Un ascolto parziale: il lavoro ideologico dei miti di stupro in aula di giustizia
Nonostante l’evoluzione del quadro normativo italiano in materia di violenza di genere, nella giurisprudenza di merito permane una diffusa modalità interpretativa che ricerca nella vittima le cause che muovono la condotta delittuosa dell’imputato, oscurando il movente di genere ed esponendo la persona offesa dal reato a una vittimizzazione secondaria. Tale prassi ermeneutica e applicativa, negli studi giuridici e sociologici che riguardano casi italiani, è indagata prevalentemente guardando agli stereotipi e ai pregiudizi di genere contenuti nelle sentenze. In questo mio contributo, propongo un’analisi critica delle risorse concettuali e delle pratiche linguistiche di matrice sessista adottate nel condurre l’esame della persona offesa da reati di genere in fase dibattimentale.
1. Introduzione / 2. Sessismo, miti di stupro e ingiustizie epistemiche / 3. I miti di stupro nel discorso giuridico / 3.1. «Quindi è un rapporto sessuale non completato ma iniziato» / 3.2. «Quindi era geloso»: falsi moventi e victim blaming / 4. Conclusioni
1. Introduzione
Il rapporto del GREVIO[1] e i documenti approvati dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio del Senato dimostrano che, all’interno di una parte del corpo della magistratura, persiste una sostanziale difficoltà nel riconoscere la violenza di genere nella sua natura strutturale[2]. Nonostante l’evoluzione del quadro normativo italiano in materia di violenza sessuale e domestica – riflesso di un cambiamento culturale lento e gravoso –, nella giurisprudenza di merito permane una diffusa modalità interpretativa che ricerca nella vittima[3] le cause che muovono la condotta delittuosa dell’imputato, oscurando il movente di genere ed esponendo la persona offesa a una vittimizzazione secondaria. Tale prassi ermeneutica e applicativa, negli studi giuridici e sociologici che riguardano casi italiani, è indagata prevalentemente guardando agli stereotipi e ai pregiudizi di genere contenuti nelle sentenze[4]. Quello che propongo in questo mio contributo è un’analisi critica delle risorse concettuali e delle pratiche linguistiche di matrice sessista adottate nel condurre l’esame della persona offesa da reati di genere in fase dibattimentale.
Attualmente, nella giurisprudenza italiana, l’orientamento interpretativo maggioritario è quello secondo cui, nel processo penale, la testimonianza della persona offesa può essere assunta autonomamente come fonte di prova della colpevolezza dell’imputato. Poiché la deposizione testimoniale della persona offesa non può essere parificata a quella del terzo disinteressato – ancor più laddove la teste è parte civile del processo e, dunque, portatrice di un interesse economico –, la verifica della credibilità soggettiva della dichiarante e dell’attendibilità intrinseca della sua testimonianza dev’essere condotta più rigorosamente rispetto a quella cui sono sottoposte le dichiarazioni testimoniali tout court[5]. Nei processi per reati di violenza sessuale e domestica, tale verifica risulta alquanto problematica, poiché l’imparzialità di giudizio viene spesso minata da un’ideologia sessista che nega alla vittima di reato la possibilità di offrire compiutamente e vedere riconosciuta la propria versione dei fatti.
Prendendo le mosse dall’osservazione diretta di tre udienze tenutesi presso il Tribunale di Milano lo scorso anno, offrirò alcuni esempi che mettono in luce il lavoro ideologico delle domande poste dal (o dalla) giudice nella valutazione della prova testimoniale della persona offesa, considerando in particolare il ruolo dei miti di stupro nella definizione di ciò che costituisce violenza sessuale (par. 3.1.) e nella colpevolizzazione della vittima (par. 3.2.).
Per analizzare il linguaggio e i concetti operativi durante la cross-examination della persona offesa, occorre innanzitutto definire una prospettiva teorica. Nel paragrafo che segue, chiarirò cosa intendo con ideologia sessista, cosa sono i miti di stupro e in che modo questi ultimi costituiscono un ostacolo nella produzione e ricezione del sapere relativo all’esperienza della violenza di genere vissuta dalle donne.
2. Sessismo, miti di stupro e ingiustizie epistemiche
Il sessismo è un fatto sociale, culturale e ordinario che si realizza nelle nostre pratiche quotidiane.
