’autonomia (cd. “fundamental decision privacy”)[21].
Il passaggio tra le due declinazioni del diritto alla privacy viene registrato ufficialmente dalla Corte suprema quando è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di una legge dello Stato del Connecticut, volta a punire qualsiasi condotta tesa ad impedire/prevenire il concepimento, anche solo di natura informativa. In Griswold v. Connecticut[22] i supremi giudici rinvengono, nella “penombra” dei diritti sanciti in modo esplicito dal XIV emendamento, un diritto di libertà – “the right to be let alone” – che ricomprende l’autodeterminazione procreativa (per la coppia sposata). La posizione viene poi ribadita in Eisenstadt v. Baird[23], nel 1972, che amplia il diritto alla privacy così intesa alle coppie non sposate, e poi ancora in Carey v. Population Services International[24], nel 1977, che lo estende ulteriormente fino a ricomprendere le scelte procreative delle persone minorenni[25].
In poco più di dieci anni, Griswold, Eisenstadt e Carey rivoluzionano così il panorama giuridico statunitense, riconoscendo all’individuo la libertà di prendere decisioni in ambito sessuale e procreativo. Permanevano, tuttavia, alcune resistenze verso l’inclusione in questo ambito anche del diritto all’aborto, sia perché lo statuto giuridico del feto era ancora ambiguo, sia perché, secondo alcune letture, poteva rappresentare una disparità di trattamento rispetto agli uomini: mentre l’uso di contraccettivi interessava tutti, il diritto all’aborto avrebbe riguardato solo le donne e dunque si trattava di riconoscere a queste ultime l’esercizio di un diritto che gli uomini non avrebbero potuto condividere[26]. Come del resto, a contrario, gli uomini non avrebbero potuto subire una gravidanza forzata… Ma, come vedremo ancora, il piano dell’uguaglianza rimarrà assente dalle riflessioni della Corte suprema.
Dopo alterne vicende nei gradi inferiori, la Corte suprema accetta di pronunciarsi sulla costituzionalità del divieto all’aborto contenuto nel codice penale dello Stato del Texas[27]. In Roe v. Wade[28], il giudice Blackmun, estensore per conto della maggioranza del collegio, inizia il suo ragionamento con un ricostruzione storica del trattamento dell’aborto a partire dal mondo antico, passando per il diritto penale della madrepatria e arrivando infine agli Stati Uniti. Adottando dunque una prospettiva di tipo storico-ricostruttivo, nel solco delle argomentazioni di tipo originalista, egli evidenzia come, prima del 1870, non esistessero negli Stati Uniti espliciti divieti all’interruzione di gravidanza e come la criminalizzazione dell’aborto appaia, dunque, un’introduzione relativamente recente.
Blackmun allora si interroga sul perché tali divieti siano stati introdotti nell’ultimo secolo, individuando tre possibili giustificazioni: 1) scoraggiare atti sessuali illeciti o immorali; 2) tutelare la salute della donna e 3) interesse dello Stato a proteggere la vita prenatale. Mentre esclude subito la prima, perché incompatibile con uno Stato liberale, analizza più nel dettaglio le restanti due. Per quanto riguarda la seconda, Blackmun nota come i timori sulla sopravvivenza della donna a seguito di un aborto in un’era precedente l’invenzione dell’antisepsi e degli antibiotici fossero ragionevolmente fondati. Oggi, tuttavia, la situazione gli appare mutata e, se l’obiettivo è ancora tutelare l’incolumità fisica della gestante, allora lo Stato dovrebbe semmai regolamentare la pratica onde evitare la sua realizzazione in contesti di pericolosa clandestinità.
Degno di interesse e significativo è il concetto di “salute” che Blackmun fa proprio. Egli lo intende in un senso più completo rispetto al semplice danno fisico e immediatamente tangibile, comprendendo anche le implicazioni psicologiche della gravidanza e del parto:
«Maternity, or additional offspring, may force upon the woman a distressful life and future. Psychological harm may be imminent. Mental and physical health may be taxed by child care. There is also the distress, for all concerned, associated with the unwanted child, and there is the problem of bringing a child into a family already unable, psychologically and otherwise, to care for it. In other cases, as in this one, the additional difficulties and continuing stigma of unwed motherhood may be involved. All these are factors the woman and her responsible physician necessarily will consider in consultation»[29].
Tutto ciò farebbe dunque propendere per il riconoscimento di un diritto all’aborto all’interno del più ampio alveo delle scelte riproduttive. Senonché Blackmun riconosce legittimità alla terza delle possibili giustificazioni, cioè quella dell’interesse dello Stato a proteggere la vita prenatale, così prospettando il possibile conflitto tra principi costituzionali. L’analisi del Fourteenth Amendment porta il giudice, dopo aver citato diverse disposizioni, a sostenere che «in nearly all these instances, the use of the word [person] is such that it has application only postnatally. None indicates, with any assurance, that it has any possible pre-natal application»[30]. Tuttavia, afferma Blackmun, è ragionevole che lo Stato introduca nella valutazione dell’interesse alla privacy, oltre alla salute della madre, la salute della vita umana potenziale, perché la privacy della donna non è più esclusiva come sarebbe in altre situazioni intime. Il giudice stabilisce che non è necessario «resolve the difficult question of when life begins»[31], quindi non si pone un problema di definizione della vita umana da parte della Corte che dirima i conflitti fra le varie scienze. Se, nota Blackmun, è chiaro che ci sia sempre stato un interesse alla protezione della vita, non è altrettanto pacifico che ciò si estenda a prima della nascita. Dopo una disamina storica, infatti, il giudice ricorda come tradizionalmente il tort law non riconosca risarcimento per i danni alla vita prenatale[32] e, dove è possibile fare un’azione per wrongful death per danni prenatali, «[s]uch an action, however, would appear to be one to vindicate the prent’s interest and is thus consistent with the view that the fetus, at most, represents only the potentiality of life»[33], così continua, per concludere che i non-nati non sono mai stati riconosciuti dalla legge come “persone” in senso pieno. Chiaramente, se Blackmun avesse scelto di attribuire al feto la qualità di “persona”, ne sarebbe derivata una forte compressione dell’autonomia procreativa della donna[34], magari argomentando dal diritto alla vita esplicitamente protetto dall’art. 1 della Costituzione federale, che tuttavia non pare un ostacolo alla pena di morte ancora prevista da molti Stati. Poiché comunque non vi è un accordo unanime sull’inizio della vita umana, Blackmun preferisce assumere una posizione che tutela una libertà regolamentandola: la donna ha un diritto fondamentale a decidere cosa fare della propria gravidanza, ma tale diritto è pieno grosso modo nel primo trimestre, mentre nel periodo successivo cresce via via il peso dell’interesse statale a tutelare la vita potenziale. Il discrimine viene individuato nel concetto di “viability”, cioè nel momento in cui il feto, seppur prima dello scadere naturale della gravidanza, sarebbe in grado di sopravvivere autonomamente al di fuori dell’utero.
A livello applicativo, questo conduce il giudice estensore a sezionare il tempo della gravidanza in tre trimestri. Nel primo trimestre, la decisione di abortire appartiene sempre alla donna (consultato il medico). Nel secondo trimestre, lo Stato può legittimamente porre delle limitazioni, ma solo se il fine è quello di tutelare la salute della gestante. Nel terzo e ultimo trimestre, il feto può teoricamente sopravvivere al di fuori dell’utero in caso di parto prematuro, pertanto l’interruzione della gravidanza dev’essere necessaria per preservare la vita o la salute della madre. Solo nell’ultimo trimestre, dunque, lo Stato potrebbe allora legittimamente vietare la pratica abortiva.
