Cultura giuridica ed esecuzione della pena: processi decisionali in tema di misure alternative alla detenzione
I meccanismi decisionali nella concessione delle misure alternative visti attraverso il punto di vista della sociologia del diritto. L’obiettivo è l’analisi della cultura giuridica (coscienza giuridica formale, ma anche ideologia normativa) che regola l’esecuzione della pena e la discrezionalità della magistratura di sorveglianza. Emerge un preoccupante svuotamento del significato delle misure alternative, ridotte da risorsa trattamentale a premio.
Cultura giuridica ed esecuzione della pena
In introduzione vorrei spiegare qual è il genere di contributo che la sottoscritta, che evidentemente non è una professionista del diritto, un’operatrice giuridica – non sono un avvocato, non sono un magistrato, non sono un operatore del sistema penale – può offrire al tema oggetto di discussione: i meccanismi decisionali nella concessione (o meno) delle misure alternative[1]. Come studiosi e sociologi del diritto affrontiamo lo studio del diritto non tanto nella sua forma scritta, nella sua definizione normativa, quanto come pratica sociale – la dicitura che ricorre negli studi di sociologia del diritto è “il diritto come cultura giuridica”. Cosa vuol dire studiare il diritto come pratica sociale? Significa studiare il diritto come quell’insieme di operazioni concettuali che gli attori del diritto – quindi gli operatori, i magistrati, gli avvocati – praticano concretamente nel momento in cui devono prendere una decisione: nel momento in cui devono tradurre la legge, generale ed astratta, in uno strumento utilizzabile in un caso – al contrario – specifico e concreto. L’idea sottesa alle nostre ricerche è che, accanto a quella che conosciamo come coscienza giuridica formale (la normativa scritta, appunto, ma anche la teoria del diritto attorno a quelle che sono le predisposizioni normative), in realtà esista anche una “ideologia normativa”[2], un’ideologia che guida l’agire degli operatori del diritto, che ne influenza i processi interpretativi e decisionali, in quel momento cruciale in cui devono attuare questo passaggio, questa sorta di “traduzione”: trasformare la norma in qualcosa di concreto, che guidi effettivamente l’agire degli individui. Questa ideologia normativa crea a sua volta, potremmo dire così, uno “stile di pensiero” condiviso, ovvero il tipo di pensiero che gli operatori danno per scontato, quella che i sociologi chiamano la “ragione mondana”, ovvero «le pratiche di ragionamento attraverso le quali gli attori mondani riescono a ricomporre la loro credenza nella realtà sociale in presenza di definizioni contradditorie»[3].
In una prospettiva di questo tipo, che riguarda tutti gli operatori del diritto, il tema che riguarda il perché si decide, come si decide, su che criteri si decide, ovvero il tema della decisione giudiziaria, assume evidentemente un ruolo fondamentale – proprio in questa traduzione della previsione normativa nel cosiddetto “diritto vivente”[4]. Potremmo affermare che il modo in cui il magistrato argomenta si presenta come un discorso che, messo per iscritto nelle ordinanze, composto nei testi di spiegazione delle leggi, riportato nelle discussioni informali che riguardano un caso concreto, si presenta come un discorso che pretende di “persuadere un uditorio”[5], che vuole convincere.
