Introduzione.
La fine era nota: storia di una riforma minima
I decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre 2018 condensano la riforma penitenziaria. Il legislatore delegato ha svilito il contenuto di ampio respiro della legge delega e dei primi schemi elaborati dalla Commissione Giostra. A fronte di poche disposizioni sulla vita intramuraria, la riforma tace sulle misure alternative. È un silenzio imposto da parole d’ordine delle politiche penali repressive, a partire da una malintesa “certezza della pena”.
1. Un destino annunciato
Questo obiettivo avremmo voluto dedicarlo a una riforma penitenziaria.
Il complesso disposto della legge delega 103/2017 – a sua volta scaturito dalla più ampia esperienza degli Stati generali dell’esecuzione penale –, al contrario, è stato svilito dai decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre 2018, pubblicati in Gazzetta Ufficiale il 26 ottobre ed entrati in vigore il 10 novembre 2018 (a questi si accompagna il decreto n. 121, interamente dedicato all’esecuzione della pena nei confronti dei minori).
I due decreti recano l’insegna riforma nel titolo, ma di questa non hanno la sostanza e il respiro. Al più, come ha scritto Marcello Bortolato nel suo commento analitico – che proponiamo come brano di apertura –, si tratta di una riforma a metà, con qualche luce e con molte ombre e carenze.
Gli spiragli positivi che magistratura, avvocatura e operatori del penitenziario dovranno valorizzare sono legati ai pochi lasciti del lavoro della Commissione Giostra e riguardano una migliore organizzazione dei presidi di tutela della salute dei detenuti (in termini di responsabilizzazione del servizio sanitario nazionale, di tempestività delle cure e di continuità rispetto ai trattamenti ricevuti all’esterno), una normativa antidiscriminatoria più cogente, l’irrobustimento del principio di prossimità geografica della pena al luogo nel quale si svolge la vita relazionale e affettiva del condannato, la ridefinizione del trattamento in termini di partecipazione attiva e responsabilizzante del detenuto. Compare poi tutta una serie di analitiche disposizioni che riguardano la vita detentiva e che, salvo il non trascurabile rilievo che alcune di esse entreranno in vigore nel 2021, appaiono idonee a favorire una miglior qualità della vita dei ristretti.
Sono proprio le omissioni, però, a stravolgere il senso dell’originario impianto legislativo e a delineare la curvatura ideologica regressiva di questa novella.
Non vi è dubbio che i decreti rispondano agli obiettivi dello schieramento politico che attualmente dirige il Paese e al tenore del Contratto per il governo del cambiamento, nel quale si legge, al paragrafo 12, che «per garantire il principio della certezza della pena è essenziale riformare i provvedimenti emanati nel corso della legislatura precedente tesi unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari, a totale discapito della sicurezza della collettività».
Che la fine fosse nota, per ricalcare il titolo del romanzo di Holiday Hall, tuttavia, era chiaro a tutti fin dal momento in cui il più esteso progetto di aggiornamento dell’Ordinamento penitenziario – dopo la legge Gozzini del 1986 – fu colpevolmente abbandonato dalla stessa maggioranza politica che lo aveva coltivato per motivi di (errati) calcoli elettorali. In prossimità dell’appuntamento elettorale del 4 marzo 2018, infatti, il Consiglio dei ministri presieduto dall’onorevole Gentiloni (era il 22 febbraio) congelò lo schema di decreto che ridisegnava l’Ordinamento penitenziario.
Si trattava di un testo già depotenziato da alcune rivisitazioni al ribasso e dall’estromissione di ogni profilo inerente alla tutela dell’affettività dei detenuti, ma da quel momento in poi il processo di attuazione della legge delega, come naturale e fisiologico, si è dovuto confrontare con l’ideologia penale della nuova maggioranza. È iniziata, così, un’ulteriore storia di sottrazioni, amputazioni e rimescolamenti, fino ad arrivare ai testi dei decreti sopra citati.