Per i sostenitori del diritto all’aborto, Roe rappresentò evidentemente una vittoria mutilata. Se da un lato, infatti, l’estensione del diritto alla privacy all’interruzione di gravidanza era sicuramente un successo, perché dava copertura costituzionale alla scelta riproduttiva della gestante, dall’altro, il concetto di viability appariva pericoloso sul lungo termine, perché la tecnica medica avrebbe potuto col tempo anticipare al secondo trimestre il momento in cui il feto diveniva viable. Ma la criticità si annidava anche nel mancato inquadramento del problema sotto la clausola dell’uguaglianza, come vedremo.
Da parte loro, negli anni appena successivi, i contrari al diritto all’aborto tentano invece di aggirare il dettato della Corte introducendo ostacoli e limitazioni al suo effettivo esercizio. È il caso, per esempio, dello Stato del Missouri che, pur riconoscendo formalmente in capo alla gestante la scelta se interrompere la gravidanza, le richiede di acquisire il consenso maritale (marital consent[35]) e vieta i metodi abortivi più diffusi. Requisiti che la Corte suprema giudica essere illegittimi nel 1976[36]. Il primo perché metterebbe, di fatto, nelle mani del marito un potere di veto sulla scelta della moglie di porre termine a una gravidanza, quando Roe aveva già chiarito che neanche lo Stato poteva vantare alcunché di simile; il secondo perché, in assenza di altri metodi abortivi ai tempi disponibili, costituirebbe un ostacolo insormontabile e impedirebbe di fatto di ottenere l’interruzione di gravidanza. In altri casi, come quello dello Stato della Pennsylvania, il tentativo degli scontenti di Roe è quello di giocare sul significato, in effetti non del tutto definito, di viability, introducendo valutazioni soggettive del medico, il quale viene obbligato a dare preminenza alla vita del feto anche prima del secondo trimestre, giocando sull’ambiguità delle dizioni “it is viable” e “it may be viable” per il feto. Una zona grigia pensata chiaramente per dissuadere il medico dal praticare l’aborto verso la fine del secondo trimestre, per timore di incorrere in sanzioni penali, come nota la Corte suprema prima di dichiararla illegittima nel 1979[37].
Con l’inizio degli anni ottanta, la libertà della donna di non essere forzata alla gravidanza indesiderata non cessa di essere sotto attacco. I supremi giudici si trovano a dover dichiarare incostituzionale[38] una nuova legge dello Stato dell’Ohio, che imponeva alla gestante un intervallo di riflessione di ventiquattro ore tra la firma del consenso informato e l’intervento abortivo. Consenso informato che, inoltre, era costruito in modo tale da tentare di dissuadere la richiedente, giacché prevedeva che alla donna fosse rappresentato che il feto era un essere umano fin dal concepimento, unitamente a una descrizione delle sue funzioni vitali e motorie al momento dell’aborto, oltre ad altre informazioni circa l’assistenza che riceverebbe se decidesse di non abortire. Insomma, se la previsione del consenso informato è una misura costituzionalmente conforme, anzi necessaria, le informazioni trasmesse alla paziente costituivano più che altro un modo di contrastare la decisione di abortire.
Ma v’era di più. La legge prevedeva l’ospedalizzazione obbligatoria in strutture abilitate a partire dal secondo trimestre, giacché in tale periodo si riteneva l’aborto più rischioso rispetto al primo trimestre. Tuttavia, la Corte nota che in Ohio la stragrande maggioranza delle interruzioni di gravidanza erano praticate in semplici cliniche, mentre gli ospedali abilitati erano pochissimi. Né la pratica medica comunemente accettata giudicava necessario il ricorso a particolari strutture o attrezzature diverse da quelle già presenti nelle cliniche. Inoltre, proseguono i giudici, l’avanzamento della medicina rispetto ai tempi di Roe ha reso meno pericolosa l’interruzione di gravidanza anche nel secondo trimestre, che così può essere senza dubbio praticata anche ambulatorialmente. Così argomentando, tuttavia, la Corte indebolisce la linea di demarcazione tra primo trimestre e gli altri trimestri, rendendola labile. Se, infatti, è vero che da un lato la tecnologia permetterà un aborto sicuro in gravidanza sempre più avanzata, dall’altro la stessa tecnologia permetterà a feti sempre più immaturi di sopravvivere al di fuori dell’utero. Vi è insomma il rischio che, col tempo, come fa notare la giudice O’Connor nella sua opinione dissenziente, la libertà decisionale della donna resti sempre più compressa dalle possibilità di sopravvivenza del feto, facendo così crescere il peso del presunto interesse dello Stato a dispetto di quello personale della donna, sottolineando come la struttura della decisione Roe fosse intrinsecamente legata allo stato della tecnologia medica esistente nel momento in cui si verifica la particolare controversia[39].
Se nei casi citati, e in altri dal contenuto simile, il giudice Blackmun aveva continuato a fare da estensore della pronuncia o almeno si era trovato dalla parte della maggioranza della Corte, nel 1989 passa tra le file dei giudici dissenzienti. In Webster v. Reproductive Health Services[40], la nuova maggioranza, pur affermando di non voler formalmente riformare Roe, nei fatti ne abbandona molti dei suoi punti fondamentali. La controversia si occasionava di nuovo a seguito di una legge dello Stato del Missouri, la quale, già nel preambolo, dichiarava che la vita di ogni essere umano inizia con il concepimento e che ogni disposizione dovesse essere interpretata in modo tale da garantire all’embrione/feto gli stessi diritti della gestante. Continuava poi disponendo che il medico, prima di interrompere una gravidanza di almeno venti settimane, accertasse tramite esami diagnostici se il feto fosse in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero, imponendo in questo caso la gravidanza forzata. Il nuovo estensore della pronuncia, il giudice conservatore Rehnquist, non solo non giudica illegittima la presa di posizione morale circa l’inizio della vita contenuta nel preambolo della legge, ma approva la disposizione circa l’impraticabilità dell’aborto in caso di feto viable, indipendentemente dalla divisione in trimestri, che anzi definisce illogica e indeterminabile.
La previsione della giudice O’Connor si stava, insomma, avverando. E infatti, nel 1992, il distacco da Roe si consuma definitivamente. In Casey v. Planned Parenthood, pur dichiarando di non riformare Roe, la Corte ne incrina di molto i pilastri. «The question then is how best to accommodate the State’s interest in potential human life with the constitutional liberties of pregnant women»: come Roe non ignorava la vita prenatale, così in Casey non si vedono ragioni per non tentare di persuadere la donna a non abortire pur rispettando la sua libertà individuale, scrive il giudice Stevens. La scelta circa i propri diritti riproduttivi resta una libertà fondamentale della donna che “non può essere lasciata alle urne”. Tuttavia, non solo si conferma l’abbandono della divisione in trimestri a favore di una più generica distinzione tra pre-viability e post-viability del feto, ma si propone un bilanciamento che comprime la libertà decisionale della donna rispetto agli interessi dello Stato alla protezione della vita potenziale, a cui pertanto tale libertà soccombe quando il feto diventa viable. Solo in caso di pericolo di vita della gestante, il bilanciamento potrebbe avere un esito diverso, perché il diritto alla vita della persona soverchia il diritto alla vita di chi persona lo è solo potenzialmente. In caso di pre-viability del feto, condizione che andrà verificata di volta in volta, la donna rimane libera di scegliere se portare avanti la gravidanza, mentre lo Stato può porre dei limiti o dei requisiti, a patto che non costituisca un onere eccessivo («undue burden») per chi invece decide di abortire. Così, nel caso di specie, che riguardava ancora una volta la Pennsylvania, la Corte ritiene – diversamente dal passato – che imporre un intervallo di ventiquattro ore tra la firma del consenso informato e l’aborto non sia undue, perché non interpone un oggettivo ostacolo alla scelta di interrompere la gravidanza. Lo Stato aveva, infatti, sostenuto che l’intervallo di tempo serviva soltanto a dare alla donna il tempo per riflettere adeguatamente sull’azione che stava per compiere[41]. Tuttavia, occorre chiedersi perché si assumesse che l’atto di recarsi in un centro medico e firmare un consenso all’aborto non fosse già il risultato di un’attenta riflessione[42].