Adottando la prospettiva teorica della filosofa statunitense Sally Haslanger[6], potremmo considerare l’ideologia sessista come un sistema di significati sociali collettivamente condivisi che, incarnandosi in pratiche e atteggiamenti, coordina i soggetti nelle interazioni quotidiane riproducendo le asimmetrie di potere e i ruoli di genere istituzionalizzati dal sistema sociopolitico patriarcale. Consideriamo tre scenari ordinari:
(1) una donna sta entrando in un caffè e l’uomo che è davanti a lei la invita a precederlo aprendole la porta d’ingresso. Lei rifiuta di assecondarlo, ma lui insiste: “prima le signore”;
(2) un uomo e una donna siedono al tavolo di un ristorante. Il cameriere si avvicina, mostra l’etichetta della bottiglia di vino all’uomo e gli versa la bevanda nel calice per l’assaggio;
(3) una donna denuncia a un poliziotto le violenze perpetrate contro di lei dal marito, ma viene ritenuta troppo emotiva per essere presa sul serio. Il poliziotto le risponde: “signora, si calmi, provi a riappacificarsi con suo marito”.
Se il terzo scenario, su cui torneremo fra un istante, è oggi comunemente accettato come un chiaro esempio di sessismo, (1) e (2) sono spesso ritenuti come non problematici, casi di “sessismo benevolo” che non nuocciono a nessuno. Eppure, tali atteggiamenti, certamente fra i meno dannosi, sono coerenti con il sistema di stereotipi e di pregiudizi di genere che – fissando la natura della “donna” e dell’“uomo” sulla base delle regolarità del mondo presente e passato – distribuiscono i ruoli sociali mantenendo e rafforzando l’oppressione dei soggetti percepiti come donne[7].
Proponendo (1) e (2), non intendo qui suggerire che tali pratiche sociali vadano necessariamente abbandonate. Vorrei limitarmi a mostrare che, assumendo una distanza critica da certe nostre abitudini, è possibile osservare alcune cose rilevanti per gli scopi del presente lavoro.
Innanzitutto, l’adesione all’ideologia sessista non è necessariamente un atto intenzionale: si può agire in modo sessista anche senza conoscere i significati sociali che orientano il nostro pensiero e le nostre azioni. Così, un cameriere può rivolgersi all’uomo per l’assaggio del vino semplicemente perché obbedisce agli ordini impartitigli dal caposala, mentre l’uomo che apre la porta alla donna e insiste nonostante il rifiuto di lei potrebbe farlo perché ci tiene a comportarsi da “gentiluomo”, e non si accorge di risultare inopportuno. Per coordinarci con gli altri nella vita quotidiana abbiamo bisogno di agire conformemente al sistema di attese prodotto dallo sfondo normativo che regola i rapporti interpersonali, il quale è in parte costituito dalle norme di genere: accettare il gesto di “galanteria” di un uomo o attendere che il proprio commensale esprima un parere sul vino appena assaggiato è il modo più semplice per partecipare agilmente alle interazioni sociali e, in certi casi, può essere l’atteggiamento più vantaggioso. Di contro, disattendere le aspettative può comportare un costo cognitivo e sociale molto alto.
Se nei casi del “cameriere obbediente” e del “gentiluomo” conformarsi all’ideologia sessista non produce danni eccessivi, nell’esempio (3) la negligenza del poliziotto può causare danni irreparabili, e a prescindere dagli effetti costituisce una grave forma di discriminazione. Per tale ragione, è doveroso interrogarsi collettivamente sui significati sociali che orientano il suo agire. Torniamo all’esempio:
(3) Una donna denuncia a un poliziotto le violenze perpetrate contro di lei dal marito, ma viene ritenuta troppo emotiva per essere presa sul serio. Il poliziotto le risponde: “signora, si calmi, provi a riappacificarsi con suo marito”.
Nello scenario descritto, la denunciante viene disconosciuta come soggetto epistemico competente a causa di un pregiudizio legato alla sua identità di genere: assumendo un atteggiamento discriminatorio di tipo sessista, il poliziotto considera la testimonianza della parlante inattendibile e recepisce l’atto di denuncia come una lamentela trascurabile[8]. Il deficit di credibilità che colpisce la donna, in questo caso causato da pregiudizi sulla natura irrazionale del soggetto femminile, viene spiegato dalla filosofa britannica Miranda Fricker con la nozione di ingiustizia testimoniale[9], e poiché danneggia il soggetto in quanto agente conoscitivo, costituisce una forma di ingiustizia epistemica[10].
Questo caso di sessismo risulta dannoso non soltanto in quanto colpisce una donna per ragioni legate alla sua identità di genere, ma anche perché la conoscenza che il soggetto parlante intende trasmettere al suo interlocutore riguarda il dominio della violenza di genere. Difatti il poliziotto, nel negare credito alle parole della denunciante, fallisce nel riconoscimento della situazione di violenza riportata, derubricando il reato di genere a una mera lite familiare. Tale atteggiamento, che, come mostrerò nel prossimo paragrafo, viene assunto anche in aula di giustizia, è indicativo del modo in cui l’ideologia sessista rappresenta la violenza di genere e può essere meglio indagato adottando la nozione di mito di stupro.
