Disabilità e diritto penale
L’interrogativo sui rapporti tra diritto penale e disabilità suscita riflessioni di più ampio respiro circa le scelte di politica criminale che meglio rispondono all’esigenza di assicurare al disabile non solo la miglior tutela in sede penale, ma, ancor prima, il rispetto della dignità e della libertà che spettano ad ogni persona. Partendo da un inquadramento dogmatico della funzioni del diritto penale in chiave di tutela dei “soggetti deboli”, lo scritto si prefigge di analizzare la posizione del disabile nel diritto (penale) positivo vigente per poi formulare alcune riflessioni di carattere generale in ordine all’interrogativo sull’esigenza di incentivare l’introduzione di fattispecie incriminatrici ad hoc per il soggetto debole-disabile.
Diritto penale e “soggetti deboli”
Affrontare il tema del rapporto tra diritto penale e disabilità e, quindi, chiedersi se il primo debba (o possa) riservare una particolare attenzione alla seconda presuppone la necessità di prendere posizione in ordine ad un binomio generale di più ampio respiro: quello tra diritto penale e soggetti deboli. E l’interrogativo a cui rispondere potrebbe essere il seguente: il diritto penale deve riservare una particolare attenzione ai cd soggetti deboli? Ed a questo ne segue necessariamente un secondo: è possibile profilare un modello paradigmatico e peculiare di “soggetto debole-disabile” nell’ambito del genus “soggetto debole”?
Si tratta, indubbiamente, di interrogativi che richiederebbero un’indagine ampia e complessa non solo sul piano del diritto positivo ma, anzitutto, su quello assiologico e di politica criminale, oltre che di tecnica della legislazione e che, dunque, esulano dai limiti e dagli obbiettivi delle mie riflessioni.
Peraltro, nell’economia di questo scritto, è possibile poggiare il ragionamento su taluni, pur frammentari, punti fermi, dei quali il primo è che il diritto penale ambisce ad essere un diritto della solidarietà e si legittima in forza dell’esigenza (anch’essa essenzialmente solidaristica) di colmare le disuguaglianze nei “rapporti di forza” che caratterizzano il variegato tessuto delle relazioni umane che compongono la società.
Per vagliare il fondamento di questo assunto, occorre, anzitutto, ricordare che il processo di modernizzazione del diritto penale, di matrice illuminista e liberale, è stato caratterizzato dall’approccio legato al cd contrattualismo: «le istituzioni statali traggono la loro legittimazione da un accordo liberamente stipulato tra i privati e sono, di conseguenza, finalizzate alla salvaguardia dei diritti naturali di ciascun singolo individuo. In questa prospettiva, l’utilità sociale non sarebbe altro che un riflesso o il risultato del miglior soddisfacimento dei diritti individuali»[1].
In quest’ottica, dunque, ormai da tempo si sostiene che l’intervento del diritto penale trovi legittimazione nell’essere connaturato alla salvaguardia di interessi d’importanza pari (in assoluto o in relazione alla modalità d’offesa) alla libertà che la pena (necessariamente) sacrifica: «l’illecito penale può concretarsi esclusivamente in una significativa lesione di un valore costituzionalmente rilevante»[2].
Detto altrimenti: v’è spazio per la pena (minacciata ed applicata) solo in quanto ci si trovi di fronte ad un fatto che sia espressione dell’alterazione del punto di equilibrio che l’assetto costituzionale individua tra i beni meritevoli di tutela e la libertà individuale sacrificata dalla pena stessa. Il perno su cui poggia (e che legittima) il diritto penale, dunque, è la salvaguardia della libertà di ciascuno e, dunque, in ultima analisi, dell’individuo e della sua inviolabile dignità.