4. Il “prezzo” della libertà
Nonostante la progressiva compressione temporale dell’autonomia decisionale che si è osservata da Roe a Casey, interrompere la gravidanza rimane una libera scelta della donna. Ma a che prezzo? Lo si comprende bene guardando a un trittico di pronunce della Corte suprema in tema di finanziamento pubblico della prestazione sanitaria, a cui si deve necessariamente ricorrere dopo aver deciso di abortire. Infatti, persa la battaglia in Roe, molti Stati conservatori iniziano a rifiutarsi di sovvenzionare con fondi pubblici la scelta della gestante, se nella direzione di interrompere la gravidanza.
Beal v. Doe[43], Maher v. Roe[44] e Poelker v. Doe[45], al di là delle singole differenze, possono essere accomunate dalla decisione della Corte di non riconoscere alcun obbligo in capo alla finanza pubblica in tema di aborto. E ciò, nonostante le varie ricorrenti lamentassero che gli alti costi della sanità americana le mettessero nella condizione di non poter interrompere la gravidanza in sicurezza[46]. Significativo il caso Poelker, in cui i giudici danno ragione al sindaco di St. Louis sottolineando anche che «[h]is policy of denying city funds for abortions such as that desired by Doe is subject to public debate and approval or disapproval at the polls. We merely hold, for the reasons stated in Maher, that the Constitution does not forbid a State or city, pursuant to democratic processes, from expressing a preference for normal childbirth as St. Louis has done»[47].
Apparentemente paradossale, il reasoning della maggioranza della Corte, tra cui non c’è Blackmun, si basa sulla distinzione orwelliana tra diritto a scegliere se avere un aborto e diritto all’aborto[48]. Secondo questo modo di ragionare, la mancata mutuazione della prestazione medica non interpone alcun ostacolo alla scelta di abortire. Una donna indigente è libera di scegliere come lo è una benestante, mentre la maggiore difficoltà incontrata dalla seconda sarebbe indiretta e incidentale, perché avverrebbe in un momento successivo a quello della vera e propria decisione se abortire. In altri termini, la donna, anche se indigente, non viene privata del diritto di scegliere se abortire o no, indipendentemente da quello che offre lo Stato. Ciò non obbligherebbe in astratto la gestante verso il parto, ma semplicemente la “incoraggerebbe”. Insomma, una chiara applicazione della famosa frase di Anatole France: «La legge, nella sua maestosa equità, proibisce ai ricchi così come ai poveri di dormire sotto i ponti, mendicare per le strade e rubare il pane».
L’argomentazione della Corte è, ovviamente, speciosa. Si potrebbe forse difendere se l’autonomia decisionale sancita in Roe fosse sempre e comunque una questione astratta; ma la gravidanza, che si concluda nel parto o in un aborto, è una condizione che richiede sempre l’assistenza medica. Finanziando solo una di queste due opzioni, cioè il parto, si preclude la scelta dell’altra, a meno che non si abbiano le risorse per sostenerla privatamente o si ricorra a strutture non riconosciute e, magari, a personale medico non abilitato. Se è vero che la scelta di abortire viene presa dalla donna nella sua singolarità esistenziale, la sua eventuale povertà, combinata con l’assenza di sovvenzione pubblica, non potrà che obbligarla a una scelta infelice e indesiderata.
Lungi dall’essere un mero incoraggiamento, infatti, la privatizzazione dell’aborto impone indirettamente una condotta che lo Stato non può imporre direttamente, ovvero obbliga a una gravidanza forzata. Nell’incapacità finanziaria di una donna nel sostenere la spesa medica relativa all’aborto, il rifiuto dello Stato di aiutarla si rivela infatti essere più un ostacolo insormontabile che una difficoltà incidentale. La scelta della Corte di separare il riconoscimento di un diritto dai mezzi essenziali alla sua realizzazione significa rendere quel diritto poco più di un getto di inchiostro su un pezzo di carta[49]. Con effetti doppiamente discriminatori per alcuni gruppi sociali, come le donne afroamericane o ispaniche, che statisticamente sono più povere delle donne bianche, ma che proprio per ragioni economiche si trovavano in quegli anni ad abortire cinque volte di più di queste ultime[50].
Eppure, in una controversia ancora successiva[51], la Corte ribadisce che il rifiuto di includere l’aborto nelle prestazioni gratuite non interpone alcun ostacolo nella scelta della donna di terminare la gravidanza, quanto piuttosto, scegliendo di non sovvenzionarlo, così come altre prestazioni mediche, la legge incoraggia il pubblico verso scelte alternative. Come se non fosse già abbastanza chiaro, in un’altra pronuncia ancora[52] relativa a una legge dello Stato del Missouri che vietava l’uso di strutture e personale sanitario pubblico per realizzare aborti non salva-vita (anche se la donna poteva pagare la prestazione), la Corte non solo non riscontra alcun undue burden, ma si premunisce di chiarire che lo Stato non ha alcun obbligo costituzionale di sovvenzionare attività solo perché costituzionalmente protette. Una visione perfettamente in linea con quella di Richard Posner, il quale una volta ha definito acutamente la Costituzione americana come una «carta di libertà negative; dice allo Stato di lasciare le persone sole; non richiede che il Governo federale o lo Stato forniscano servizi»[53]. Una dottrina costituzionale che, dunque, non presenta alcun principio solidaristico e che, tuttavia, oggi parrebbe al contempo poter incrinare le ragioni che si potrebbero offrire per l’obbedienza al diritto stesso[54].
5. Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization
La sentenza Dobbs è già stata molto commentata, non da ultimo per revirement sul tema dei diritti, visto che la Corte non aveva mai eliminato un diritto che lei stessa aveva precedentemente considerato fondamentale[55]. L’argomento centrale della decisione, che viene ripreso da più commentatori, è l’originalismo ma, invero, è piuttosto da sottolineare come si tratti di una certa modalità con cui viene ricostruita quella che si afferma essere la tradizione. L’originalismo pare presentarsi come cuore della strategia argomentativa dei giudici in Dobbs, ma in direzione opposta rispetto a Roe. Come noto, tale tecnica ermeneutica rinvia al senso originario del testo, ovvero al «significato che quel testo aveva nel momento in cui entrò in vigore»[56]. Come segnala Guastini, “originario” può essere inteso in almeno due sensi: come significato “oggettivo” delle parole legate dalle regole della sintassi e come significato soggettivo dell’autorità normativa.