La filosofa britannica Katharine Jenkins definisce i miti di stupro come «atteggiamenti sbagliati nei confronti della violenza sessuale»[11] che, agendo in molte aree del discorso, portano a non credere alla parola della vittima (dishonesty myths), a oscurare la distinzione fra sesso e violenza sessuale (consent myths) e ad attribuire alla persona offesa la colpa della violenza subita (blame myths). Di seguito, propongo un esempio per ciascuna categoria:
(a) “le donne spesso mentono sulla violenza sessuale per vendetta o per interessi economici”;
(b) “la violenza sessuale implica sempre la forza fisica e una vittima di violenza cercherà sempre di respingere l’aggressore”[12];
(c) “Una donna che flirta con altri uomini è naturale che provochi la gelosia del marito, ed è sempre da biasimare”.
Ogni mito di stupro, più o meno manifestamente, limita il nostro modo di pensare e agire rispetto alla violenza sessuale, assolvendo di volta in volta funzioni diverse.
I miti sulla disonestà, esemplificati da (a), suggeriscono che la testimonianza delle donne che denunciano di aver subito una qualunque forma di violenza di genere dovrebbe essere trattata con sospetto, rinforzando i pregiudizi sulla natura mendace, vendicativa e “troppo” emotiva del soggetto femminile. Poiché i miti sulla disonestà comportano per la vittima «un deficit di credibilità causato da pregiudizi legati alla propria identità sociale»[13], Jenkins considera questa prima categoria di miti come un esempio di ingiustizia testimoniale.
I miti sul consenso, esemplificati da (b), oscurano dalla comprensione collettiva la maggior parte delle esperienze di violenza sessuale e domestica, negando legittimità alle produzioni di sapere dei soggetti target della violenza di genere, e costituiscono, secondo Jenkins, quella che Fricker definisce come una forma di «ingiustizia ermeneutica»[14]. Come emergerà analizzando i miti di stupro istituzionalizzati nel discorso giuridico (par. 3), tale forma d’ingiustizia non si realizza unicamente a causa di una lacuna concettuale, ma anche perché vengono resi operativi concetti distorsivi, che ostacolano l’applicazione di risorse ermeneutiche più accurate.
Infine, i miti sulla colpa, come (c), esercitano la funzione misogina[15] di stigmatizzare le donne che, per condotta o per appartenenza a un gruppo sociale svantaggiato, si discostano dall’inarrivabile modello della “vera vittima”[16], e di punire chi si rifiuta di fare sesso con i soggetti maschili tutelati dall’ordine patriarcale[17].
Se osserviamo lo scenario proposto in (3) adottando la tassonomia dei miti di stupro appena descritta, notiamo che il poliziotto, oltre a non credere alla testimonianza della denunciante, adotta una risorsa ermeneutica inadeguata – quella di “lite familiare” – per comprendere il fatto riportato, coerentemente con il mito sul consenso secondo cui “una donna non può essere violentata dal marito” e con i miti sulla colpa che attribuiscono alla vittima la causa della violenza subita – come “le donne spesso provocano la rabbia dei loro partner ed è naturale che questi reagiscano”. Come vedremo nel paragrafo che segue, i miti di stupro che orientano l’atteggiamento del poliziotto non agiscono in un vuoto sociale, ma sono inseriti in un ampio sistema di pratiche di oppressione socioculturali, economiche e politiche spesso legittimate e reiterate anche in ambito giudiziario.
Da una prospettiva performativa del linguaggio, si può osservare come, nei processi per reati di violenza di genere, i miti di stupro – quando posti in essere – svolgano un ruolo determinante nella formulazione delle domande poste durante la valutazione della testimonianza della vittima in fase dibattimentale, impedendo la corretta applicazione delle leggi che tutelano la persona offesa e costituendo un elemento cardine nella categorizzazione delle parti del processo.
Nel paragrafo che segue, mostrerò come il linguaggio adottato da chi esercita la giustizia possa svolgere una funzione oppressiva, andando ad autorizzare e consolidare le asimmetrie di potere che regolano i rapporti fra soggetto imputato e persona offesa.
3. I miti di stupro nel discorso giuridico
Gli esempi che propongo in questa sezione riguardano tre udienze collegiali di procedimenti penali per reati di genere svolti presso il Tribunale di Milano. In tutti e tre i casi, i soggetti imputati sono indagati per i reati di maltrattamenti contro famigliari e lesioni personali e, in due casi, per il reato di violenza sessuale, con l’aggravante di avere commesso il fatto ai danni della moglie e in presenza dei figli minorenni.