Sia chiaro: il giudizio sulla stessa legge 103/2017 non può non essere influenzato in negativo dalla rinuncia di quest’ultima ad intervenire, se non in maniera molto limitata e parziale, sull’ergastolo ostativo. Allo stesso modo, nella valutazione complessiva, pesa l’abdicazione totale a ricomprendere i detenuti sottoposti al regime differenziato previsto dall’art. 41-bis nella riforma delle condizioni dell’esecuzione penale intramuraria.
Nonostante questi aspetti, la matrice culturale che animava il tessuto normativo della delega e dei primi schemi di decreto avrebbe potuto imprimere un’inversione di rotta a una stagione di interventi sulla penalità penitenziaria caratterizzati da scelte puntiformi ed estemporanee, tutte nella scia dell’alternativa secca tra tolleranza zero e deflazione del sovraffollamento. Avremmo avuto, come usa dire in economia, una riforma anticiclica.
Quello che ora rimane sul tappeto, invece, è davvero poco.
Per l’ennesima volta hanno vinto le parole d’ordine delle politiche penali repressive. Arrivano direttamente – anche se in ritardo, come si avrà modo di dire – dagli Stati Uniti d’America: Tough on crime and its causes, Prison works. Il carcere funziona.
Alle nostre latitudini abbiamo un altro ritornello, frutto di un fraintendimento rimosso anche da alcuni settori della magistratura: certezza della pena. Sono nette le parole di Glauco Giostra, presidente della Commissione per la riforma penitenziaria nel suo complesso, nel vivace dialogo con Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza: «La parte qualificante della riforma è stata ufficialmente sacrificata sull’altare della certezza della pena».[1]
Da qui occorre partire per capire la misura del fallimento.
2. Pena uguale carcere
Il vero punto di forza della prospettiva di cambiamento delineata dalla legge 103/2017, recepita dagli schemi elaborati dalla Commissione Giostra, era strettamente connesso ai principi e criteri direttivi volti a rimodulare le modalità e i presupposti di accesso alle misure alternative, al fine di facilitare il ricorso alle stesse ed eliminare – con le eccezioni della criminalità organizzata, del terrorismo e dei casi di eccezionale gravità e pericolosità – quegli automatismi che impediscono o ritardano l’individualizzazione del trattamento, la valutazione del concreto recupero sociale del condannato da parte di un giudice e, all’esito, l’accesso a percorsi di effettivo reinserimento sociale extramurari.
Non è possibile (né utile) affrontare in questa sede il tema della mancanza di coraggio dimostrata dal legislatore delegante nel farsi carico solo parzialmente del problema degli automatismi e nel lasciare senza risposta la questione gravissima dell’ergastolo ostativo (più in generale delle pene ostative). Altre e più approfondite riflessioni dovranno essere svolte su questo tema e la frase non vuole essere di circostanza per rinviare un dibattito che, ormai, è ineludibile, come testimoniato dal fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo dovrà pronunciarsi per la prima volta sulla compatibilità convenzionale della previsione italiana in punto di ergastolo senza right to hope (caso Viola c. Italia).
Quel che preoccupa è che gli attuali decreti legislativi, pur nella certezza di non dover intaccare le presunzioni di pericolosità in materia di mafia e terrorismo, hanno spazzato via ogni aspetto riguardante il potenziamento delle misure alternative e hanno riproposto la più pericolosa delle equazioni: pena uguale carcere.
Il vento che è spirato è quello della certezza della pena, intesa nel suo aspetto deteriore di inflessibilità della stessa e di inalterabilità della sanzione irrogata in sentenza, da espiare in carcere dal primo all’ultimo giorno. Una formula ultimativa – come la definisce Fabio Gianfilippi – che non lascia spazio a riflessioni sul contenuto costituzionale delle pene.