La giustificazione offerta, nelle molte pagine, dal giudice estensore Alito si muove in qualche misura fra i due sensi indicati, e mira a proporre una ricostruzione del significato soggettivo o, come si può leggere, della Costituzione «properly understood»[57]. L’analisi del giudice vuole evidenziare non solo come la Costituzione non faccia alcun riferimento al diritto all’aborto, ma come il diritto a non subire gravidanze forzate non sia neppure implicito nel testo costituzionale, e con ciò chiaramente sviluppa un attacco frontale a Roe v. Wade. In Dobbs, la Corte non analizza tale diritto alla luce del XIV emendamento e dell’equal protection clause, come del resto già avevano mancato di fare le corti precedenti (tra cui quella di Roe), che mai riescono a spingersi sul piano del riconoscimento di una protezione delle donne che identifichi la gravidanza forzata come una discriminazione basata sul sesso. La Corte afferma che non c’era una tradizione a supporto dell’aborto nel diritto americano e che nessuna disposizione costituzionale lo ha mai esplicitamente riconosciuto come diritto, esattamente al contrario del giudice Blackmun.
Interessante in Dobbs, nell’argomentazione della Corte, è notare come il brevissimo riferimento alla lunghissima tradizione del quickening serva solo per ricordare come da Blackstone, Coke e altri, dopo tale momento l’aborto fosse considerato un crimine. Sulla fase precedente il quickening, Alito non manca poi di asserire che non deve comunque considerarsi permesso l’aborto dalla common law e men che mai un legal right[58]. Tuttavia, come ben documentato, la storia racconta un largo uso dell’interruzione volontaria di gravidanza come strumento per il controllo delle nascite; ma Alito richiama soltanto la normativa che, intorno agli anni dell’emanazione del XIV emendamento, è manifestazione della crociata contro l’aborto. Una crociata di cui si è detto (supra, par. 2), che si ricollega alla lotta fra protestanti e cattolici di recente immigrazione; eppure, la Corte di Alito propone un indebito[59] collegamento fra l’emendamento citato e la criminalizzazione dell’aborto. Indebito poiché fra i due atti non c’è diretta relazione, né il giudice prova neppure a ricostruire una narrazione circa il significato di “libertà” vigente all’epoca.
Come già era d’uso con Scalia, il giudice Alito rinvia insomma genericamente a una tradizione americana delle libertà richiamando il XIV emendamento, al fine di – asserisce – prevenire la naturale tendenza a confondere «what that Amendment protects with our own ardent views about the liberty that Americans should enjoy»[60]. Il tentativo è quello di spacciare un metodo interpretativo necessariamente valutativo come neutro, un modo per suggerire la separazione fra giudizio e politica. Tuttavia, accade proprio il contrario. E non potrebbe essere diversamente, proprio a partire dall’asserzione di quella neutralità che invero mira ad applicare una specifica politica vigente al tempo in cui le donne non avevano né diritti né voce. Un tempo in cui le donne lottavano, non solo per il diritto di voto, ma anche per proteggersi dallo stupro maritale, un tempo in cui in Inghilterra la vendita della moglie era un modo per risolvere un divorzio costoso[61]. Si tratta, allora, di capire meglio come è costruito e quale ruolo gioca l’argomento originalista.
A questo proposito, risulta davvero interessante e degna di approfondimento la ricostruzione dell’argomento offerta da Reva Siegel, in diversi studi, a partire dalla Presidenza Reagan. La politica repubblicana inizia all’epoca a impadronirsi dell’argomento originalista, non tanto e solo come strumento interpretativo tipicamente conservatore o statico (nel senso di volto a preservare la certezza del diritto[62]), bensì come strumento ideologico di un movimento pro-family che inizia a fare politica istituzionale. Questo movimento si caratterizza per sviluppare una retorica a difesa della cd. “natural family”, ovvero quella eterosessuale, sposata, con figli biologici, male breadwinner e moglie casalinga[63]. L’originalismo impiegato da Alito si riallaccia proprio a questa tradizione repubblicana iper-conservatrice, che non fa ricorso al significato testuale o del Costituente, bensì utilizza l’argomento dichiaratamente come strumento per produrre una politica contro l’aborto, le quote e l’intervento pubblico nel sociale. In breve, sviluppa un discorso che si appella a una memoria costituzionale per trasformare una politica (neoliberale) in diritto senza renderlo palese.
Il successo di tale argomentazione aveva già raccolto l’attenzione della dottrina. Per esempio, Post e Siegel già sostenevano che esso derivava dalla sua capacità di esprimere un movimento politico piuttosto che di riflettere una forza analitica, e per tale ragione sarebbe stato meglio separare la jurisprudence of originalism dalla political practice of originalism[64]. Si segnalava come il suo uso politico fosse funzionale alla riscrittura della Costituzione stessa, di fatto negando la metodologia propriamente detta “originalismo”. Molto chiaramente, ciò viene espresso dalle prese di posizione di Edwin Meese, Attorney General della Presidenza Reagan fra l’85 e l’88, che insiste sulla tesi, già richiamata, secondo cui la Corte deve usare il suo potere interpretativo basandosi sul significato della Costituzione e non su opinioni o preferenze personali. La Corte deve, insomma, limitarsi a scegliere fra ribadire i precedenti oppure tornare all’autenticità della Costituzione, ma questo argomento serve per sostenere l’incitamento di Meese: «go in correcting the excesses of the Warren and immediately post-Warren Courts»[65]. La retorica della fedeltà e dell’autenticità è funzionale a una narrativa che accusa l’opposizione di manipolazione e politicizzazione del diritto costituzionale.
Chiaramente la lettura tradizionale proposta incide drammaticamente sullo status delle donne, perché la riproduzione umana non è un mero processo fisiologico, bensì è anche un fatto culturale, determinato dall’ambiente sociale. La retorica, però, oscura la sovrastruttura nascondendola nel processo fisiologico[66]; così, tradizionalmente, la Corte – non solo quella in discussione – ragiona come se il preciso ruolo della donna-madre fosse un dato naturale senza connessione con le regole sociali, che invece vengono rafforzate da giustificazioni giuridiche. In tal modo, finisce che l’attenzione resta concentrata sul ruolo e sul processo fisiologico riproduttivo della donna, completamente assorbita dalla biopolitica e dalla logica sociale della sua regolazione, che risulta infine così giustificata dalla biologia stessa. La giustificazione giuridica offerta trova nel corpo femminile la ragione della sua stessa regolazione[67].
Paradossalmente, però, la differenza che avrebbe rilevanza per una valutazione dell’uguaglianza sulla base del sesso come equal protection non viene rilevata: in Geduldig v. Aiello[68] la Corte non riconosce tale discriminazione distinguendo i “potential recipients” in due gruppi, quello delle “pregnant women” e quello delle “non-pregnant persons”, che include entrambi i sessi[69]. Giustificazione che rimanda ad altre al limite del ridicolo, come quella oramai storica della California, che non rilevava discriminazione sulla base del sesso nella mancata tutela della lavoratrice gravida, avendo a lei applicato la stessa norma che si applicava agli uomini. Il testo di Geduldig è davvero chiaro:
«[n]ormal pregnancy is an objectively identifiable physical condition with unique characteristics. Absent a showing that distinctions involving pregnancy are mere pretexts designed to effect an invidious discrimination against the members of one sex or the other, lawmakers are constitutionally free to include or exclude pregnancy from the coverage of legislation such as this on any reasonable basis, just as with respect to any other physical condition»[70].