Ciò vale (e deve valere), evidentemente, sia sul fronte del destinatario della pena, sia su quello del beneficiario della tutela che la (minaccia della) pena vuole garantire. Se questa conclusione è autoevidente rispetto ai reati contro la persona e, più in generale, in relazione a tutte quelle condotte criminose che si “materializzano” nei confronti di un soggetto che ne patisce le conseguenze, a prescindere dalla possibilità che questi assuma la veste di persona offesa in senso stretto (si pensi al delitto di calunnia o a quello di falsa testimonianza); la stessa può essere acquisita anche rispetto ai reati ad offensività diffusa o sovraindividuale, al cospetto dei quali non è dato scorgere (almeno non in modo palese ed immediato) la presenza di un soggetto che lamenti, su di sé, le conseguenze del torto determinato dal reato. Gli esempi potrebbero essere molteplici, ma per giustificare l’ovvietà di quest’affermazione è sufficiente por mente ai reati tributari piuttosto che a quelli ambientali: per entrambi è bensì vero che manca una “vittima immediata” del reato, ma è possibile affermare che la lesione arrecata al bene protetto dalla condotta incriminata (erario ed ambiente) si riverbera nei confronti della collettività e, dunque, dei singoli di cui questa si compone; i quali, pertanto, anche in tali frangenti, rinvengono nel diritto penale l’indispensabile strumento di tutela di beni alla cui salvaguardia anch’essi ambiscono e che, diversamente, non sarebbero in grado di preservare autonomamente.
Dunque, su queste (invero semplici e superficiali) premesse si può ragionevolmente concludere che il diritto penale, mirando a garantire il corretto equilibrio dei rapporti di forza che sovrastano e caratterizzano lo svolgersi delle attività umane, al fine di garantire il perseguimento della tutela dei beni ritenuti (in tale prospettiva) fondamentali per la collettività, costituisca una (tipica) espressione dell’approccio solidaristico dell’ordinamento alla quotidianità: la minaccia della pena è, in ultimo, lo strumento che consente a chi si trovi in posizione di debolezza nell’ambito di tali rapporti di ricollocarsi in tendenziale “parità” (quantomeno a posteriori) rispetto a chi, altrimenti, ne pregiudicherebbe gli interessi.
A tal riguardo, infatti, occorre considerare – ripercorrendo, dal punto di vista del beneficiario dell’intervento “protettivo” del diritto penale, le considerazioni sin qui sviluppate – che il reato rappresenta il momento di incontro (o, meglio, discontro) tra due soggetti: l’aggressore di un determinato interesse protetto ed il titolare (individuale o sovraindividuale) di quest’ultimo. Sicché, in quest’ottica, il diritto penale interviene sempre a tutela di un soggetto (o, forse, sarebbe meglio dire di un interesse) “debole”, che l’ordinamento intende preservare mediante la minaccia della pena; con la precisazione, semmai, che rispetto ai reati a “vittimizzazione collettiva” o “sovraindividuale”[3] la tutela si declina in via immediata in modo indistinto nei confronti della collettività, ed in via mediata (eventualmente per il tramite degli strumenti processuali e risarcitori) nei confronti di tutti coloro che, in concreto, hanno subito gli effetti dannosi dell’illecito[4].
2. La tutela “immediata” delle particolari condizioni di vulnerabilità della vittima: l’articolo 61, n. 5, cp e l’articolo 131 bis cp
Partendo, dunque, dalla presa d’atto che la vittima del reato è, di per sé, un “soggetto debole”, tale condizione assume talora un ruolo particolare nell’economia dell’illecito o della vicenda processuale in senso lato[5], in ragione dell’esigenza di maggior tutela che la stessa evidenzia e, in ogni caso, in funzione delle scelte di politica criminale di volta in volta perseguite dal legislatore.
Da un punto di vista generale e “di sistema”, sul fronte del diritto penale sostanziale, viene anzitutto in considerazione l’articolo 61, n. 5, cp (espressamente richiamato da specifiche disposizioni incriminatrici, che attribuiscono significato di circostanza speciale ad effetto speciale alle condizioni ivi descritte, v. art. 640, comma 2, n. 2 bis, cp), che prevede un aumento di pena qualora l’agente abbia profittato di circostanze di tempo, di luogo o (per quanto qui maggiormente interessa) di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa.
In questo caso, la condizione di debolezza della vittima[6] viene presa in considerazione in quanto di essa l’agente abbia “profittato dolosamente”, con la consapevolezza, quindi, di trarne giovamento nel compimento dell’azione criminosa[7]. Ne deriva – quantomeno a livello di indicazione sistematica – che il focus dell’attenzione è centrato non tanto sulla condizione di debolezza, in sé, della vittima (o, perlomeno, non solo su di essa), bensì sul fatto che la stessa sia stata in qualche modo sfruttata dall’autore del reato per avvantaggiarsi nel raggiungimento del fine criminoso perseguito. Uscendo dagli schemi linguistico-concettuali tipici della dogmatica penalistica, si potrebbe dire che, pur trattandosi di una circostanza volta a valorizzare compiutamente il dato oggettivo della ricorrenza delle condizioni specificamente considerate[8], la stessa esalta l’atteggiamento particolarmente “cinico” e “malevolo” dell’autore del reato, che non si fa scrupoli nel trarre giovamento dalle condizioni di svantaggio in cui si trovano le vittime colpite dalla propria azione criminosa.