Il nostro intento è provare ad analizzare questo discorso: attraverso l’analisi delle ordinanze, le interviste ai magistrati e agli operatori giuridici, le osservazioni delle udienze – o, nel nostro caso, parlando di meccanismi di accesso alle misure alternative – l’osservazione partecipante delle riunioni dei Gruppi di osservazione e di trattamento (Got) in cui si definiscono le cosiddette sintesi sullo stato del trattamento che poi vengono inviate alla sorveglianza. L’analisi di questo “discorso” è molto interessante principalmente per due ordini di motivi: da una parte esso ci può illuminare su quelli che sono i valori e le consuetudini proprie, condivise, tipiche dell’ambiente in cui questi operatori si muovono, e quindi anche dare un’idea di quali sono i limiti di interpretabilità di una norma, cioè fino a che punto si può rendere flessibile l’interpretazione di una norma in una direzione o in un’altra (possiamo chiamare questa “cultura giuridica interna”); dall’altra l’analisi delle ordinanze e dei testi di legge e delle pratiche della loro interpretazione può dirci anche molto su quelle che sono le influenze che gli esterni, i cosiddetti “profani del diritto” (i media per esempio, la carta stampata, ma anche i professionisti di altre discipline quali gli piscologici, i pedagogisti, gli operatori del sociale) più o meno direttamente esercitano sulla decisione giudiziaria, giustificandone o criticandone le argomentazioni, orientandone le interpretazioni, offrendo – potremmo dire – riconoscimento pubblico al discorso esperto (la cosiddetta “cultura giuridica esterna”). A volte queste influenze esterne sono previste dalla legge stessa, come nel caso degli esperti ex art. 80 o del giudice onorario nel minorile.
L’insieme di queste brevi osservazioni può ovviamente essere riportato al tema in discussione: «i processi decisionali in tema di misure alternative». Il nostro obiettivo diventa allora l’analisi della cultura giuridica che regola l’esecuzione della pena. In Italia sono pochissime le ricerche scientifiche sui processi decisionali che investono l’esecuzione della sanzione penale. Si tratta di un ambito poco investigato dalla stessa sociologia del diritto: sia in generale, nella sua forma di diritto penitenziario (con le significative eccezioni delle interessanti ricerche del collega Sarzotti[6], sia più specificatamente come pratica del giudizio relativo all’esecuzione della pena.
È un peccato perché – dal punto di vista “socio giuridico” – questi due ambiti sono davvero molto interessanti: il primo, quello del diritto penitenziario, perché illumina il fatto che anche in un ambiente apparentemente saturo di normatività qual è il carcere (leggi, regolamenti di esecuzione, circolari), in realtà le decisioni vengono assunte in maniera piuttosto indipendente dalle previsioni normative. Come la sociologia carceraria insegna, sono altri i meccanismi che regolano il funzionamento di un carcere[7]: non è certo la circolare di turno, magari arrivata dall’Amministrazione centrale senza alcuno specifico adattamento alla realtà locale, non è certo la previsione contenuta nell’Ordinamento penitenziario: la normativa viene, al limite, utilizzata a posteriori per legittimare decisioni che in realtà sono assunte sul campo per – a seconda dei casi – ridurre i rischi, garantire la sicurezza, mantenere l’ordine, legittimarsi verso l’esterno (che sia chiaro, questo accade in ogni istituzione sociale, ma nel penitenziario l’ambivalenza è particolarmente evidente perché esso si presenta come il regno della legge e dell’ordine[8].
Il secondo ambito, quello dell’esecuzione della pena di cui discutiamo, è interessante perché illumina, anche in questo caso, i limiti della legge: ovvero i limiti del riferimento normativo in quella che è stata definita l’attività di “resocontabilità”[9] delle scelte operate dagli operatori del diritto positivo. Che cosa si intende per resocontabilità? Il concetto fa riferimento appunto a quella necessità di convincere, di persuadere della bontà del proprio giudizio, di aver utilizzato bene lo spazio di discrezionalità concesso, di “aver fatto la cosa giusta”. Le nostre ricerche ci dicono che quando il magistrato deve applicare la normativa ad un soggetto specifico, ad un contesto specifico, i riferimenti che utilizza in questo tentativo di “convincere” sono spesso riferimenti di senso comune, appartengono alla “ragione mondana”, sottendono discorsi dei profani, strizzano l’occhio a concetti e narrazioni del tutto estranei al diritto. In questo l’operatore giuridico è spinto dalla necessità di giustificazione che lo investe nel momento in cui deve tradurre la previsione normativa relativa all’azione posta in essere ed emettere un provvedimento concreto o – come nel nostro caso – nel momento in cui deve “premiare” concedendo l’accesso ai cosiddetti benefici penitenziari o magari rimettendo un individuo in libertà. In altre parole, l’operatore dovrà giustificare le ragioni che stanno alla base della sua decisione affinché essa venga riconosciuta come legittima. Come ha deciso che un determinato soggetto può avere accesso ad una misura alternativa? Perché ha negato, ad un altro che (come si dice in gergo) era “nei termini”, ovvero nella condizione formale di potervi accedere, questa possibilità? Esiste una norma, esistono dei soggetti in carne ed ossa, esistono delle situazioni sociali in cui evidentemente questi soggetti sono collocati.