Sorprende che questa formula riprenda vigore nel dibattito pubblico italiano (anche in quello degli specialisti) nello stesso momento in cui la sua efficacia viene messa in crisi, almeno sotto il profilo dei rapporti costi/benefici, persino negli Stati Uniti, Paese apripista delle politiche basate sulla dottrina prison works. Uno studio recente della Rand Corporation (di certo non un’associazione con finalità di tutela dei diritti dei detenuti) ha calcolato che investire centocinquantamila dollari in programmi di lavoro e misure alternative per cento ipotetici detenuti comporta un risparmio di un milione di dollari in tre anni sui costi legati alla recidiva e alla re-incarcerazione. Sull’onda di queste analisi – nonché di ulteriori valutazioni legate all’effetto criminogeno della penalizzazione dei reati di droga non violenti – il Presidente Trump ha più volte manifestato l’intenzione di approvare una mini-riforma penitenziaria che si ponga l’obiettivo di aumentare le alternative al carcere[2].
In Italia, al contrario, l’idea vincente è ancora quella che considera pena autentica solo quella espiata in carcere e reputa la misura alternativa, il famoso beneficio, un premio da elargire a una ristretta schiera di eletti.
Si tratta, tuttavia, di un’idea contraria alla Costituzione, come ripeteva Alessandro Margara, lungimirante anche nel profetizzare che repetita non iuvant[3]. La riforma del 1975 nasceva dal rifiuto del modello di esecuzione penale rigido e quel rifiuto era, per così dire, costituzionalmente obbligato, in quanto scaturiva dalle disposizione dell’art. 27, comma terzo, della Carta.
È da tale precetto, come ha chiarito la celebre sentenza 204/1974 della Corte costituzionale, che «sorge il diritto per il condannato a che, verificatesi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto al suo fine rieducativo» e che nasce, di pari passo, la necessità che tale diritto trovi «una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale».
Pena flessibile e decisione discrezionale della magistratura di sorveglianza, di conseguenza, sono le due facce di un’unica medaglia: quella del finalismo rieducativo della pena. L’originaria impostazione della riforma, pur con i limiti sopra evidenziati, avrebbe dovuto incidere sull’ampliamento di questi due lati simmetrici dell’esecuzione, ridando linfa a un sistema penale sfigurato da una serie di interventi normativi introduttivi di automatismi, preclusioni assolute e sbarramenti alla misure alternative. Si tratta di novelle che, troppo spesso senza una ragione criminologica, hanno minato man mano la parità dei condannati nell’accesso alle misure alternative, hanno impedito l’individualizzazione del trattamento e hanno umiliato la discrezionalità della magistratura.
Automatismi e preclusione di legge privano il giudice della possibilità di valutare il merito delle istanze e il contenuto dei percorsi di reinserimento; di pronunciare, anche, un “no” in grado di orientare la condotta e la progettualità dei condannati.
I decreti legislativi che ci troviamo a commentare non si discostano da quest’ottica riduzionista, nonostante la Corte costituzionale – con la pronuncia 149 del 21 giugno 2018, emessa mentre il Parlamento si apprestava a disarticolare l’impianto riformatore – abbia anche di recente ribadito il volto costituzionale della pena: «la particolare gravità del reato commesso» ovvero «l’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti delle generalità dei consociati […] nemmeno possono, nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società (sentenza 450 del 1998), e da declinarsi nella fase esecutiva come necessità di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco dell’espiazione della pena».
Quello che occorre chiedersi, comunque, è perché l’equazione pena uguale carcere, oltre ad essere incostituzionale, neppure funzioni dal punto di vista della prevenzione del crimine.
La risposta più chiara l’ha fornita Andrea Pugiotto, citando Gustav Rabruch: la ricetta di rendere sociale il soggetto antisociale inserendolo in contesti asociali è efficace quanto quella di insegnare a nuotare fuori dall’acqua[4]. Il carcere, da solo, non è luogo adatto a munire il condannato di quel patrimonio di risorse personali e sociali che soltanto in ambiente possono essere utilmente acquisite. Confinare tutta l’esecuzione all’interno della galera, anche nei casi di gravità non eccezionale, significa rinunciare a serie prospettive di reinserimento e, dunque, a una positiva trasformazione della società nel suo complesso.
Queste conclusioni, peraltro, non si muovono in un vuoto di esperienze e non possono essere decontestualizzate. Nascono anche dal confronto con il carcere come lo conosciamo. In altri termini, bisogna fare i conti con questa galera.