Ulteriore conseguenza dell’aver profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima è l’inoperatività dell’articolo 131 bis cp: in tal caso, infatti, per disposizione di carattere generale, l’offesa non può mai essere considerata di particolare tenuità, indipendentemente, dunque, dall’entità della pena prevista per il reato ed a prescindere dalla ricorrenza delle ulteriori condizioni che consentirebbero l’operatività dell’istituto.
Nell’economia di queste brevi riflessioni, è utile sottolineare come l’impostazione seguita dal legislatore sia fondamentale per garantire a chi versi in tali condizioni di usufruire appieno della propria libertà: richiedendo l’abuso (o il profittamento, art. 61, n. 5, cp) si impone l’accertamento positivo della limitazione della libertà della vittima nelle circostanze di vita considerate; in tal modo evitando lo scadimento dell’intervento penale in un’ottica eccessivamente paternalista e iperprotettiva, che, di fatto, avrebbe potuto rappresentare, essa stessa, una palese violazione del diritto di autodeterminazione (e, dunque, della dignità) riconosciuto a ciascuno.
3. La tutela “immediata” della disabilità: a) la circostanza aggravante “generale” dell’articolo 36, legge n. 104/1992
La disabilità viene presa espressamente in considerazione dall’articolo 36, legge 5 febbraio 1992, n. 104, quale circostanza aggravante speciale ad effetto speciale per tutti i reati non colposi compresi nei titoli XII (delitti contro la persona) e XIII (delitti contro il patrimonio) del codice penale e di cui alla Legge 20 febbraio 1958, n. 75 (reati in materia di prostituzione).
In particolare, l’aumento di pena (da un terzo alla metà) consegue alla circostanza che tali reati siano «commessi in danno di persona portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale». Ed in presenza di tali condizioni il codice penale prevede talora una particolare reazione sanzionatoria ed eventualmente anche una più severa disciplina delle condizioni di procedibilità (v. art. 612 bis cp). Inoltre, in tali casi è dichiarata espressamente ammissibile la costituzione di parte civile del difensore civico e dell’associazione alla quale sia eventualmente iscritta la persona offesa.
Trattandosi di circostanza speciale e, soprattutto, di una normazione volta a conferire particolare rilievo alla specifica condizione della persona offesa dalla stessa indicata, l’effetto aggravatore non potrà “cumularsi” al rilievo che alla medesima condizione venga attribuito dalle singole disposizioni incriminatrici[9].
A differenza dell’ipotesi prevista dall’articolo 61, n. 5, cp (e, in genere, da quelle fattispecie che si rifanno al medesimo schema sanzionatorio), ai fini dell’aumento di pena è sufficiente che il reato sia stato posto in essere nei confronti di persona che versi nelle condizioni descritte dall’articolo 36 cit., senza ulteriori accertamenti sul significato causale da queste assunto per la commissione del reato.
In tal caso, dunque, la maggior tutela accordata dall’ordinamento opera su di un piano esclusivamente oggettivo, tralasciando qualsivoglia (espressa) valutazione dell’atteggiamento soggettivo dell’autore del reato.
4. (segue) b) Le specifiche ipotesi criminose incentrate sulla “particolare fragilità” dell’offeso
Il codice penale contempla (sin dall’impianto originario) talune disposizioni espressamente focalizzate sulla condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa dovute a peculiari situazioni di malattia, incapacità o fragilità, in senso lato.
Al riguardo, è qui sufficiente ricordare le ipotesi di cui agli articoli 574 cp (sottrazione di persone incapaci), 579, comma 3, n. 2 cp (Omicidio del consenziente), 580, comma 2, cp (Istigazione o aiuto al suicidio), 591 cp (Abbandono di persona incapace), 593 cp (Omissione di soccorso), 609 bis cp e 643 cp (Circonvenzione di incapace).
Ciò che rileva, in questa sede, è porre in evidenza che, a fronte del tendenziale allargamento del raggio operativo dell’intervento penale sino a ricomprendervi le aggressioni alle “mere” condizioni di “deficienza” della vittima (in assenza, dunque, dei crismi della malattia) connesse alle peculiari condizioni fisio-psichiche riportabili ad una nozione lata di disabilità, è sempre richiesto che le stesse abbiano assunto un ruolo causale nella determinazione del reato.