La Corte non vede ragioni per le quali il legislatore non sia costituzionalmente libero di includere o meno la gravidanza dalla copertura, come qualsiasi altra condizione fisica. La Corte non riconosce che tale differenza distingue socialmente i sessi: «Judgments about women’s capacity to bear children play a key role in social definitions of gender roles and thus in the social logic of “discrimination based on gender as such”»[71].
La narrativa originalista offre dunque un modo di rileggere l’evoluzione dei diritti civili adeguato al rafforzamento del movimento pro-family. Una politica dunque che, attivatasi negli anni ottanta, arriva oggi ad avere una maggioranza nella Corte suprema in grado di offrire una narrazione che, senza dirlo esplicitamente, fa appello alla razza, al sesso e alla sessualità, alla religione; una Corte in grado oggi di risignificare la memoria costituzionale. Con riferimento a questo processo di imposizione di significati, Cover scrive di «jurispathic courts», ovvero le corti quali strumento contro la naturale proliferazione significativa, invero oggi più frequentemente con la motivazione di fare chiarezza: «The supreme tribunal removes uncertainty, lack of clarity, and difference of opinion about what the law is. This statist formulation is either question begging or misleading»[72]. Da una prospettiva realista, non si può che essere d’accordo con Cover quando afferma che «[a]ny claim to a privileged hermeneutic method appears unfashionable today, but it has ancient roots and tenaciously persists in the law»[73].
La politica originalista negli anni ha prodotto, insomma, una narrativa contro i diritti civili, rinviando a comunità invero inesistenti piuttosto che a significati originari. È chiaro che il richiamo del diritto vigente nel 1868 non rappresenta la lotta delle donne, che all’epoca non hanno ancora voce. Non va infatti dimenticato che il diritto di voto è concesso alle donne solo nel 1920 (e non a tutte)[74]. La narrazione della tradizione degli statute, allora, non è la narrazione della comunità americana, ma la politica originalista che si offre nella sentenza Dobbs rivitalizza antiche gerarchie di status anche quando non hanno diretta relazione con il caso. Si propongono giudizi interpretativi come meri fatti bruti, offrendo l’immagine di un passato “oggettivo” o depurato di valori al fine di rafforzare la deferenza alle decisioni della Corte, senza invero soffermarsi, e anzi oscurando, la forza dei pregiudizi nell’interpretazione costituzionale.
È poi notevole la excusatio non petita del giudice Alito, che si affretta a negare la centralità dell’equal protection, liquidando però rapidamente il «Brief of Equal Protecion Constitutional Law Scholars»[75]:
«[n]either Roe nor Casey saw fit to invoke this theory, and it is squarely foreclosed by our precedents, which establish that a State’s regulation of abortion is not a sex-based classification and is thus not subject to the “heightened scrutiny” that applies to such classifications. The regulation of a medical procedure that only one sex can undergo does not trigger heightened constitutional scrutiny unless the regulation is a “mere pretex[t]” designed to effect an invidious discrimination against members of one sex or the other»[76].
Eppure, in questo Alito ha gioco facile nel riconnettersi alle premesse di Roe, dove il principio di uguaglianza era stato il grande escluso. L’inclusione, ai tempi di Roe, del diritto all’aborto nel filone della new privacy jurisprudence era stato un patto faustiano, perché lo riconosceva, ma solo sotto forma di libertà negativa. Si è liberi nella misura in cui lo Stato non interviene, nel bene, ma anche nel male. Se quindi non si è in grado, per qualche motivo, di accedere materialmente alla pratica abortiva, questo rimane un problema privato. In questo modo, la privacy ha de-politicizzato il diritto all’aborto, abbandonandolo a uno stato di natura solo astrattamente libero e che «può nascondere, e di fatto ha nascosto, lo spazio delle percosse, dello stupro coniugale e dello sfruttamento del lavoro femminile»[77].
Tutto questo, però, cade al di là dell’orizzonte interpretativo di Alito, che si muove sullo stesso crinale originalista di Roe, preoccupandosi però di ribaltare le premesse più che il reasoning vero e proprio. Come scrive Siegel, la Corte priva così le donne del diritto di aborto, definendo la loro libertà costituzionale con le leggi emanate a metà Ottocento: «a time when women were without voice or vote in the political process»[78]. La Corte è, tuttavia, più che consapevole della sua azione politica, e lo sottolinea proprio nel ribadire come non si ritenga equipaggiata a valutare se la possibilità di controllare la propria vita riproduttiva sia per le donne un fattore fondamentale per la loro partecipazione su un piano di uguaglianza alla vita economica e sociale (richiamando Casey[79]), mentre – afferma – quando viene fatto valere un concreto reliance interest, allora i tribunali sono in grado di valutare la richiesta. Non è possibile, insomma, secondo la Corte e soprattutto per un tribunale, valutare l’incidenza del diritto all’aborto sulla vita delle donne[80].
Tali affermazioni sono a dir poco sorprendenti. Ma la posizione del giudice Alito, che esplicitamente aderisce alla politica del movimento pro-family, affermando di rinvenire gli interessi dello Stato nella difesa delle gravidanze forzate, esattamente come strumento per prevenire l’indebolimento dei valori della famiglia, pare fosse già stata espressa nell’amicus curiae del caso Thornbourgh del 1985[81]. Dunque, solo una conferma per una lettura critica dell’uso dell’argomento interpretativo. Sotto il profilo della dottrina dell’interpretazione, insomma, la sentenza Dobbs è un esempio di come l’argomento originalista sia rielaborato come politica di attacco diretto ai diritti civili – soprattutto contro le donne, alle quali nega la dignità, non riconoscendo loro l’interesse alla protezione della salute – e, quindi, nonostante le affermazioni di voler preservare il giudizio dalla politica in funzione antidemocratica.
L’analisi dell’argomentazione sollecita, dunque, un’attenzione particolare sulla capacità di piegare la memoria costituzionale secondo fini predefiniti, manipolandone opportunamente la ricostruzione. Il ricorso alla storia e alla tradizione posto nei termini offerti dal giudice Alito si presta, ovviamente, a rinvigorire tutte le gerarchie di status presenti a metà ‘800 e tanto faticosamente erose nell’ultimo secolo di costituzionalismo dei diritti. Da un altro punto di vista, tuttavia, è anche interessante notare come il ruolo rivendicato per la magistratura venga presentato a “custodire” un oggetto, una storia, totalmente nuova e riscritta a tavolino. Il rispetto per lo stare decisis viene riletto come un vincolo da cui la Corte suprema deve liberarsi, perché è l’istituzione che ha l’ultima parola e deve rispondere; del resto, il giudice Thomas dichiara alla Cnn che «we use stare decisis as a mantra when we don’t want to think»[82], un manierismo attivato quando non si sa o non si vuole prendere posizione.
6. Riflessioni conclusive
È evidente che Dobbs può essere solo il primo di una lunga serie di revirement di diritti che hanno eliminato gerarchie e discriminazioni, dal tema della contraccezione, anch’esso rileggibile come limite alla famiglia “tradizionale”, ai matrimoni fra persone dello stesso sesso, ai matrimoni fra persone di diverse religioni ed etnie. Se la tradizione costituzionale è quella riscritta dalla Corte in Dobbs, nessuna decisione delle corti precedenti, almeno fino al 1868, ha più la forza di resistere; se, come ribadisce in più occasioni il giudice Thomas, il «Due Process Clause does not secure any substantive rights»[83], la dottrina della Costituzione non solo può essere completamente ribaltata rispetto agli ultimi secoli di rafforzamento dei diritti, ma l’operata selezione delle ragioni della storia porta all’imposizione di una “tradizione” totalmente riscritta in funzione di un movimento politico molto divisivo.