Esiste lo spazio di discrezionalità – o di valutazione – del magistrato che è ciò di cui stiamo discutendo: lo spazio riconosciuto alla magistratura di sorveglianza, con specifico riferimento all’ambito della concessione delle misure alternative alla detenzione. Anche in questo caso ci confrontiamo con una carenza generale di ricerca empirica qualitativa sulle pratiche giudiziarie[10]: bisognerebbe recarsi nei tribunali, bisognerebbe assistere alle discussioni dei casi, bisognerebbe leggere ed analizzare i faldoni enormi che descrivono casi e dibattimenti. Ma direi che nel caso della magistratura di sorveglianza, siamo di fronte ad una particolare marginalizzazione: questa specifica branca del giudiziario si è sempre trovata in posizione del tutto defilata rispetto ai riflettori che spesso invece hanno investito – almeno negli ultimi anni – il resto della categoria giurisdizionale[11].
Qualcosa però recentemente è cambiato, e non è un caso se l’attenzione si è concentrata maggiormente sui meccanismi decisionali che la riguardano. Sicuramente quest’attenzione è dovuta al focus istituzionale e mediatico che negli anni più recenti ha investito il carcere italiano. In un contesto di eccezionale sovraffollamento degli Istituti penitenziari (quello che come è noto ha regalato all’Italia la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo) i poco più di 200 magistrati di sorveglianza attivi nell’anno 2017 sul territorio italiano (per i dati crf. B. Perego[12]) sono diventati gli attori centrali dei provvedimenti legislativi emergenziali pensati per contenere il fenomeno, attraverso il ricorso, in funzione deflattiva, alle misure alternative al carcere (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà e, più in generale, le varie tipologie di esecuzione alternativa della condanna che negli ultimi anni sono andate affermandosi).
Processi decisionali in tema di misure alternative alla detenzione
Quello di cui intendiamo discutere sulla base delle ricerche che come sociologi del diritto stiamo conducendo sono le argomentazioni che il giudice della pena, ovvero il magistrato di sorveglianza, utilizza per legittimare le proprie decisioni in merito alla concessione o meno delle misure alternative ai condannati alla pena detentiva. Che metodo utilizziamo per questa analisi? Procediamo con un’analisi documentale delle ordinanze della magistratura di sorveglianza che giustificano la decisione di concedere o rifiutare l’accesso ai benefici e ci accorgiamo che queste ordinanze spesso restituiscono delle motivazioni (che poi vengono confermate dalle interviste rivolte a magistrati ed avvocati) che, ad un occhio esterno al diritto, risultano particolarmente problematiche. Perché?
A fini espositivi provo a proporre una lettura schematica del processo in questione: siamo di fronte a quel momento in cui ci si chiede se questa persona – che dal punto di vista normativo è “nei termini”, può avere accesso ai benefici – ma questa persona concreta, specifica, con questa particolare situazione, può effettivamente avere accesso alle misure alternative; perché va ricordato che non c’è un automatismo, è il magistrato che deve decidere se – come si dice con un linguaggio piuttosto moraleggiante – “se le merita”.
Ebbene, le motivazioni addotte a giustificare la decisione appaiono, ad un occhio esterno, problematiche per due ordini di motivi, molto diversi tra loro, a cui si aggiunge un terzo elemento trasversale.