3. Una questione di numeri...
La perdurante rinuncia a una seria politica del carcere, nel nostro Paese, è testimoniata anche dai numeri.
Non si intende riproporre la ormai consueta rilevazione sull’efficacia delle misure alternative rispetto al carcere in termini di abbattimento del tasso di recidiva.
Appare più appropriato porre l’attenzione su altri dati, di per sé concludenti e che scaturiscono dall’indagine sulla realtà della pena penitenziaria. Per esplorare la concretezza del penitenziario si possono utilizzare in modo proficuo le preziose e aggiornate informazioni del Quattordicesimo rapporto sulle condizioni di detenzione, curato dall’associazione Antigone e pubblicato nel 2018[5].
Un primo esempio può essere tratto dall’analisi delle risorse destinate all’azione rieducativa.
Come è noto, all’interno del carcere l’osservazione della personalità e la formulazione del programma di trattamento individualizzato sono compiti affidati ai funzionari dell’area giuridico-pedagogica, meglio noti come educatori. Occorre vedere da vicino, tuttavia, in quali condizioni sono costretti a lavorare.
Nel 2016 e nel 2017 le piante organiche del personale non in divisa dell’Amministrazione penitenziaria sono state ulteriormente ridotte e allo stato – tolto il personale dislocato presso l’Amministrazione centrale – sono circa 931 gli educatori che si dovrebbero occupare di una popolazione detenuta che, al 31 ottobre 2018, è tornata a registrare 59.803 persone ristrette.
Tradotto in cifre ancora più stringenti questo vuol dire: una media di 62/63 detenuti per educatore e otto giorni lavorativi per parlare (semplicemente parlare) con tutti i detenuti, ammettendo un’ora di tempo dedicato al colloquio con ciascun detenuto e il contemporaneo servizio di tutti i funzionari.
Le cose, tuttavia, stanno persino peggio di così: l’organico pieno è un miraggio in quasi tutti gli Istituti e il rapporto effettivo detenuti/educatori si attesta sulla soglia di 100 a 1. La stessa Amministrazione penitenziaria ha messo nero su bianco questi numeri, trasformandoli in qualcosa di auspicabile: un educatore per cento detenuti nelle Case circondariali; uno per cinquanta nelle Case di reclusione, quelle che dovrebbero funzionare a maggiore intensità trattamentale.
Le cose non cambiano se guardiamo ad altri indicatori.
Colpisce il fatto che, a fronte della presenza di circa 21.000 detenuti stranieri, il numero dei mediatori culturali sia di appena 66, organico incrementato soltanto grazie all’impegno di quello che Margara definì il carcere della resistenza, ovvero volontari o professionisti che lavorano grazie a Convenzioni con Enti pubblici e privati.
Non gode di miglior salute il ruolo dei direttori. A febbraio 2018 – i dati sono tratti sempre dall’accurato rapporto di Antigone – i direttori sono 151 a fronte di 189 istituti. Circa ventiquattro direttori sono responsabili di due istituti, alcuni di tre. Difficoltà oggettive che parlano da sole. Parlano, soprattutto, di una delega di fatto della direzione degli Istituti ai Comandanti di polizia – che devono svolgere altri e delicati compiti – e questo, laddove i direttori devono dividersi tra più carceri, senza attendere gli effetti di un’accreditata (ma deleteria) prospettiva di riforma che vuole confinare la dirigenza civile in ruoli ad esaurimento per canalizzare la funzioni di direzione degli Istituti all’interno dei ruoli della Polizia penitenziaria.
Questa breve rassegna di cifre ci restituisce un’immagine del penitenziario come istituzione in sofferenza. Una sofferenza che, a dispetto dei proclami, non è alleviata dai decreti in questione, che sui problemi strutturali appena accennati non intervengono. Al contrario, alcune previsioni sembrano aggravare i difetti dell’istituzione, ma qui il ragionamento deve spostarsi dai numeri ai sistemi.
4. ...e di sistemi
Le disposizioni in tema di sorveglianza, lavoro e salute mentale in carcere si rivelano particolarmente utili per capire a quale modello di prigione il legislatore ha fatto riferimento nel portare a termine l’attuazione della delega.