Come scrive la parte di Corte dissenziente, «[r]especting a woman as an autonomous being, and granting her full equality, meant giving her substantial choice over this most personal and most consequential of all life decisions»[84]. La decisione Dobbs incide esattamente sull’equality, che tuttavia le diverse corti, negli anni, non hanno mai voluto usare opportunamente. E il cuore della questione è proprio questo: se la libertà, che si chiami privacy o in altro modo, possa essere un surrogato adeguato rispetto al principio dell’uguale rispetto e considerazione delle persone; se insomma, l’aborto invece di essere un diritto pubblico, possa essere una scelta privata. Sembra invero che il ricorso alla libertà, laddove non opportunamente contraltata da una spinta politica verso l’uguaglianza, rafforzi la separazione tra pubblico e privato, relegando le donne ancora una volta in quest’ultimo.
Gli Stati Uniti sono ancora un Paese fortemente discriminatorio e non solo di fatto, ma anche di diritto. L’argomento della Corte in Dobbs regredisce alla legislazione di due secoli fa, quando la Corte poteva tranquillamente statuire che, sebbene le donne fossero cittadine, la cittadinanza o il XIV emendamento non implicavano il diritto di voto di tutti i cittadini, e se uno statute stabiliva che solo gli uomini votavano, la Corte non poteva che prenderne atto, dato che «non ci sono argomenti a sostegno della necessità del suffragio femminile»[85], invero bloccato appositamente proprio nella campagna antiabortista in precedenza ricordata.
Per riflettere ulteriormente sulla sentenza Dobbs, può essere interessante rivedere la storia recente sulla protezione delle donne durante la pandemia negli Stati Uniti e l’attacco diretto al diritto all’aborto. È chiaro che dietro questo attacco c’è una visione dei ruoli di genere risalente agli anni cinquanta, il famoso “modello Doris Day”, la donna felice del e con il suo aspirapolvere. Un ambiente dove la donna è naturalmente caregiver e dedicata al sacrificio per gli altri, dove il lavoro di cura è un lavoro servile proprio perché non riconosciuto, ma sempre dovuto.
La strategia reaganiana di occupazione della Corte ha anche avuto un momento simbolico (e non solo) con la sostituzione della giudice Ginsburg con Amy Coney Barrett. Mentre la prima ha più volte ribadito come le garanzie costituzionali di libertà e uguaglianza limitino le possibilità del Governo di regolare la vita delle donne in gravidanza, la seconda ha sempre esternato la sua opposizione all’aborto e la volontà di ribaltare Roe[86].
In definitiva, due problemi importanti, sul piano dei diritti e su quello interpretativo, vengono sollevati da Dobbs: in primo luogo, l’uguaglianza viene nuovamente negata alle donne in violazione della stessa Costituzione, certo di quella vivente e forse non di quella del 1868. In secondo luogo, la metodologia selettiva e manipolativa della tradizione, appellata con il termine “originalismo”, invero tradisce le stesse ragioni accampate dal metodo. Ma Dobbs rappresenta anche un’inversione di marcia sul piano del costituzionalismo moderno. Il percorso democratico si lega a quello costituzionalista, giacché si avvantaggia dello strumento “Costituzione” come baluardo dal quale avanzare e non solo per difendersi. A questo fine, come scrive Siegel, occorre democratizzare i modi in cui si costruiscono le “tradizioni” affinché siano incluse le voci di coloro che, come le donne, lottavano perché erano ancora privi dei diritti civili: la loro storia, la resistenza alla legge, aggiunge altri valori a quelli del diritto all’epoca vigente[87], giacché dai margini non si poteva (e non si può) legiferare[88].
* Anche se l’articolo è il frutto di una riflessione comune dei due Autori, la stesura dei paragrafi 2, 5 e 6 è a cura di Susanna Pozzolo, mentre i paragrafi 1, 3 e 4 sono a cura di Giacomo Viggiani.
1. 410 U.S. 113 (1973).
2. 597 U.S. (2022).
3. P.A. Treichler, Feminism, Medicine, and the Meaning of Childbirth, in M. Jacobs - E. Fox Keller - S. Shuttleworth (a cura di), Body/Politics. Women and The Discourse of Science, Routledge, New York/Londra, 1990, p. 113.
4. In particolare, questa modalità normativa si collega allo sviluppo della nascente farmaceutica e alla lotta sui relativi futuri brevetti. Soprattutto destava preoccupazione la diffusione dei nuovi veleni, sperimentati proprio per le pratiche abortive sulle donne, giacché quest’ambito era terreno anche di addestramento medico. Sulla battaglia per i brevetti, vds. A. Hohns, Pirateria. Storia della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google, part. par. 5 (La pirateria farmaceutica e la nascita dei brevetti medici), Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
5. C. Brind’Amour, Quickening, Embryo Project Encyclopedia, 3 dicembre 2022 (https://embryo.asu.edu/pages/quickening).
6. Un classico era S.K. Jennings, The Married Lady’s companion: or Poor man’s friend, L. Dow - J.C. Totten Printer, New York, 1808 (vds. https://wellcomecollection.org/works/d2b5tjkj/items?canvas=5; una sintesi si trova all’indirizzo http://nationalhumanitiescenter.org/pds/livingrev/equality/text4/jennings.pdf).
7. J.C. Mohr, Abortion in America: The Origins and Evolution of National Policy, 1800-1900, Oxford University Press, Oxford, 1979, p. 31.
8. H.R. Storer, On the Decrease of the Rate of Increase of Population, Now Obtaining in Europe and America, in American Journal of Science and Arts, vol. XLIII, marzo 1867 (https://collections.nlm.nih.gov/ext/dw/101505674/PDF/101505674.pdf).
9. Sul punto, Brief for amici curiae american historical association and organization of american historians in support of respondents, caso Dobbs, part. pp. 20 ss., 3 dicembre 2022 (www.oah.org/site/assets/files/14207/2021_09_20_19-1392_brief_for_amici_curiae_aha_and_oah_historians_brief_-_filed.pdf).
10. Ivi, p. 21.
11. Una politica del corpo, una “biopolitica”, direbbe forse Foucault, che oggi osserviamo per esempio in Turchia, dove l’aborto è previsto dalla legge come una libera scelta fino alle dieci settimane, ma viene reso via via impossibile come politica contro il decrescente tasso di natalità. Quella politica evidenzia come il sistema si preoccupi soprattutto del tasso di natalità, che in quegli anni negli Stati Uniti stava scendendo: le donne americane facevano meno figli che in passato, un approccio che ritroviamo chiaramente oggi nella politica protonatalista di Erdogan: il calo della natalità turca preoccupa l’establishment, che vuole prendere le distanze da quello – vertiginoso – europeo. Tuttavia, come ben dimostra proprio il caso della Turchia, che nel 1965 ha introdotto l’accesso libero all’aborto nelle prime dieci settimane, il divieto fino a quel momento causava “semplicemente” almeno 12.000 morti di donne all’anno, per complicazioni dopo interventi insicuri. Cfr. M.L. O’Neil, The availability of abortion at State hospitals in Turkey: A national study, in Contraception, n. 95/2017, pp. 148-153; K.A. MacFarlane - M.L. O’Neil - D. Tekdemir - E. Çetin - B. Bilgen - A.M. Foster, Politics, policies, pronatalism, and practice: availability and accessibility of abortion and reproductive health services in Turkey, in Reproductive Health Matters, n. 24/2016, pp. 62-70.