L’ascolto delle persone offese si è svolto a porte aperte e tutte e tre le dichiaranti, pur riscontrando difficoltà nell’esprimersi in lingua italiana, hanno affrontato l’esame incrociato senza l’ausilio di un interprete. Rilevo fin d’ora quest’ultimo aspetto perché la barriera linguistica ha costituito un ulteriore ostacolo nella costituzione della prova testimoniale: le persone offese sono state richiamate di frequente da chi presiedeva l’udienza perché parlavano troppo veloce o perché adottavano parole ritenute dal Tribunale inadeguate (ad esempio “sgridare” invece di “insultare”).
Assumendo la tassonomia dei miti di stupro proposta da Jenkins, comincerò osservando i miti sul consenso operativi nella definizione del fatto contestato.
3.1. «Quindi è un rapporto sessuale non completato ma iniziato»
Definendo alcuni miti di stupro come forme di ingiustizia ermeneutica, Jenkins adotta la distinzione fra concetti manifesti – indicanti il modo in cui definiremmo esplicitamente un concetto se ci venisse chiesto di farlo – e concetti operativi – desumibili dalle nostre pratiche effettive[18] –, e individua in particolare nei miti sul consenso – ovvero in quei miti che oscurano ciò che conta come sesso e ciò che costituisce violenza sessuale – la funzione di indurre le persone ad avere un concetto operativo sbagliato, nonostante queste posseggano il concetto manifesto corretto.
I miti sul consenso operativi nel discorso giuridico sono difficili da disinnescare proprio perché coerenti con una serie di leggi intrinsecamente sessiste che, sebbene abrogate, continuano talvolta ad abitare le prassi interpretative di chi esercita la giustizia. Volgo lo sguardo alla storia recente per ricordarne alcune.
Nell’ordinamento italiano, fino al 1976, la violenza sessuale perpetrata dal marito nei confronti della moglie non costituiva reato. Fino al 1981, anno che vede l’abrogazione dei delitti per causa d’onore, il reato di stupro poteva essere estinto ricorrendo al cd. “matrimonio riparatore”: poiché la violenza sessuale era definita dal legislatore come un «delitto contro la morale pubblica e il buon costume», e non già contro la libertà personale e l’autodeterminazione sessuale della donna, il danno recato all’onore patriarcale poteva essere annullato dall’unione in matrimonio del reo e della persona offesa dal reato. Fino al 1996, il Codice Rocco distingueva fra due fattispecie di reato (ex artt. 519 e 521 cp, abrogati dalla l. 15 febbraio 1996): la «violenza carnale» e gli «atti di libidine violenti». Per verificare la prima, consistente nella «congiunzione carnale» (ovvero nell’atto penetrativo), la presunta vittima veniva interrogata in aula di giustizia sull’esatta natura dell’atto sessuale denunciato, e se non riusciva a provare di avere subito un «rapporto completo forzato», il reato veniva derubricato. Per essere considerato «forzato», l’atto doveva rispettare il criterio della massima resistenza, che implicitamente caratterizza il vero stupro come quello che implica sempre una forza fisica soverchiante cui la vittima deve resistere “fino in fondo”[19].
Attraverso il dispositivo della legge, l’ideologia sessista ha marcato il confine che separa il sesso dalla violenza sessuale, definendo quest’ultima come un crimine che interessa una minoranza trascurabile di soggetti in circostanze eccezionali. I miti sul consenso sono il residuo ostinato di una cultura che ha a lungo normalizzato la subordinazione delle donne al dominio maschile.
Uno sguardo alla storia recente ci permette ora di mettere in luce la matrice sessista delle risorse concettuali e delle pratiche linguistiche adottate dal Tribunale nel condurre l’esame delle persone offese nelle udienze in oggetto.
Gli esempi che seguono mostrano che anche se chi giudica ha una giusta concezione della nozione giuridica (il concetto manifesto) di «violenza sessuale» – definita dall’art. 609-bis cp secondo le categorie di costrizione (violenza, minaccia e abuso di autorità) e induzione (abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica e inganno) e avente il consenso della persona offesa quale elemento costitutivo negativo del delitto[20] –, i concetti operativi nella valutazione del fatto contestato sono spesso ancora il prodotto di miti di stupro secondo cui la violenza sessuale implica sempre l’atto penetrativo, il quale è inflitto sempre con una forza fisica soverchiante che la vittima cerca sempre di contrastare, opponendosi con la massima resistenza.
Comincio presentando due momenti dell’esame condotto in uno dei due casi in cui l’imputato è indagato per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti contro famigliari e lesioni personali.