Detto altrimenti: la mera presenza delle condizioni di minorata difesa della persona offesa non è di per sé sufficiente ad innalzare il livello di tutela assicurato a quest’ultima e, di converso, per inasprire la reazione punitiva nei confronti dell’agente, ma si chiede che quest’ultimo se ne sia in qualche modo approfittato (o, meglio, avvantaggiato) per raggiungere lo scopo criminoso che si era prefissato.
In particolare, le condizioni di minorata difesa della vittima giocano un ruolo determinante per la sussistenza del delitto di cui all’articolo 609 bis cp: l’induzione a compiere o subire atti sessuali costituisce reato se posta in essere abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica in cui versava il destinatario al momento del fatto.
Anche in tal caso, peraltro (secondo lo schema adottato dall’art. 61, n. 5, cp), non è sufficiente la mera condizione di inferiorità, ma è necessario che di questa l’agente abbia abusato; ovverosia è necessario che l’induzione si realizzi mediante un’opera «di persuasione sottile e subdola», per mezzo della quale l’agente spinga, istighi o convinca la persona offesa, che si trova in stato di inferiorità, «ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto»[10].
Altra espressione plastica di quest’impostazione è fornita dall’articolo 643 cp, la cui operatività è vincolata non solo all’esistenza della (mera) deficienza del circonvenuto, ma all’individuazione di un collegamento causale tra tale condizione (indotta da qualunque fattore scatenante, di carattere patologico o no) e la disposizione patrimoniale (dannosa) compiuta per effetto della condotta posta in essere dall’agente; nonché, alla conoscenza che questi abbia avuto di tale deficienza e dell’influenza che la stessa ha assunto per il compimento dell’atto pregiudizievole.
Sicché, anche rispetto a tali ipotesi resta confermato il primato che l’ordinamento assicura alla libertà di autodeterminazione (e, dunque, si ripete, alla dignità) di ciascun individuo, scongiurando il rischio che giudizi preconcetti sull’influenza della (reale o apparente) debolezza determinata dalle condizioni di inferiorità fisio-psichica del beneficiario della tutela si traducano, in realtà, in un’ingiustificata ed aprioristica sovrapposizione dei criteri di valutazione dell’ordinamento rispetto a quelli delle persone direttamente coinvolte nelle condizioni di vita (per quanto difficili) poste in giudizio[11].
5. La tutela “immanente” nella corretta interpretazione delle fattispecie criminose
La recente esperienza giudiziaria, invero, ha fornito taluni esempi significativi di come per tutelare adeguatamente i portatori di disabilità non sia necessario ricorrere (quantomeno non necessariamente) a specifiche previsioni incriminatrici ad hoc.
Si allude, anzitutto, al caso di un automobilista condannato per il delitto di cui all’articolo 610 cp per aver utilizzato uno spazio riservato alla portatrice di una grave patologia motoria, impedendole di farne uso fino alla rimozione dell’autovettura del primo.
Nel motivare il giudizio di condanna, i giudici (di merito e di legittimità) hanno valorizzato non tanto le condizioni di disabilità del beneficiario della tutela, quanto la portata operativa della fattispecie incriminatrice, che è stata interpretata rispettandone non solo i limiti imposti dai (classici) canoni di legittimità e determinatezza che governano il sistema penale, ma, anzitutto, quelli (parimenti importanti) di uguaglianza e ragionevolezza del sistema punitivo (e, più in generale, dell’ordinamento nella sua interezza e complessità).
Per rendersene conto è sufficiente richiamare il passaggio motivazionale della decisione della Suprema corte con cui si è evidenziato che «se lo spazio fosse stato genericamente dedicato al posteggio dei disabili la condotta del ricorrente avrebbe integrato la sola violazione dell’articolo 158, comma 2, Codice della strada […]. Ma in questo caso, quando lo spazio è espressamente riservato ad una determinata persona, per ragioni attinenti al suo stato di salute […], alla generica violazione della norma sulla circolazione stradale si aggiunge l’impedimento al singolo cittadino a cui è riservato lo stallo di parcheggiare lì dove solo a lui è consentito lasciare il mezzo»[12].