Gli schemi dei primi decreti legislativi, abbandonati dall’attuale maggioranza politica, contenevano una previsione che incideva a fondo sul trattamento penitenziario e stabiliva che «la sorveglianza delle persone detenute avviene nel rispetto dei principi indicati nelle regole del Consiglio d’Europa e con modalità tali da consentire ai detenuti e agli internati di trascorrere parte della giornata fuori dalle aree destinate al pernottamento anche al fine di favorire i rapporti interpersonali e l’osservazione del comportamento e della personalità». Sarebbe stato il nuovo comma 6 dell’art. 1 dell’Ordinamento penitenziario e (art. 1, comma 6, ord. penit.) e avrebbe concretato il parametro della lett. r della delega, avente ad oggetto la «previsione di norme volte al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, la sorveglianza dinamica».
Non era una previsione nata dal nulla, poiché scaturiva – oltre che dalle Regole penitenziarie europee – da riflessioni approfondite sulla comparazione, in termini di efficacia risocializzante e di prevenzione del rischio di recidiva, tra regimi penitenziari “a celle aperte” e regimi chiusi. L’indiscutibile vantaggio dell’adozione di sistemi aperti emerge in modo nitido dallo studio – proposto in questo obiettivo – che Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni hanno condotto confrontando l’espiazione della pena a Bollate, carcere aperto per eccellenza, con quella effettuata in altri Istituti. Dall’applicazione di un metodo statistico rigoroso, tale da eliminare tutte le possibili fallacie e distorsioni di cui sono accusate le proiezioni in materia di recidiva, emerge un risultato univoco: «la sostituzione di un anno in un carcere “chiuso e duro” con un anno in un carcere “aperto e umano” riduce la recidiva di 6-10 punti percentuali»[6].
Nonostante queste conclusioni, i decreti legislativi in commento eliminano la previsione della sorveglianza dinamica e del regime aperto, muovendosi così in direzione contraria rispetto all’obiettivo di garantire più sicurezza sociale.
È un’omissione che tratteggia l’ideologia afflittiva che ha animato coloro che hanno tradotto in legge il percorso riformatore e che non offre alla prigione neppure la possibilità di munirsi di regimi e moduli organizzativi efficaci anche in caso di carenze di organico.
Altro intervento sintomatico dell’insufficienza della riforma è quello che attiene alle disposizioni attinenti al lavoro.
Non vi è dubbio che l’eliminazione della qualifica di obbligatorietà del lavoro penitenziario cancella gli aspetti di odiosa afflittività da sempre collegati al lavoro in carcere (salva la verifica della compatibilità con le disposizioni del codice penale rimaste intatte sul punto, come ben messo in rilievo dal commento di Marcello Bortolato).
Deve essere evidenziato, tuttavia, che l’approdo di questa riforma scommette in gran parte sul lavoro di pubblica utilità, al quale è dedicato il nuovo art. 20-ter. Si tratta del nuovo articolo che implementa le attività “a titolo volontario e gratuito” svolte in favore di “Amministrazioni dello Stato, Regioni, Province, Comuni” ed altri Enti di assistenza sociale e volontariato, ovvero in favore della stessa Amministrazione penitenziaria.
Ora, sebbene ogni esperienza lavorativa e dinamica sia preferibile all’inerzia nelle camere detentive, deve essere sottolineato che l’implementazione degli spazi del lavoro gratuito e volontario appare in conflitto con l’impostazione sottesa alla riforma del 1975, che intravedeva nel lavoro penitenziario lo strumento principale di reinserimento e riscatto sociale. Appare fin troppo evidente, anche alla luce del complessivo disegno costituzionale, che tale compito può essere assolto soltanto da un lavoro remunerato, contrattualizzato e tale da favorire il più possibile la continuità del rapporto o la spendita delle abilità e delle competenze dopo la fuoriuscita dal circuito detentivo.