12. H.R. Storer, Why not? A book for every woman, Lee and Shepard, Boston, 1867, p. 85.
13. C. Mohr, Abortion in America, op. cit., p. 105, che cita M.A. Pallen, Foeticide or Criminal Abortion, in Medical Archives, n. 3/1869, pp. 205-206: «“Woman’s rights” now are understood to be, that she should be a man, and that her physical organism, which is constituted by Nature to bear and rear offspring, should be left in abeyance, and that her ministrations in the formation of character as a mother should be abandoned for the sterner rights of voting and law making».
14. Il dibattito sull’ERA ha, oramai, quasi un secolo.
15. P.A. Treichler, Feminism, op. cit.
16. N. Filippini, Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, Viella, Roma, 2017.
17. P. Carter, Guiding the Working-Class Girl: Henrietta Rodman’s Curriculum for the New Woman, 1913, in Frontiers: A Journal of Women Studies, vol. 38, n. 1/2017, pp. 124-155.
18. P.A. Treichler, Feminism, op. cit., p. 130; G. Corea, The Mother Machine: Reproductive Technologies from Artificial Insemination to Artificial Wombs, Harper Collins, New York, 1985.
19. A. Westin, Privacy and Freedom, Atheneum, New York, 1968.
20. D.J. Solove aprendo l’introduzione (The Legacy of Privacy and Freedom) alla recente edizione di Alan F. Westin, Privacy and Freedom (Ig Publishing, New York, 2018), ricorda come questo volume sia stato uno dei più importanti contributi per stabilire la “information privacy” – ma potremmo dire anche la “american privacy”.
21. J.C. Inness, Privacy, Intimacy and Isolation, Oxford University Press, Oxford, 1992; P. Boling, Privacy and the Politics of Intimate Life, Cornell University Press, Ithaca (NY), 1996.
22. 381 U.S. 479 (1965).
23. 405 U.S. 438 (1972).
24. 431 U.S. 678 (1977).
25. Per una ricostruzione più dettagliata dell’evoluzione del diritto alla privacy in relazione alla sfera sessuale, vds. D.J. Garrow, Liberty and Sexuality: The Right to Privacy and the Making of Roe v. Wade, Macmillan, New York, 1994.
26. Lo stesso problema fu affrontato in relazione al congedo lavorativo per la gravidanza e la maternità, e dette vivace dibattito all’interno dello stesso movimento femminista. Cfr. L.M. Finley, Transcending Equality Theory: A Way out of the Maternity and the Workplace Debate, in Columbia Law Review, vol. 86, n. 6/1986, pp. 1118-1182; A. Weissmann, Sexual Equality under the Pregnancy Discrimination Act, ivi, vol. 83, n. 3/1983, pp. 690-726; H.H. Kay, Equality and Difference: The Case of Pregnancy, in Berkeley Women’s Law Journal, vol. 1, n. 1/1985, pp. 1-38.
27. Fatto salvo il caso in cui la vita stessa della gestante era in pericolo a causa della gravidanza, l’aborto era generalmente una pratica vietata in tutti gli Stati Uniti, a prescindere dal consenso della donna coinvolta.
28. Per un commento coevo, vds. J.H. Ely, The Wages of Crying Wolf: A Comment on Roe v. Wade, in Yale Law Journal, vol. 82, n. 5/1973, pp. 920-949. Vds. anche B. Schambelan, Roe v. Wade, Running Press, Philadelphia, 1992, che commenta parimenti Doe v. Bolton. Per una riflessione di Roe v. Wade in prospettiva, si rimanda invece a N. McCorvey e A. Mesler, I Am Roe: My Life, Roe V. Wade, and Freedom of Choice, Harper Collins, New York, 1994.
29. Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973), 153.
30. Ivi, pp. 157 e 158, dove chiarisce che il XIV emendamento non si estende ai non nati.
31. Ivi, p. 159.
32. Ivi, p. 161.
33. Ivi, p. 162.
34. Recenti proposte normative di alcuni politici italiani parrebbero cercare di attivare esattamente questa possibilità.
35. Si evidenzia il tentativo di non fare uscire la donna dalla minorità, non riconoscendole la pari dignità, rinverdendo modalità tipo l’“autorizzazione maritale”.
36. Planned Parenthood of Central Missouri v. Danforth, 428 U.S. 52 (1976).
37. Colautti v. Franklin, 439 U.S. 379 (1979).
38. Akron v. Akron Center for Reproductive Health, 462 U.S. 416 (1983).
39. Per una lettura dell’opinione dissenziente della giudice O’Connor: https://oconnorlibrary.org/supreme-court/akron-v-akron-ctr-for-reprod-health-1982.
40. 492 U.S. 490 (1989).
41. Nella sua dissenting opinion, il giudice Alito afferma che alcune donne sposate sono propense ad abortire all’insaputa del marito considerando i problemi economici e altre difficoltà, che però possono esser superati con una semplice discussione o un chiarimento prima dell’aborto (www.law.cornell.edu/supremecourt/text/505/833; al punto 383, la dichiarazione di Alito menzionata).
42. Ancora una volta, riemerge la volontà di mantenere la donna in uno stato di minorità e mancata uguaglianza, non riconoscendole l’uguale capacità e dignità dell’uomo.
43. 432 U.S. 438 (1977).
44. 432 U.S. 464 (1977).
45. 432 U.S. 519 (1977).
46. Insicurezza che, con modalità in certa misura analoga, si va producendo anche in Italia, dove l’Istituto superiore di Sanità calcolava circa 15.000 aborti clandestini all’anno nel 2012, crescita di una pratica pericolosa dovuta esattamente a difficoltà che si frappongono all’applicazione della legge n. 194 in Italia.
47. Ivi, 520.
48. Ovviamente rinviando alla tradizionale distinzione fra diritti negativi o di libertà e positivi o di prestazione.
49. Vengono in mente i cd. «diritti di carta» individuati da R. Guastini (Distinguendo, Giappichelli, Torino, 1996).
50. C.A. MacKinnon, The Male Ideology of Privacy: A Feminist Perspective on the Right to Abortion, in Radical America, n. 4 /1983, pp. 23-35, part. p. 23.
51. Harris v. McRae, 448 U.S. 297 (1980).
52. Webster v. Reproductive Health Services, 492 U.S. 490 (1989).
53. Bowers v. Devito, 686 F.2d 616 (7th Cir. 1982).
54. Per una riflessione sulle ragioni intorno al “contratto sociale” e l’obbedire al diritto, vds. S. Pozzolo, La libertà dalla povertà come diritto fondamentale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 2/2004, pp. 467-500.
55. La letteratura è piuttosto copiosa a livello internazionale. Per il dibattito italiano, si vedano, ex multis: A. Sperti, Il diritto all’aborto ed il ruolo della tradizione nel controverso overruling di Roe v. Wade, in Rivista “Gruppo di Pisa”, n. 3/2022, pp. 23-36; M.R. Marella, Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, l’Europa e noi, in Giustizia insieme, 3 dicembre 2022 (www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2457-dobbs-v-jackson-women-s-health-organization-l-europa-e-noi); C. Bologna, Aborto e originalismo nei diritti, in Rivista il Mulino, 3 dicembre 2022 (www.rivistailmulino.it/a/aborto-e-originalismo-nei-diritti).