Il primo aspetto problematico riguarda il fatto che la prima tipologia di motivazioni presenti nelle ordinanze a giustificazione delle decisioni assunte in merito alla concessione o al diniego dei benefici appare riconducibile molto spesso ad una dimensione introspettiva, una dimensione molto difficile da indagare. Faccio riferimento a valutazioni che riguardano l’effettività del pentimento, la revisione critica del comportamento delinquenziale (o come si dice “della condotta antigiuridica”), la volontà reale di adoperarsi a favore della vittima, il bisogno di cercare il perdono (sto parafrasando affermazioni che abbiamo rinvenuto nelle ordinanze che motivano le decisioni della sorveglianza)… tutti elementi che rimandano ad una dimensione psicologica profonda, che pretendono di indagare l’anima del condannato.
Il secondo aspetto problematico rinvia alla seconda tipologia di elementi di valutazione che tende a riguardare invece situazioni di mero fatto: la prospettiva di avere un lavoro una volta uscito, l’effettiva esistenza di un sostegno esterno, la disponibilità di un alloggio… elementi – questo mi sembra particolarmente interessante dal punto di vista della retorica che circonda la concessione della misura alternativa – che sono solitamente preesistenti al reato e indipendenti da esso, ma soprattutto del tutto indipendenti dalla presunta efficacia rieducativa della pena.
Riprendiamo questi due ordini di elementi di valutazione: da una parte introspettivi, psicologici; dall’altra parte meramente fattuali.
Il primo tipo di elementi di valutazione è problematico prima di tutto perché sembra avere particolari assonanze con il principio della redenzione, quindi richiama drammaticamente quell’idea di “carcere morale” di ispirazione cattolica e di rieducazione come “trasformazione dell’anima traviata” che la riforma del ’75 aveva inteso chiaramente superare, insistendo e costruendosi invece attorno ad un’idea di rieducazione come reinserimento sociale. In secondo luogo è problematico per la concettualizzazione e la narrazione che utilizza: il perdono, il pentimento, la revisione critica… l’interrogativo che sorge spontaneo leggendo i contenuti delle ordinanze è: ma che competenze può avere il professionista del diritto per indagare questo tipo di motivazione? È possibile ribattere che il magistrato deve assumere la presenza di questi elementi attraverso il ricorso alla competenza di altri operatori, quelli previsti per esempio dall’articolo 80, comma 4, della legge n. 354/1975: professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria, criminologia clinica…; quelli che partecipano alle sedute di osservazione e trattamento. Ma chi sono normalmente questi operatori? Sono lo psicologo che in un anno è riuscito a vedere il tal soggetto forse due volte, sono l’educatore – che oggi si chiama funzionario giuridico-pedagogico – che magari è laureato in scienze politiche, sono i volontari che più o meno estemporaneamente visitano il carcere, potrebbe essere il maestro di teatro o l’insegnante di turno, sono il poliziotto che dice se il tal detenuto si sta comportando in maniera adeguata (ma adeguata a cosa? Adeguata alle regole della disciplina, alle regole della cultura carceraria) (sul tema cfr. F. Vianello[13]). Insomma sono tutti operatori a cui vengono richiesti giudizi su elementi di natura molto introspettiva, profonda, senza avere, alternativamente, alcuna competenza in materia o alcuna possibilità di svolgere un’indagine accurata.
Il secondo tipo di motivazioni, invece, legate ad elementi puramente fattuali, è problematico perché si tratta della considerazione di elementi che sono molto spesso preesistenti al reato: l’estrazione sociale, la condizione sociale del soggetto, la composizione della sua famiglia, le risorse che ha a disposizione normalmente preesistono alla commissione del reato e sono del tutto indipendenti dal reato stesso, ma soprattutto sono indipendenti dall’esito di qualsivoglia trattamento rieducativo e risocializzante. Dove finisce in questo caso la pena rieducativa? Questo tipo di valutazioni chi finisce per premiare? La risposta è nota – e lo è da molto tempo[14] – coloro che hanno a disposizione delle risorse significative e quindi, tendenzialmente: niente misure alternative agli indigenti, niente misure alternative agli immigrati, niente misure alternative a chi non ha o non può dimostrare quella risorsa personale che mette insieme tutti questi elementi (di mero fatto e in particolare di disponibilità socio-economica) e che si chiama in due parole “affidabilità sociale”.