Pur non essendo questa la sede per approfondire e commentare i singoli passaggi argomentativi su cui si regge l’impostazione in tal senso adottata (in primis la ricostruzione della nozione di violenza e minaccia che caratterizza l’operatività dell’art. 610 cp)[13], è interessante sottolineare come il presupposto ermeneutico che ne ha sorretto le conclusioni sia stato individuato nella “normale” riconducibilità della situazione di vita analizzata nell’orbita di quelle “ordinariamente” tutelate dalla fattispecie incriminatrice: la possibilità di ravvisare nel comportamento incriminato la lesione del diritto, indipendentemente dall’origine e dall’oggetto di quest’ultimo.
Altro esempio significativo di tutela della disabilità a prescindere dalla necessità di ricorrere a disposizioni “speciali” è fornito dalla pronuncia con cui il Tribunale di Torino[14] (confermata dalla Corte di appello e dalla Corte di cassazione[15]) ha condannato per il delitto di cui all’articolo 340 cp il conducente di un autobus del servizio pubblico che si era rifiutato di aprire la pedana manuale che avrebbe consentito ad un disabile, munito di carrozzina a motore, di salire a bordo del veicolo e di scendere dallo stesso.
Anche in questo caso, il dato saliente dell’impianto decisionale è rappresentato (almeno per quanto qui interessa) dall’inclusione della fattispecie considerata nell’alveo di quelle “normalmente” ricomprese nella disposizione incriminatrice, pur valorizzando gli aspetti peculiari della situazione concretamente posta al vaglio della Magistratura.
In particolare, risulta degno di nota che il dato della disabilità fosse stato originariamente valorizzato (peraltro in modo eccessivo e con le storture poste in evidenza dalla decisione di merito) al fine di contestare il delitto di rifiuto di atti d’ufficio, sul presupposto che la condotta incriminata concernesse un atto che avrebbe dovuto essere compiuto, senza ritardo, per ragioni di sanità.
Nel mettere in evidenza la forzatura di una simile conclusione, i giudici di merito hanno focalizzato l’attenzione non tanto sulle condizioni dell’utente disabile, quanto sulle conseguenze che la condotta incriminata ha determinato sul regolare svolgimento del servizio pubblico (si direbbe, a prescindere dalle condizioni del soggetto che, più di altri, ne ha patito le conseguenze).
Abbandonando l’impostazione su cui poggiava la contestazione originaria (che il Tribunale ha significativamente definito come «visione “pan-sanitaria”» della vita di un disabile»), si è posto in evidenza come, nel caso concreto, ad essere leso non fosse (solo) il particolare diritto dell’utente-disabile, bensì, primariamente, la regolarità dello svolgimento del servizio pubblico, che, secondo l’orientamento tradizionale, rileva penalmente purché l’alterazione, seppur temporanea, sia «oggettivamente apprezzabile»[16].
Riflessioni conclusive
Al termine di queste brevi considerazioni, è possibile riprendere gli interrogativi iniziali per tentare una (pur superficiale e provvisoria) risposta: non solo non si avverte la necessità di un intervento punitivo (o di rafforzo delle incriminazioni vigenti) incentrato sulla disabilità, ma un simile approccio potrebbe risultare addirittura fuorviante e pericoloso.
Oltre ad evidenziare la tendenziale “completezza” del sistema punitivo esistente, a destare attenzione è la necessità di garantire al massimo grado la dignità (e la conseguente libertà) di ciascuno, evitando di dar corpo ad un modello sanzionatorio discriminatorio e lesivo per la possibilità di autodeterminazione proprio delle persone che si vorrebbero tutelare.
L’esempio paradigmatico, pur con i necessari distinguo, è fornito dall’esperienza maturata sotto la vigenza dell’articolo 519, comma 2, n. 3 cp, che, adottando un’impostazione comunemente considerata aberrante, ravvisava una vera e propria presunzione di abuso nel rapporto sessuale consumato con un soggetto che versasse, in quel momento, in una delle condizioni di inferiorità contemplate dalla fattispecie[17].