56. R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 178 e 282; C. Tripodina, L’argomento originalista nella giurisprudenza costituzionale in materia di diritti fondamentali, in F. Giuffrè e I. Nicotra (a cura di), Lavori preparatori ed original intent nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 229 ss. (www.dircost.unito.it/SentNet1.01/studi/Tripodina_Argomento_originalista.pdf).
57. Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, 597 U.S. (2022), «Opinion of the Court», p. 8.
58. Ivi, p. 18.
59. Ivi, p. 23.
60. Ivi, p. 14.
61. V. Klein, The Feminine Character, Routledge, Londra, 1971 (1946), pp. 7-8. James Bryce (Studies in history and jurisprudence – Vol. II, Oxford University Press, New York - American Branch) ne scrive nel 1901 e, invero, l’ultima vendita si registra ancora nel 1913.
62. R. Guastini (Interpretar y argumentar, Centro de Estudios Politicos y Constitucionales, Madrid, 2004, p. 373), per esempio, parla di dottrina «statica», benché talvolta l’argomento possa avere un ruolo anche in funzione evolutiva, come quando una politica reazionaria è successiva alla produzione di un diritto progressista. Cfr. C. Tripodina, L’argomento originalista, op.cit., pp. 9 ss.
63. Identificati come gruppo estremista da Equity Forward, 3 dicembre 2022 (https://equityfwd.org/pro-family-movement).
64. R. Post e R. Siegel, Originalism as a Political Practice: The Right’s Living Constitution, in Fordham Law Review, vol. 75, n. 2/2006, pp. 545-574, part. p. 549.
65. Ivi, p. 552.
66. La letteratura è ampia. Può essere interessante rinviare alla lettura dei testi che discutono il tema della medicina genere/sesso specifica, ad esempio: A. Shai - S. Koffler - Y. Ashiloni-Dolev, Feminism, gender medicine and beyond: a feminist analysis of “gender medicine”, in International Journal for Equity in Health, vol. 20, 2021, (articolo n. 177), pp. 1-11; M. Sharma, Applying feminist theory to medical education, in Lancet, vol. 393, n. 10171, 2019, pp. 570-578; G. Einstein, Sex and Gender in Health: The World Writes on the Body, in M.J. Legato e M. Glezerman (a cura di), The International Society for Gender Medicine, Academic Press, Amsterdam, 2017, pp. 45-55; N. Krieger, Genders, sexes, and health: what are the connections – and why does it matter?, in International Journal of Epidemiology, vol. 32, n. 4/2003, pp. 652–657.
67. R. Siegel, Reasoning from the Body: A Historical Perspective on Abortion Regulation and Questions of Equal Protection, in Stanford Law Review, vol. 44, n. 2/1992, pp. 261-381, part. pp. 268 ss.
68. 417 U.S. 484 (1974).
69. R. Siegel, Reasoning from the Body, op. cit., p. 269.
70. Ibid.
71. Ibid.
72. R.M. Cover, Foreword: Nomos and Narrative, prefazione a The Supreme Court 1982 Term, in Harvard Law Review, vol. 97, n. 4/1983, pp. 4-68, part. p. 42.
73. Ibid.
74. Vds. La discriminazione di genere: la storia del riconoscimento del diritto delle donne al voto nel mondo (dal 1900 a oggi), 3 dicembre 2022, www.mondopoli.it/2018/01/08/il-diritto-delle-donne-al-voto-nel-mondo.
75. 3 dicembre 2022, https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=4080080.
76. Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, 597 U.S. (2022), «Opinion of the Court», pp. 10-11.
77. C.A. MacKinnon, Privacy v. eguaglianza: a partire dal caso Roe v. Wade, in Ead., Le donne sono umane?, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 65-75, part. p. 75.
78. R.B. Siegel, Memory Games: Dobbs’s Originalism as Anti-Democratic Living Constitutionalism – and Some Pathways for Resistance, in Texas Law Review, vol. 101, 2023, p. 11 (in pubblicazione).
79. Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, cit., «Opinion of the Court», p. 64, citando Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey, 505 U.S. 833 (1992) – vds. https://supreme.justia.com/cases/federal/us/505/833/.
80. Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, cit., «Opinion of the Court», pp. 64-65.
81. R. Thornburgh et al., Appellants v. American College of Obstetricians and Gynecologists, Et Al.; E.F. Diamond et al., Appellants v. Allan G. Charles et al.; nn. 84-495, 84-1379; Brief for the United States as Amicus Curiae in Support of Appellants (October Term), 1985, www.justice.gov/sites/default/files/osg/briefs/1985/01/01/sg850181.txt a cui Alito risulta aver partecipato attivamente, come testimoniato in A coauthor says Alito was instrumental in Roe v. Wade brief (http://archive.boston.com/news/nation/articles/2005/11/16/a_coauthor_says_alito_was_instrumental_in_roe_v_wade_brief/).
82. A. de Vogue (con la collaborazione di R. Nobles, A. Grayer, Z. Cohen, J. Gangel), Thomas says government institutions shouldn’t be ‘bullied’ following leak of draft opinion on abortion, CNN, 7 maggio 2022, (https://edition.cnn.com/2022/05/06/politics/clarence-thomas-stare-decisis-roe-v-wade-leak/index.html).
83. Giudice C. Thomas, «concurring opinion» in Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, cit., p. 2
84. Giudici Breyer, Sotomayor e Kagan, «dissenting opinion», ivi, p. 1.
85. «If the law is wrong, it ought to be changed; but the power for that is not with us. The arguments addressed to us bearing upon such a view of the subject may perhaps be sufficient to induce those having the power, to make the alteration, but they ought not to be permitted to influence our judgment in determining the present rights of the parties now litigating before us. No argument as to woman’s need of suffrage can be considered. We can only act upon her rights as they exist. It is not for us to look at the hardship of withholding. Our duty is at an end if we find it is within the power of a State to withhold» – Minor v. Happersett, 88 U.S. 162 (1874).
86. R.B. Siegel, Why Restrict Abortion? Expanding the Frame on June Medical, in Supreme Court Review, 2021, p. 286 e note 33-35; A. North, What Amy Coney Barrett on the Supreme Court means for abortion rights, in Vox, 26 ottobre 2020 (www.vox.com/21456044/amy-coney-barrett-supreme-court-roe-abortion).
87. Il modo in cui raccontiamo è fondamentale. Per esempio, M.J. Frug (Re-Reading Contracts: a Feminist Analysis of a Contracts Casebook, in American University Law Review, vol. 34, n. 4/1985, pp. 1065-1140) rileva come, nei testi didattici, venga evidenziata l’esclusione giuridica della popolazione afrodiscendente ma non quella delle donne, facendo così passare l’idea di una loro naturale assenza.
88. «Systematic divergence between constitutional memory and constitutional history can legitimate authority by generating the appearance of consent to contested status relations and by destroying the vernacular of resistance. Though women contested their lack of political authority in the constitutional order over two centuries, there is no trace of their arguments in constitutional law» – R.B. Siegel, The Politics of Constitutional Memory, in Georgetown Journal of Law & Public Policy, vol. 20, n. 1/2022, pp. 19-58.