Due tipologie diverse di valutazioni quindi (introspettive e materiali) che sono per motivi diversi molto problematiche ma che finiscono per tradurre la discrezionalità normativa in ragionevolezza mondana. In fondo come si può rimproverare il magistrato che non concede la misura alternativa all’indigente, a chi non ha di che mantenersi, a chi non ha la prospettiva realistica di un lavoro all’esterno? Chi può condannare il magistrato che non concede la misura alternativa alla madre senza fissa dimora? O al minore straniero non accompagnato, o a quello a cui è stata riconosciuta una (cosiddetta) “famiglia disfunzionale”?
Ma veniamo infine al terzo elemento di problematicità, più generale se vogliamo e per questo credo meritevole di una particolare attenzione.
A risultare davvero problematico, rispetto a questo tipo di motivazioni, è il loro rapporto con quella che dovrebbe essere la ragione stessa delle misure alternative, che senz’altro la legge interpreta, come noto, in un’ottica premiale, ma che sono normativamente previste anche come strumenti in se stessi pedagogici e trattamentali, utili a configurare la prospettiva di un reinserimento sociale compiuto e duraturo. Il fatto che si ritenga opportuno concedere la misura alternativa solo a chi consideriamo abbia praticamente già espiato la sua pena, a chi consideriamo sia già stato rieducato, è una distorsione del senso, della natura, della misura alternativa che invece la legge definisce a tutti gli effetti come una pena o la continuazione di una pena e – proprio in quanto tale – come uno strumento in se stesso rieducativo e risocializzante. È vero che si prevede una premialità insita nel percorso, ma questa premialità non può spingersi fino a far dimenticare quella che è l’essenza della misura stessa: uno strumento di per sé trattamentale che accompagna verso l’esterno qualcuno che non ha ancora concluso la sua pena, né raggiunto ancora una completa rieducazione, in un percorso di accompagnamento verso la libertà che non può richiedere un percorso di rieducazione già compiuto, ma solo una progressione nella consapevolezza e nella responsabilizzazione. Potremmo spingerci fino a dire che se quel percorso fosse già compiuto la pena (detentiva o alternativa che sia) non avrebbe più ragione d’essere.
Mi permetto di concludere affermando che lo stesso livello di attenzione dovremmo riservarlo all’utilizzo di costrutti quali la “revisione critica delle condotte antigiuridiche” o “l’adoperarsi a favore della vittima di reato”, che sempre di più si presentano e sembrano avere peso nelle decisioni giudiziali che motivano l’accesso o il diniego alla misura alternativa. Sono concetti che affascinano, che tendono a sedurre, ma bisogna prestare molta attenzione. A fronte dell’impraticabilità di un reale trattamento penitenziario, questo tipo di costrutti, veicoli di una grande retorica introspettiva, vengono in realtà poi appiattiti sulla considerazione dell’esternazione di comportamenti concreti, quali l’avvicinare la vittima, l’offrire un risarcimento, lo scrivere una lettera… Essi rischiano così di fungere da copertura rispetto alla sostanziale inesistenza del trattamento penitenziario (per mancanza di risorse umane e materiali, per le condizioni del sovraffollamento carcerario, per l’estemporaneità del sostegno psicologico e delle attività messe a disposizione dei detenuti… per quella che è la situazione generalizzata del nostro carcere).