Si sta svolgendo l’esame del pubblico ministero. La giudice che presiede il collegio interviene chiedendo alla persona offesa di descrivere meglio le modalità con cui veniva maltrattata dal marito. La dichiarante risponde di essere stata ripetutamente minacciata di morte e insultata e descrive la dinamica di una delle violenze sessuali subite in presenza del figlio minorenne adottando la categoria di violenza fisica (dice testualmente: «mi teneva e mi rompeva i vestiti») e riportando il momento in cui ha manifestato verbalmente il proprio rifiuto («non è stato mai fermo quando gli dicevo “no”»). Nonostante ciò, la giudice pone l’elemento del consenso in secondo piano, chiedendo alla vittima se l’imputato volesse il rapporto «con la forza», e dopo la risposta affermativa della dichiarante, continua a considerare la violenza come un rapporto sessuale «forzato»[21] ma comunque partecipato da entrambi («e l’avete fatto con forza?»). Limitando la categoria di violenza all’esplicazione della forza fisica, il fatto che l’autodeterminazione della persona offesa risulti chiaramente coartata viene ritenuto insufficiente.
Poco più avanti, sempre durante l’esame del pubblico ministero, la giudice chiede alla testimone di descrivere nel dettaglio un altro episodio di violenza sessuale. La persona offesa risponde riferendo che in quell’occasione l’imputato, insultandola e minacciandola, l’aveva violentata sessualmente stringendola per il collo fino a farle perdere i sensi. La giudice le chiede dunque se fosse stata penetrata, e ottenendo una risposta affermativa le domanda se l’imputato avesse raggiunto l’orgasmo («e lui è venuto?»). Poiché la dichiarante risponde di no, la giudice categorizza infine la violenza sessuale in termini di «rapporto sessuale non completato ma iniziato». Definendo la violenza in base al piacere sessuale provato dall’imputato al momento del fatto, l’orgasmo dell’aggressore viene considerato dal Tribunale come un elemento necessario per la configurazione dell’atto come “completo”. L’adozione di criteri interpretativi coerenti con il concetto sessista di “congiunzione carnale” impedisce qui la corretta applicazione della nozione giuridica di «atti sessuali» attualmente vigente[22].
Passando all’altro procedimento penale intentato per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti contro famigliari e lesioni personali, propongo un ultimo esempio che mostra come i miti sul consenso giochino un ruolo determinante nel definire la natura della violenza sessuale.
Siamo al termine della cross-examination: la persona offesa ha già descritto i modi in cui veniva insultata, picchiata e costretta reiteratamente dall’imputato a compiere e subire atti sessuali contro la sua volontà, dichiarando con grande difficoltà che spesso alla fine si «abbandonava», «sperando che finisse tutto in fretta», ed è ora sottoposta all’esame dell’avvocato della difesa. Le domande dell’avvocato mirano a derubricare la maggior parte degli episodi di violenza sessuale denunciati in forma tentata: dapprima viene chiesto alla testimone con quale frequenza avvenivano gli episodi di violenza e, in seguito, se generalmente lei opponeva resistenza riuscendo a «divincolarsi». La giudice interviene domandando alla dichiarante se i rapporti erano «forzati» e se, «quando lui usava la forza per i rapporti sessuali, l’atto si compiva». Ancora una volta la nozione di “atto sessuale” viene applicata adottando il criterio della massima resistenza e considerando rilevante il piacere sessuale del soggetto imputato, cosicché viene interpretato come atto “non compiuto” anche quello che dovrebbe essere configurato come violenza sessuale in forma consumata. Difatti, se si abbandona la prospettiva ideologica che definisce la violenza a partire dalla sessualità e dell’appagamento erotico maschile, risulta chiaro che l’invasione della sfera sessuale della persona offesa in assenza di consenso è già violenza sessuale[23].
La tendenza ad applicare le norme adottando un atteggiamento sessista risulta dannosa non soltanto in quanto impedisce di riconoscere la violenza di genere quando questa non rispetti i criteri stabiliti dall’ideologia dominante, ma perché comporta al contempo una mancanza di cura nei confronti della persona offesa[24]. Tale mancanza, in fase dibattimentale, si realizza nella massima intensità in una serie di prassi che, ignorando la vulnerabilità posizionale della vittima o abusando di tale condizione, attribuiscono a quest’ultima la colpa della violenza subita, e dunque l’onere di giustificare in modo convincente le ragioni della condotta delittuosa denunciata.
Nella seconda parte del presente paragrafo, offrirò alcuni esempi che mostrano come gli argomenti della “gelosia” e della “provocazione” giustifichino la formulazione di domande mirate a biasimare la persona offesa per la sua “cattiva” condotta e a mitigare la responsabilità dell’imputato.