Del resto, la possibilità di configurare fattispecie criminose ad hoc (o mere circostanze aggravanti) incentrate sul solo dato della disabilità (al di là di ogni altra considerazione da condursi sotto il profilo della compatibilità con l’articolo 27 della Costituzione, nelle sue varie declinazioni, oltre che con i canoni di extrema ratio che dovrebbero guidare il ricorso all’intervento penale), potrebbe tradire una duplice stortura: da un lato, l’idea che la disabilità sia di per sé una condizione invariabilmente lesiva della capacità di “autotutela” di chi ne sia portatore (tanto da assumere come “presunta” la necessità di un intervento volto a “riequilibrare” i rapporti “di forza” nelle relazioni umane con cui il disabile si confronti); dall’altro, la tentazione di “scaricare” sul legislatore la responsabilità delle scelte potenzialmente “scomode” o “impopolari” derivanti dall’applicazione delle disposizioni vigenti alle situazioni di vita in esame.
Non v’è dubbio che se vi fosse una disposizione “speciale” che sancisse la rilevanza penale dell’omesso intervento del conducente nell’agevolare l’utilizzo del mezzo pubblico da parte dell’utente disabile si eviterebbe ogni disquisizione in merito alla rilevanza assunta, nella fattispecie concreta, dalla disabilità. Ma il prezzo da pagare sarebbe alto e consisterebbe non solo nell’escludere che il disabile possa essere considerato alla stregua di qualsivoglia altro utente del servizio pubblico a cui venga ingiustamente impedito di farne uso; ma anche ammettere che il procedimento penale non è in grado di farsi carico di scelte “scomode” ma coerenti con i principi che lo governano. E gli esempi citati dimostrano che ciò non solo non deve accadere, ma che, in concreto, almeno in questi casi, non è accaduto.
[1] G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte generale, rist. agg., Zanichelli, Bologna, 2006, XVII.
[2] F. Bricola, Teoria generale del reato, oggi in F. Bricola, Scritti di diritto penale, vol. I, tomo I, Giuffrè, Milano, 1997, p. 565.
[3] Su questi temi, v. L. Parlato, La parola alla vittima. Una voce in cerca di identità e di “ascolto effettivo” nel procedimento penale, in Cass. pen. 2013, p. 3293.
[4] Una plastica esemplificazione di tali situazioni è rappresentata dai reati di mafia o di terrorismo: rispetto a tali tipologie di reato, che indubbiamente attaccano alle fondamenta l’organizzazione dello Stato e le regole di convivenza civile, la figura della vittima abbandona (o, quantomeno muta o può mutare) la propria conformazione individualistica ed assume una dimensione collettiva, rispecchiando l’oggettività giuridica che ne costituisce l’essenza.
[5] Sulla posizione della vittima vulnerabile nel processo penale, v. M. Bargis - H. Belluta (a cura di), Vittime di reato e sistema penale, Giappichelli, Torino, 2017.
[6] Condizione che deve preesistere, sicché la circostanza è integrata per il solo fatto della ricorrenza delle condizioni indicate dall’art. 61, n. 5, cp, con l’ulteriore precisazione che è irrilevante che siano maturate occasionalmente o indipendentemente dalla volontà dell’agente: ex multis, Cass. pen., Sez. I, 30 novembre 1996, n. 10268).
[7] Per tutte: Cass. pen., Sez. I, 16 maggio 2013, n. 13387.
[8] In tal senso, v., per tutte, Cass. pen., Sez. II, 8 luglio 2004, n. 44624.
[9] Cass. pen., Sez. III, 8 gennaio 2015, n. 19172, pronunciatasi in relazione alla compatibilità (negata) della circostanza in esame con l’art. 609 bis, comma 2, n. 1cp.
[10] In tal senso, ex multis, Cass. pen., Sez. III, 14 aprile 2010, n. 20766.
[11] Impostazione diametralmente opposta rispetto a quella originariamente seguita dal codice penale in merito alla tutela del disabile rispetto alle determinazioni inerenti la propria sfera sessuale.
[12] Cass. pen., Sez. V, 7 aprile 2017, n. 17794.
[13] Su questi aspetti si rinvia a D. Perna, Parcheggio dell’automobile nello spazio riservato a persona disabile e violenza privata, in Ilpenalista.it, 25 maggio 2017.
[14] Trib. Torino, Sez. III penale, 16 luglio 2014.
[15] Cass. pen., Sez. VII, 12 aprile 2018, n. 21440.
[16] Per tutte, v. Cass. pen., Sez. VI, 9 aprile 2013, n. 39219.
[17] In argomento, per tutti, v. A. Cadoppi, Commento all’art. 609 bis cp, in A. Cadoppi (a cura di), Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, IV ed., Cedam, Padova, 2006, pp. 439 ss.