Ma soprattutto, anche in questo caso, invece di presentarsi come elementi di una valutazione in progress importata dai documenti di sintesi degli operatori o come evoluzioni da perseguire nell’accompagnamento verso e durante l’esecuzione penale esterna, questi costrutti tendono a presentarsi come elementi di cui il detenuto deve dare prova al magistrato di sorveglianza per poter sperare di accedere all’esecuzione penale esterna. Essi si trasformano così da strumenti pedagogici e trattamentali in requisiti – peraltro spesso non normativamente previsti – per l’accesso alle misure alternative alla detenzione.
Nel contesto di un sostanziale vuoto trattamentale, e nello svuotamento del significato della misura alternativa come mero “premio” invece che come risorsa trattamentale, la decisione del giudice circa l’accesso di un soggetto all’esecuzione penale esterna non può che basarsi su considerazioni altre, del tutto indipendenti dal percorso trattamentale intramurario che dovrebbe esserci ma non c’è, quali la tipologia del reato, l'ampiezza del beneficio richiesto, l’estrazione sociale del condannato e il contesto in cui è maturato il reato o in cui il soggetto deve rientrare. Ed è questo – al di là di ogni retorica – quello che effettivamente spesso sembra accadere.
[1] Relazione alla Summer School di Alta formazione sulla privazione della libertà e sui diritti fondamentali, Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e Associazione Antigone, Saluzzo 26.09.2018.
[2] E. Santoro, Diritto come questione sociale: la prospettiva della sociologia del diritto. In . Santoro (a cura di) Diritto come questione sociale, Giappichelli, Torino, 2010, IX-XVI.
[3] M. Pollner, La ragione mondana. La realtà nella vita quotidiana e nel discorso sociologico, Il Mulino, Bologna, 1995.
[4] E. Ehrlich - H. Felsen, Scienza giuridica e sociologia del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992.
[5] C. Perelman, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Presses Universitaires de France, Paris, 1958.
[6] C. Sarzotti, Codice paterno e codice materno nella cultura giuridica degli operatori penitenziari. In A. R. Favretto - C. Sarzotti (a cura di), Le carceri dell’AIDS. Indagine su tre realtà italiane, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, pp. 9-84.
C. Sarzotti, Carcere e cultura giuridica: l’ambivalenza dell’istituzione totale, in Dei delitti e delle pene, 2000,VII, 1-2: pp. 77-126.
C. Sarzotti, Il campo giuridico del penitenziario: appunti per una ricostruzione, in E. Santoro (a cura di), Diritto come questione sociale, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 181-238.
[7] A. Sbraccia - F. Vianello (a cura di), La ricerca qualitativa in carcere in Italia, numero monografico di Etnografia e ricerca qualitativa, 2/2016.
[8] F. Vianello, Nella colonia penale. Un approccio sociologico al diritto nel penitenziario. In M. Ghezzi - G. Mosconi - C. Pennisi - F. Prina - M. Reiteri (a cura di), Processo penale, cultura giuridica e ricerca empirica, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2017, pp. 139-155.
[9] H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, Torino, Einaudi, 1965; Sarzotti, 2010, cit.
[10] F. Quassoli, 2002 Il sapere dei magistrati: un approccio etnografico allo studio delle pratiche giudiziarie. In A. Dal Lago - R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 196-217.
[11] L. Scomparin, Istanze rieducative e nuovi modelli di giurisdizione penale: l'identità perduta della magistratura di sorveglianza?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2012, n. 4, pp. 1402-1424.
[12] B. Perego, Magistratura di sorveglianza, questa sconosciuta. I giudici della pena tra oblio e tutela dei diritti, in Associazione Antigone, Torna il carcere. XIII rapporto sulle condizioni di detenzione, 2017, in www.antigone.it/tredicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/.
[13] F. Vianello, Norme, codici e condotte: la cultura del penitenziario. Gli attori sociali di fronte alla criticità dell’ambiente carcerario, in Sociologia del diritto, 3/2018.
[14] G. Mosconi - M. Pavarini, Discrezionalità e sentencing penitenziario, la flessibilità della pena in fase esecutiva nell'attività dei tribunali di sorveglianza (1987-1990) in Dei delitti e delle pene, 3/1993, pp. 149-189.