3.2. «Quindi era geloso»: falsi moventi e victim blaming
«Sei solo una puttana». Chi agisce violenza contro le donne usa quasi sempre il linguaggio d’odio come arma di violenza verbale e lo fa con l’intento di aggredire, umiliare, degradare, opprimere l’altra persona fino a farla sentire impotente, sola e colpevole. Insulti come quello menzionato – denunciati da tutte e tre le persone offese nei casi in oggetto – non sono la manifestazione di “gelosie maschili” o di “menti malate”, ma pratiche misogine finalizzate al controllo, alla sottomissione e all’isolamento delle persone che subiscono violenza. Ricercare la causa degli insulti nella condotta di chi li riceve significa fallire nel riconoscimento del movente di genere.
«Quali erano i motivi di questi insulti? Era geloso?»; «Perché ti diceva che eri una puttana?»; «Quindi era geloso e non voleva che lei contattasse i suoi amici. Poi cos’è successo?». Queste domande sono state rivolte alle persone offese rispettivamente dal pubblico ministero, dall’avvocata della difesa e dalla giudice nelle udienze dei tre procedimenti penali in oggetto nel presente articolo, e rappresentano solo alcuni dei momenti in cui le testimoni sono state chiamate a individuare le ragioni delle condotte delittuose degli imputati nelle proprie condotte. In tutti e tre i casi, il falso movente della gelosia giustifica la violenza perpetrata dagli imputati in nome di un presunto diritto dei soggetti maschili al corpo e alle attenzioni delle donne.
Le prime due domande, che durante le udienze sono state tollerate dal Tribunale, riguardano l’accusa di ingiurie – nello specifico, si tratta di reiterati insulti che vedono l’adozione di epiteti denigratori quali quelli di “puttana”, “troia”, “cagna”. Considerando gli atti di aggressione verbale denunciati come normali manifestazioni della “gelosia maschile” e assumendo più o meno consapevolmente che le persone offese abbiano fatto qualcosa per meritarsi di essere insultate, tanto il pubblico ministero quanto l’avvocata della difesa biasimano le testimoni e chiedono loro di motivare le ragioni che avrebbero spinto gli imputati a umiliarle, denigrarle e colpirle in più occasioni con gli insulti menzionati.
Nella terza domanda, lo stesso errore è commesso dalla giudice nel valutare la testimonianza di una delle persone offese riguardo l’accusa di maltrattamenti contro famigliari. «Quindi era geloso e non voleva che lei contattasse i suoi amici». L’affermazione della giudice segue un passaggio in cui la persona offesa riferisce che veniva insultata, minacciata e costretta nella propria abitazione dal marito convivente, il quale le nascondeva le chiavi di casa e la isolava socialmente negandole l’uso di qualunque mezzo di comunicazione. La giudice, considerando le violenze descritte come una reazione “gelosa” dell’imputato alla volontà della vittima di comunicare con i suoi amici maschi, ridistribuisce la responsabilità fra le parti, con l’effetto deflagrante di attenuare la carica illecita delle condotte denunciate. L’adozione dell’argomento della gelosia da parte della giudice autorizza l’avvocata della difesa a contro-esaminare la testimone ponendole domande sulla sua vita privata e insinuando che la gelosia del marito sia stata innescata dal sospetto di un tradimento: «lei nel periodo in cui viveva a *** che vita faceva?», «suo marito poteva vedere le sue storie su WhatsApp?», e ancora: «quando è tornata a vivere con suo marito, lei usciva anche con suoi amici?».
“Una donna che flirta con altri uomini è naturale che provochi la reazione violenta del marito, ed è biasimabile”: questo l’atteggiamento che porta a ritenere contraddittoriamente la “gelosia” del soggetto imputato – qualificata come aggravante dalla Corte di cassazione[25] – un motivo per ridimensionare la gravità del fatto e per colpevolizzare la persona offesa delle violenze subite. I miti sulla colpa, come anticipato (supra, par. 2), esercitano la funzione misogina di stigmatizzare le donne che, per condotta o per appartenenza a un gruppo sociale svantaggiato, si discostano dall’inarrivabile modello della “vera vittima”[26], e di punire chi trasgredisce le norme di genere patriarcali. Tali miti, quando autorizzati e assunti in aula di giustizia, distinguono e allontanano le “brave” dalle “cattive” donne secondo criteri sessisti, razzisti, classisti, confinando la stragrande maggioranza delle persone che denunciano le violenze subite nella seconda categoria: “se flirtavi, se andavi a ballare, se chattavi con gli amici, se non gli davi attenzioni, allora è anche colpa tua”. L’adozione dei miti sulla colpa porta a pretendere che la persona offesa, oltre a convincere della veridicità della propria testimonianza, dimostri anche di meritarsi la considerazione e la tutela di chi esercita la giustizia. In tal modo, l’ascolto della persona offesa – che se condotto assumendo i miti di stupro non può che essere parziale – diviene un privilegio eccezionalmente concesso e facilmente alienabile.