Il risalto al lavoro di pubblica utilità – in questo caso ascrivibile anche all’impostazione originaria della riforma – sembra il tributo a una retorica del lavoro gratuito del detenuto come passaporto per ritrovare riconoscenza sociale e liberarsi dallo stigma della colpevolezza.
Insomma, siamo ben lungi dal colmare quello scarto tra lavorante e lavoratore che, a livello sostanziale e terminologico, segna la distanza enorme tra lavoro ristretto e lavoro libero[7].
Dai decreti, dunque, esce il quadro di un sistema penitenziario che continua a mantenersi chiuso e ripiegato su stesso.
Esemplare di questa introflessione è l’amputazione – ben raccontata in questo approfondimento da Marco Pelissero, presidente della Commissione dedicata a questa tematica – subita dal processo riformatore in materia di tutela della salute mentale.
La deformazione delle proposte originarie è passata attraverso l’esclusione della possibilità di disporre il rinvio facoltativo della pena nei confronti di persone affette da gravi infermità psichiche, la mancata recezione di misure alternative terapeutiche per i sofferenti psichici, sul modello di quelle previste per tossicodipendente e alcoldipendenti (sarebbe stato il nuovo art. 47-septies), l’obliterazione dell’innovazione riguardante la costituzione di Sezioni a prevalente o esclusiva gestione sanitaria per i detenuti con seminfermità mentale o infermità sopravvenuta. E così – in un carcere devastato dal problema del disagio psichico, come dimostrano i numeri dei suicidi e i recenti fatti di cronaca – si è persa l’occasione di superare gli istituti per infermi e minorati (art. 65 ord. penit.). Appare significativo denunciarlo in questo numero della Rivista, che contiene un obiettivo interamente dedicato al problema del rapporto tra disabilità e diritto.
In conclusione, gli esiti della riforma potrebbero essere massimati così: tutto dentro e niente (o poco) fuori.
Si tratta di un passo indietro che segna un fallimento soprattutto sul terreno del discorso pubblico e della cultura giuridica.
5. Cultura giuridica e giurisdizione
In fondo, il risultato primario che gli Stati generali dell’esecuzione penale si erano proposti era quello dichiarato dal ministro Orlando a Roma, il 18 maggio 2015, in occasione della presentazione: «gli Stati generali devono diventare l’occasione per mettere al centro del dibattito pubblico il tema (dell’esecuzione penale, n.d.r.) e le sue implicazioni, sia sul piano della sicurezza collettiva sia su quello delle possibilità di chi ha sbagliato di reinserirsi nel contesto sociale, senza commettere nuovi reati».
Il dibattito pubblico, come inevitabile, refluisce sulla cultura giuridica e, a cascata, sulla giurisdizione, quanto meno caricandola di responsabilità.
L’ultimo articolo di questo approfondimento è curato da Francesca Vianello e, prendendo le mosse dall’analisi dei processi decisionali in tema di misure alternative, attiene proprio al rapporto tra cultura giuridica ed esecuzione della pena.
Non si tratta di un ragionamento strettamente inerente alla riforma dell’Ordinamento penitenziario, ma tocca il cuore dei problemi che scivolano sotto i testi di legge: chi sono i destinatari delle misure alternative? Chi esce dal carcere per finire la pena fuori? Come e perché vengono concessi quelli che, nel linguaggio comune, vengono ancora definiti premi?
Abbiamo scelto il punto di vista di una sociologa del diritto convinti del fatto che, come è tradizione di questa Rivista, la giustizia sia una questione che va discussa, indagata e di continuo rimeditata nell’interlocuzione permanente con il punto di vista esterno.
L’analisi delle decisioni dei magistrati contenuta nel saggio passa da una condivisibile (anche se non da tutti condivisa) ipotesi di lavoro, che sembrerebbe trovare conferma nella lettura delle ordinanze. L’idea di fondo è che l’agire degli operatori del diritto sia guidato, oltre che dalla coscienza giuridica formale, anche da un’ideologia normativa che si costruisce e ricostruisce continuamente anche sulla base dell’influenza, più o meno consapevole, di riferimenti di senso comune, ragioni mondane, narrazioni dei media.