4. Conclusioni
Gli esempi tratti dalle cross-examination analizzate vedono vittimizzate dal Tribunale tre donne che hanno riconosciuto la violenza subita, e che sono riuscite a denunciare i partner maltrattanti entrando in aula di giustizia da persone offese. Prima di raggiungere questo eccezionale traguardo, hanno dovuto lottare per cambiare le condizioni materiali e psicologiche che impedivano loro di uscire dalla condizione di isolamento in cui sono state costrette per anni e chiedere aiuto. Indagando i miti di stupro operativi nell’ascolto delle testimoni in aula di giustizia, è emerso quanto può essere facile per un (o una) giudice frustrare tali sforzi.
In tutti e tre i casi in oggetto, le risorse ermeneutiche e linguistiche adottate nel condurre l’esame delle persone offese si inseriscono coerentemente all’interno di un’ideologia sessista che opacizza la realtà della violenza di genere, negando spazio a risorse interpretative più accurate e disconoscendo le testimoni come soggetti epistemici competenti. Difatti, chi ha presieduto le udienze ha applicato le leggi in materia di violenza di genere secondo criteri interpretativi che hanno in parte negato intelligibilità alle esperienze di violenza vissute e comunicate dalle vittime, e in tal modo ha ostacolato queste ultime nella costituzione della prova testimoniale secondo la propria versione dei fatti.
L’analisi critica che ho proposto vuole portare l’attenzione su un problema che vede responsabili le persone che esercitano la giustizia, non solo come individui, ma anche e soprattutto come collettività. Grazie alle lotte femministe combattute e a quelle attualmente in corso per porre fine alle forme di ingiustizia che colpiscono le donne, disponiamo degli strumenti concettuali e linguistici per riconoscere e nominare la violenza di genere nella sua natura strutturale e per scardinare, anche attraverso il dispositivo della legge, le asimmetrie di potere e le pratiche sessiste e misogine ancora presenti. Chi esercita la giustizia ha la responsabilità e il dovere di integrare tali risorse nella prassi giudiziaria, abbandonando gli atteggiamenti informati da miti di stupro e pregiudizi di genere e assicurandosi di saper accogliere con imparzialità la testimonianza di chi riesce a rompere il silenzio.
1. Gruppo di esperti/e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (GREVIO), Rapporto di Valutazione di Base sulle misure legislative e di altra natura da adottare per dare efficacia alle disposizioni della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) – Italia, 15 novembre 2019, pubblicato il 13 gennaio 2020 (www.criminaljusticenetwork.eu/contenuti_img/Rapporto%20GREVIO.pdf).
2. Si vedano, in particolare, la Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale, del 2022 (www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1349605.pdf), e La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018, del 2021 (https://static.gedidigital.it/repubblica/pdf/2022/politica/relazione_femminicidio_indagini_2017_2018.pdf; www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1327971.pdf), approvate dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere.
3. Adotto qui la nozione criminologica di “vittima”, intesa come «qualsiasi persona che abbia sofferto una lesione, incluso un danno fisico o mentale, sofferenza emotiva, perdita economica o una sostanziale compressione o lesione dei propri diritti fondamentali attraverso condotte che abbiano violato norme penali» – vds. G. Dalia, La risposta del sistema processuale penale per la tutela delle vittime di violenza di genere, in Archivio penale, n. 1/2020, pp. 2-30.
4. Vds., ad esempio, F. Saccà, Stereotipo e pregiudizio. La rappresentazione giuridica e mediatica della violenza di genere, Franco Angeli, Milano, 2021.
5. Cfr. Cass. pen., sez. V, sent. 26 marzo 2019, n. 21135; Cass. pen., sez. III, ud. 19 novembre 2021 (dep. 17 gennaio 2022), n. 1559.
6. Vds. S. Haslanger, Cognition as a Social Skill, in Australasian Philosophical Review, vol. 3, n. 1/2019, pp. 5-25.
7. Nel presente lavoro, uso il termine “donna” per riferirmi a una categoria politica, includendo tutte le donne trans e cis.
8. Poiché l’identità di genere della parlante influisce sulla sua capacità di compiere felicemente un certo atto linguistico – quello di denunciare le violenze perpetrate dal marito –, da una prospettiva performativa del linguaggio l’esempio proposto costituisce un caso di ingiustizia discorsiva. Vds. R. Kukla, Performative force, convention, and discursive injustice, in Hypatia, vol. 29, n. 2/2014, pp. 440-457.
9. M. Fricker, Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing, Oxford University Press, Oxford, 2007.
10. Ivi, cap. I.
11. K. Jenkins, Rape Myths: What are They and What can We do About Them, in Royal Institute of Philosophy Supplement, vol. 89, 2021, pp. 37-49.
12. K. Jenkins, op. ult. cit., p. 38.
13. M. Fricker, Epistemic Injustice, op. cit., cap. I.
14. K. Jenkins, Rape Myths, op. cit., p. 43. In Epistemic Injustice (op. cit., p. 158), M. Fricker definisce l’ingiustizia ermeneutica come una forma d’ingiustizia epistemica, consistente nell’«avere un’area significativa della propria esperienza sociale oscurata dalla comprensione collettiva a causa di un’emarginazione ermeneutica».
15. Nel presente lavoro, assumo la definizione di misoginia proposta dalla filosofa australiana Kate Manne. Nel suo saggio (Down Girl: The Logic of Misogyny, Oxford University Press, Oxford, 2017), indagando il fenomeno della violenza di genere nelle società nelle quali si è ottenuta la parità formale fra i sessi, Manne propone di pensare alla misoginia come a un sistema di pratiche e atteggiamenti che, agendo come un “corpo di polizia”, esercita il controllo e l’imposizione del sistema sociopolitico patriarcale.
16. S. Estrich, Real Rape, Cambridge, Harvard University Press, Cambridge (MA), 1987. Di Nicola parla, a tal proposito, di «“vittima perfetta”» – vds. P. Di Nicola Travaglini, La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità dei giudici davanti alla vittima “imperfetta”, in Questione giustizia online, 20 luglio 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-corte-edu-alla-ricerca-dell-imparzialita-dei-giudici-davanti-alla-vittima-imperfetta).
17. K. Jenkins, Rape Myths, op. cit., p. 46. Sulla logica che scagiona i “bravi ragazzi” (golden boys) che violentano le donne, esonerandoli dalla categoria degli “stupratori”, vds. K. Manne, Down Girl, op. cit., p. 198.
18. Si vedano K. Jenkins, Rape Myths, op. cit., p. 44, e S. Haslanger, Cognition, op. cit., p. 14.
19. Sulla matrice sessista del Codice Rocco del 1930, vds. F. Basile, Violenza sulle donne e legge penale: a che punto siamo?, in Criminalia, 2018, pp. 463-474 (https://discrimen.it/wp-content/uploads/Basile-Violenza-sulle-donne-e-legge-penale.pdf; www.edizioniets.com/priv_file_libro/3819.pdf).
20. La Corte di cassazione ha ribadito di recente che, «secondo l’orientamento ampiamente prevalente, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico» – Cass. pen., sez. III, ud. 19 novembre 2021 (dep. 17 gennaio 2022), n. 1559.
21. Durante l’esame del Tribunale, poco prima di congedare la persona offesa, la giudice definisce ancora le violenze sessuali denunciate dalla dichiarante come «rapporti forzati».
22. La Corte di cassazione specifica che, «ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, non è necessario che la condotta sia finalizzata a soddisfare il piacere sessuale dell’agente, in quanto è sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere volontariamente» – vds. Cass. pen., sez. III, sent. 24 gennaio 2019, n. 20459.
23. La Corte di cassazione ha di recente ribadito che la fattispecie criminosa prevista dall’art. 609-bis cp comprende «qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque coinvolgente la corporeità sessuale di quest’ultimo, è finalizzato ed idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale, indipendentemente dall’appagamento da parte dell’agente di un istinto libidinoso» – cfr. Cass. pen., sez. III, 15 marzo 2022 (dep. 2 aprile 2022), n. 11624.
24. La giurista statunitense Deborah Tuerkheimer (Credible: Why We Doubt Accusers and Protect Abusers, Harper Collins, New York, 2021, p. 135), riferendosi alla diseguaglianza prodotta dall’inadeguata considerazione delle sopravvissute alla violenza e dall’eccessiva premura nei confronti degli autori di reato, parla di «care gap».
25. «La gelosia può integrare l’aggravante dei motivi abietti o futili, quando sia connotata non solo dall’abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima o un terzo che appaia ad essa legata, ma anche nei casi in cui sia espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall’agente come atti di insubordinazione» – Cass., sez. V pen., sent. 3-29 luglio 2020, n. 23075.
26. La giurista e attivista statunitense Kimberlé Crenshaw, criticando da una prospettiva intersezionale i ruoli prodotti dalle narrazioni di stupro, individua nella Madonna il prototipo della vittima perfetta – K. Crenshaw, Whose story is it anyway? Feminist and antiracist appropriations of Anita Hill, in T. Morrison (a cura di), Race-ing Justice, En-gendering Power, Pantheon Books, New York, 1992.