Il ragionamento vale a tutte le latitudini giudiziarie: basti pensare, ad esempio, alla complessa tematica dei delitti di soccorso o di solidarietà, dove è quasi inevitabile che i provvedimenti giudiziari muovano da scelte di valore – non da scelte di diritto libero, sia chiaro – che a posteriori trovano giustificazione e copertura nella legge.
Di sicuro, comunque, la giurisdizione della sorveglianza è destinata continuamente a confrontarsi con il clima esterno. Di volta in volta, pertanto, ogni decisione potrà apparire adagiata sull’opinione corrente o severamente in contrasto con essa; potrà favorire un meccanismo di selezione basato sul possesso di risorse economiche significative o rivelarsi antagonista a tale meccanismo; premierà chi ha già conseguito la risocializzazione o utilizzerà la misura come strumento rieducativo.
Quel che qui preme sottolineare, comunque, è che l’approdo riduzionista delle riforme – il tutto dentro e niente fuori di cui si è detto – contribuirà a definire quel clima esterno, a produrre nuove ragioni mondane e a costruire un senso della pena destinato a influenzare (il termine è utilizzato in senso descrittivo) le scelte giurisdizionali non solo sul piano del dialogo normativo, ma anche su quello del dialogo culturale.
Occorrerà verificare, in questo inevitabile confronto, quale posto in concreto verrà assegnato alla narrazione e al senso della pena stabilito dall’art. 27 della Costituzione.
6. Postilla: Stefano e il carcere trasparente
All’esito di queste veloci riflessioni, una conclusione pare doveroso dedicarla a un passaggio specifico della riforma.
L’art. 11 dell’Ordinamento penitenziario, nell’impostazione dei primi schemi di decreto, conteneva un passaggio decisivo: il dovere per il medico, durante la visita di primo ingresso, di annotare nella cartella clinica, anche mediante documentazione fotografica, ogni informazione relativa a segni o indicazioni che facciano apparire che la persona possa aver subito violenze o maltrattamenti, con obbligo di darne comunicazione al magistrato di sorveglianza e al direttore dell’istituto.
Nel testo dell’ultimo decreto, tuttavia, scompare ogni riferimento alla documentazione fotografica.
Non è un dettaglio: è il sigillo su un carcere meno trasparente. Si tratta, infine, di un’occasione persa per chiedere scusa in modo politico e progettuale a Stefano Cucchi. Scegliamo il suo nome, in questo momento, per rappresentare tutte le vittime di tortura.
[1] F. Gianfilippi - G. Giostra, Quel che poteva essere (e la necessità di perseverare), in questo numero di questa Rivista trimestrale.
[2] Una panoramica approfondita e suggestiva su queste tematiche in L. Marini, Carcere, droga e intervento penale in Usa. Un dibattito aperto, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2015, www.questionegiustizia.it/rivista/2015/3/carcere_droga-e-intervento-penale-in-usa_un-dibattito-aperto_271.php.
[3] S. Margara, Quale giustizia? Repetita non iuvant: ancora sulla pena e sul carcere, in questa Rivista trimestrale (edizioni Franco Angeli), Milano, 5/2002 e ancora su questa Rivista trimestrale, 2/2015, www.questionegiustizia.it/rivista/2015/2/quale-giustizia_repetita-non-iuvant_ancora-sulla-pena-e-sul-carcere_243.php..
[4] A. Pugiotto, Preferirei di no. Il piano pericolosamente inclinato della giustizia riparativa, in F. Corleone - A. Pugiotto, Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa, Ediesse, Roma, 2013, p. 257.
[5] Un anno in carcere. XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione, reperibile su www.antigone.it.
[6] D. Terlizzese, Persone dietro i numeri. Un’analisi del rapporto tra sistemi penitenziari e recidiva, in questo numero di questa Rivista trimestrale.
[7] M. Miravalle - A. Scandurra, Il carcere che non cambia. Tendenze e numeri del sistema penitenziario italiano alla vigilia di un’importante stagione, mancata, di riforma, in Un anno in carcere. XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione, in www.antigone.it.